Rivista "IBC" XXI, 2013, 2
territorio e beni architettonici-ambientali / itinerari, pubblicazioni, storie e personaggi
L'essere umano procede, si può dire "naturalmente", alla ricerca di una visione ordinata delle cose e della propria storia lungo i secoli. Certo non mancano le fonti, più o meno lontane nel tempo rispetto a chi le compulsa, scritte e non scritte, più o meno attendibili. Anche chi studia il passato di una città come Bologna deve necessariamente interrogare quanto i secoli passati hanno tramandato, in forma materiale e immateriale, muovendosi entro i margini di un dialogo che si costruisce progressivamente, non senza arresti e anche ritorni sui propri passi. Talvolta, si incorre in errori interpretativi e anche sostanziali, purtroppo marchiani.
Da una congerie di simili svarioni prende l'avvio, all'insegna di un'amara ironia, l'opera di Tiziano Costa, che con uno stile accattivante e basi culturali solide passa in rassegna una lunga sequela di fatti, idee e personaggi della storia bolognese per smascherarne la natura menzognera, frutto di scarsa conoscenza e, in certi casi, del tentativo di "aggiustare", di "adattare" il passato alle aspettative del presente, per fini propagandistico-commerciali. Come afferma correttamente la premessa di Mario Fanti, vicepresidente della Deputazione di storia patria per le province di Romagna, "raccontare anche le leggende e le frottole sul passato di una città non è un delitto perché le une e le altre rientrano nella storia della storiografia e della cultura locali, e possono essere uno specchio della mentalità individuale e collettiva. Ma a una condizione: che si dica chiaramente che si tratta di leggende e di frottole, e che a queste si contrapponga la verità (quando la si conosca) o le ipotesi meno improbabili che la ricerca storica qualificata ha potuto elaborare".
Talvolta l'errore si è rivelato quantitativo: addirittura duecento torri sarebbero svettate sull'orizzonte medievale cittadino! Talvolta, invece, l'errore è stato... letterale: toponimi come "Felsina" e "Ponte di ferro", o idronimi come "Aposa", prima di essere spiegati nell'Otto-Novecento secondo categorie storico-linguistiche, vennero assunti all'interno di racconti leggendari e accolti come veritieri. Si pensi, a tal proposito, a quanto narrano la cronaca cittadina quattrocentesca del frate Girolamo dei Borselli e l'appendice che si ritrova, alcuni decenni più tardi, nella cronaca di Leandro degli Alberti. Talora si è voluto piegare la realtà a schemi demonologici: di qui i presunti 666 (!) archi che si susseguirebbero sotto al lungo porticato che collega la pianura al Santuario della Beata Vergine di San Luca.
Sulle orme di Fanti, insistiamo sul fatto che il travisamento della storia, e i "prodotti intellettuali" che ne conseguono, sono ovviamente da stigmatizzare, ma rappresentano comunque una sorta di "verità", ossia sono la testimonianza delle interpretazioni susseguitesi nel tempo: se non ci illumineranno su quanto è realmente accaduto, ci daranno modo però di decifrare come la storia è stata di volta in volta percepita, riletta, rivissuta. Si tratta, in conclusione, di aspetti della fisionomia culturale di una comunità.
Azioni sul documento