Rivista "IBC" XX, 2012, 3
Dossier: Scossa ma non arresa - L'Emilia-Romagna dopo il terremoto
musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali, biblioteche e archivi, dossier /
Quando la notte del 20 maggio 2012 il primo forte terremoto ha colpito l'Emilia, la prima reazione è stata di incredula sorpresa. Ero a L'Aquila, quella notte, dove la sera precedente avevo partecipato all'inaugurazione della mostra conclusiva di un coraggioso progetto sul terremoto con il locale Istituto d'arte. Sono stato svegliato dal telefono, quindi, e per alcune ore telefono e rete sono stati il filtro verso una realtà che ho toccato con mano nel pomeriggio del giorno stesso, visitando Sant'Agostino, Finale Emilia, San Felice sul Panaro... I giorni successivi sono stati di lavoro frenetico, impegnato con i colleghi nel rilievo del danno, nella rivisitazione delle conoscenze sismologiche e storiche, nel tentativo di collocare la vicenda in un quadro adeguato delle conoscenze disponibili. Poi la drammatica sequenza del 29 maggio a rimettere tutto in discussione, a complicare il lavoro che stava prendendo forma, e porre nuovi interrogativi.
La sorpresa iniziale, in verità, non aveva molte ragioni di essere, salvo quella legittima di fronte a ogni forte terremoto inatteso, come lo sono tutti. La sismicità dell'area, decisamente moderata rispetto ad altre aree del territorio regionale, e ancor più rispetto a settori del territorio nazionale molto più pericolosi, era relativamente ben conosciuta (pur con lacune evidenti, già emerse in letteratura), soprattutto nei settori della pianura reggiana e del ferrarese (l'arcinota sequenza del 1570); anche dal punto di vista geologico la zona era stata studiata da decenni e da almeno una decina di anni era nota in letteratura la faglia sismica attiva di Mirandola, al punto da costituire l'argomento principale contro la realizzazione del progetto di stoccaggio di gas metano a Rivara, nel Modenese. E non è un caso se nel 2003, in ritardo di almeno 6-7 anni sulle prime mappe di pericolosità di concezione moderna, l'area era stata classificata sismica in zona 3, con una magnitudo massima attesa di 6.2.
A distanza di un paio di mesi, la vicenda può essere collocata correttamente nel suo contesto: due settori della dorsale ferrarese hanno generato, il 20 e il 29 maggio 2012, i terremoti storici più forti della storia sismica nota dell'area (il sisma del 1570 appartiene a un segmento più orientale dello stesso sistema di faglie), con una sequenza di oltre 2.000 scosse (fino al momento in cui scrivo) e un impatto materiale molto forte su una delle aree più abitate ed economicamente più rilevanti dell'intero paese.
Il territorio colpito dal terremoto è certamente uno dei più vitali e avanzati del paese, non solo dal punto di vista economico, anche da quello sociale e culturale. Un territorio ricco, operoso, ben organizzato, ben amministrato, ricco di storia e di cultura. Un territorio che però si è rivelato profondamente vulnerabile.
Un primo bilancio degli effetti materiali ha rivelato, impietosamente, l'elevatissima vulnerabilità sismica del patrimonio edilizio storico-monumentale (chiese e campanili, rocche, torri, eccetera), dell'edilizia storica a uso pubblico (palazzi comunali, scuole) e soprattutto dei capannoni a uso agricolo, artigianale e industriale. Una vulnerabilità che non si spiega semplicemente con l'adozione tardiva di una normativa sismica, dall'assenza di consapevolezza di una pericolosità sismica, giustificabile forse per la relativa frequenza di terremoti significativi (frequenti, però, nei settori reggiano e modenese). Una vulnerabilità che è imputabile soprattutto a una scarsa cultura della manutenzione (quante chiese ridotte in condizioni fatiscenti, quanta parte di edilizia rurale in abbandono) e a scelte costruttive recenti, soprattutto nel comparto produttivo, che hanno dimenticato una saggezza antica e pratiche edilizie che hanno retto benissimo la prova, pur in assenza di saperi tecnici specifici (ma questo lo diranno analisi ben più approfondite).
