Rivista "IBC" XX, 2012, 3
Dossier: Scossa ma non arresa - L'Emilia-Romagna dopo il terremoto
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La sismologia moderna ha portato a esplorare con grande precisione l'interno della Terra. La fisica dei terremoti, invece, è tuttora in buona parte sconosciuta, tant'è che un evento distruttivo sorprende chiunque, a cominciare dai professori di sismologia. Questi ultimi, ovviamente, dopo l'evento arrivano a frotte e freneticamente ne interpretano le forme d'onda, ne studiano gli spettri d'accelerazione, ne interpretano ogni minimo dettaglio analizzando i dati prodotti da raffinatissimi strumenti posti sulla Terra e intorno a essa (come i satelliti geodetici) per ricavarne meccanismi focali, tomografie, mappe delle dislocazioni in 3D e 4D, eccetera eccetera.
Tutto ciò si traduce in un mare di informazioni - e di pubblicazioni scientifiche - da cui sembra trasparire che di quel terremoto, e dei terremoti in generale, si capisca tutto. Ma si capisce solo dopo, mentre prima degli eventi, quando sarebbe molto più importante, nessuno capisce né è in grado di spiegare praticamente nulla. La situazione purtroppo non è cambiata dal grande terremoto che distrusse Lisbona nel 1755 o dal "mostro" del 1693, il terremoto di Noto, che con una magnitudo Richter vicina a 8 è stato probabilmente il più grande sisma dell'area mediterranea di tutti i tempi. La sua devastazione coinvolse l'intera Sicilia sudorientale, da Catania a Siracusa, sino a Ragusa, Modica e Scicli, dando poi origine a una ricostruzione quarantennale che decretò la meravigliosa nascita del barocco siciliano.
La verità è che di terremoti, a dispetto dei progressi della sismologia e della tecnologia, sappiamo ancora molto poco. Non possiamo non chiederci il perché. Non possiamo non chiederci perché il nostro modello fisico di terremoto sia ancora fermo allo stick slip, lo scorrimento a scatti su un piano di faglia ipotizzato da Reid nel 1906, subito dopo il terremoto di San Francisco. Soprattutto non possiamo non chiederci se il motivo di questa evidente sterilità non stia proprio nell'equazione "faglie attive = terremoti". In realtà questa equazione nasce dalla geologia ed è necessario considerare il fatto che la geologia - come la storia - è una disciplina che per definizione descrive e analizza esclusivamente il passato. Usare questa equazione equivale a identificare i terremoti con le "faglie attive", riconosciute come tali perché già sorgenti di terremoti nel passato strumentale, storico o paleosismico, intendendo con quest'ultimo termine lo studio delle faglie con metodi archeologici.
In pratica, però, accettare l'equazione "faglie attive = terremoti" è a dir poco riduttivo, visto che tutti i forti terremoti strumentali in California sono avvenuti su faglie che non erano state identificate precedentemente - vedi i terremoti di Kern County (1952), San Fernando (1971), Loma Prieta (1989), Landers (1992), Northridge (1994) - e la California è di certo la zona del mondo meglio studiata, nonché quella in cui le faglie esposte si vedono più facilmente. In generale, poi, i terremoti catastrofici avvengono su faglie sulle quali non ci si sarebbe aspettato un evento di magnitudo così elevata (solo per citarne alcuni: Spitak, Armenia, nel 1988; Paesi Bassi nel 1992; Latur, India, nel 1993; Bam, Iran, nel 2003; Tohoku, Giappone, 2011).
Pur con tutti i suoi limiti, la suddetta equazione garantisce comunque una certa capacità previsionale, tant'è che essa sta alla base delle normative sismiche in tutti i paesi del mondo. Queste normative definiscono la probabilità di occorrenza di scuotimenti sismici, l'hazard sismico indipendente dal tempo "à la Cornell" (dal nome dell'ingegnere americano che ne è stato il promotore oltre quarant'anni fa). Usando procedure computazionali standard, vengono quindi redatte le mappe della scuotibilità attesa, che stabiliscono le regole per edificare le nuove costruzioni e ristrutturare quelle esistenti. È questa la mappa che si vede sempre in televisione dopo un terremoto. C'è però un problema di fondo, di cui non si parla mai: mappe di questo tipo sono efficaci in paesi come gli Stati Uniti, dove la vita media di un edificio è di 50 anni. In Italia, invece, mappe di questo tipo sono praticamente inutili.
Qui, infatti, il patrimonio edilizio è "vecchio" e il 90% del totale non è conforme ad alcuna normativa antisismica. Nel caso poi del patrimonio storico e artistico, questo valore arriva quasi al 100%. Quindi le mappe di scuotibilità sismica, giuste o sbagliate che siano, riguardano una frazione minuscola del patrimonio edilizio, e comunque la frazione meno preziosa. La verità è che gran parte del territorio italiano - praticamente tutto il paese con l'esclusione della Sardegna e di piccole zone del Piemonte, della Lombardia e della Puglia - è esposto a scuotimenti potenzialmente distruttivi e che la maggior parte delle costruzioni è in condizioni di vulnerabilità ignote.
Appare quindi prioritario, al di là di ogni altra considerazione, valutare urgentemente questa vulnerabilità sismica, a cominciare da quella che riguarda il patrimonio artistico, che è un bene di tutti. Nessuno può dimenticare il crollo in diretta TV della volta della basilica superiore di Assisi, mentre i geofisici Franco Barberi, allora responsabile della Protezione civile, ed Enzo Boschi, allora (e sino allo scorso anno) presidente dell'Istituto nazionale di geofisica, tranquillizzavano gli italiani sull'evoluzione benigna della crisi sismica di Umbria e Marche nel 1997.
Occorre stabilire quali sono gli edifici a maggior rischio e provvedere prontamente a un loro risanamento. Le tecniche di analisi di vulnerabililtà esistono; sono veloci, non invasive e relativamente poco costose: basta misurare le frequenze di risonanza degli edifici e del sottosuolo usando come funzione di eccitazione il rumore sismico ambientale, che è sempre presente ovunque. È infatti il coincidere di questi due insiemi di frequenze a produrre quell'amplificazione sismica che è la prima causa delle distruzioni.
Non necessariamente tutte le situazioni sono critiche. Per esempio, misure recentemente condotte con queste tecniche dal mio gruppo di ricerca su tre "torri storiche" italiane - la torre degli Asinelli a Bologna, la torre di Pisa e il campanile di San Marco a Venezia - hanno dato valori di vulnerabilità sismica decisamente bassi.1
In ogni caso, una volta identificate le strutture a rischio, e stabilita una lista di priorità, esse vanno rinforzate con opportune tecniche di retrofit. Anche queste tecniche sono ben note, e hanno costi molto inferiori rispetto a una ricostruzione postuma. Con una sostanziale differenza, però: mentre dopo si ricostruisce quello che è crollato, prima occorre rinforzare qualcosa che sta tranquillamente in piedi. Qui ci si scontra con un paradosso, che è l'elemento chiave di tutta la questione. I denari investiti in un centro commerciale o in un nuovo quartiere o in una strada hanno un riscontro pratico immediato: li vedono tutti. Al contrario, un perfetto adeguamento antisismico ha un effetto per niente appariscente: nel caso di un terremoto non succede nulla di nulla, non crollano edifici e non muore nessuno. Ma se tutto rimane com'è, cosa c'è da esibire all'elettore? La verità è che i "non morti" sono indistinguibili da tutti gli altri vivi e, come tali, non fanno notizia.
Nota
(1) S. Castellaro, F. Mulargia, How Far from a Building Does the Ground-Motion Free-Field Start? The Cases of Three Famous Towers and a Modern Building, "Bulletin of the Seismological Society of America", 100, 2010, 5A, pp. 2080-2094.
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