L'assenza di consapevolezza del rischio ha certamente radici profonde, che hanno a che fare in senso stretto con la cultura e con la memoria. La sorpresa per l'occorrenza di un evento considerato estraneo alla propria storia non è propriamente giustificata. Sia sul versante ferrarese che in quelli modenese, bolognese e reggiano, sono tante le tracce dei forti terremoti del passato. Tracce materiali (per esempio, l'architrave del portale del duomo di Nonantola che ricorda il grande terremoto del 1117) e tracce culturali (la presenza del culto di santi protettori dal terremoto, come San Francesco Solano e Sant'Emidio; le tante testimonianze ferraresi che ricordano la sequenza del 1570; la Madonna del Terremoto di Argenta).
Ma la cosa più sorprendente in un contesto sociale di evidente benessere, di elevata scolarizzazione e di grande vivacità culturale (testimoniata dalla notevole offerta di manifestazioni musicali, teatrali e artistiche, non limitata alle grandi città) è stata la proliferazione virale di false notizie, voci, bufale, rumors, che ha alimentato e continua ad alimentare, nell'opinione pubblica, tensioni e diffidenze nei confronti delle amministrazioni pubbliche, del sistema di protezione civile e della comunità scientifica. È un fenomeno che si era già manifestato dopo la sequenza sismica aquilana del 2009, ma che in Emilia ha assunto proporzioni enormi, trasformandosi in problema sociale.
La consapevolezza del rischio, in questo caso del rischio sismico, è il punto. Come è possibile rendere le persone consapevoli di un rischio di cui non si fa esperienza frequente nella propria vita e nel proprio contesto? E, per affrontare un rischio, è sufficiente essere consapevoli della sua presenza? A queste e ad altre domande tentano di rispondere le esperienze (non numerose, in verità) di formazione e di educazione al rischio.
Quel processo che generalmente chiamiamo educazione consiste nella trasmissione, formale o informale, di conoscenza. In questo processo il contenuto dell'informazione diviene conoscenza solo quando è collocato in un contesto che gli dà significato e una qualche rilevanza all'azione. In questo senso la conoscenza è parte di un sistema che guida la comprensione della realtà e l'agire umano su quella realtà. Questo approccio è fondamentale per orientare un percorso educativo sui rischi naturali, che ha come obiettivo esplicito la modifica di scelte e comportamenti, personali e collettivi.
La distinzione epistemologica, ben chiara nella lingua inglese, fra hazard e risk - più incerta, nella lingua italiana, quella fra pericolo (o pericolosità) e rischio - include la consapevolezza che il rischio è determinato dall'agire umano. Questa consapevolezza nel senso comune è generalmente molto ridotta, anche per un effetto di straniamento prodotto dalla ricorrente spettacolarizzazione mediatica delle catastrofi naturali.
Del resto in Italia non esiste una tradizione consolidata di diffusione di informazioni sui rischi attraverso i normali percorsi curricolari, e il generale incremento della circolazione di informazioni scientifiche per il pubblico attraverso i nuovi media (internet, canali satellitari, supporti digitali) ha prodotto e produce, paradossalmente, non un incremento di consapevolezza del rischio, ma una sua percezione distorta, che si focalizza su eventi e aree lontane. Iniziative di comunicazione e sensibilizzazione su larga scala ci sono state, in passato, ma hanno sempre avuto un carattere occasionale e non hanno lasciato tracce significative. Il risultato è che, quando da noi si parla di terremoto, l'associazione più immediata che viene proposta nel senso comune è con la California o il Giappone: molte persone conoscono il nome della faglia di Sant'Andrea, nessuno conosce il nome di una faglia italiana.
Con la consapevolezza di queste anomalie nella percezione del rischio, che ha varianti molto forti su scala nazionale (e andrebbero studiate a fondo), il progetto "EDURISK", fin dal suo avvio nel 2002, ha focalizzato molta della sua attività nella riscoperta condivisa delle tracce di eventi del passato nel territorio, nella cultura, nell'arte, nella tradizione locale, e nell'avvio di percorsi di riconoscimento del rischio in ciascun preciso contesto (www.edurisk.it).
In oltre dieci anni di attività ininterrotta il progetto ha coinvolto circa 150 istituti, dal Friuli alla Sicilia, attraverso la formazione diretta di circa 3.500 insegnanti e un lavoro educativo continuativo che ha coinvolto circa 50.000 studenti. Il progetto ha avuto sempre l'obiettivo di individuare e sperimentare percorsi formativi, dalla scuola per l'infanzia alla scuola secondaria, attraverso il coinvolgimento dei diversi ambiti dell'esperienza umana che in vario modo si misurano con il rischio, sottraendo così questo lavoro all'ambito strettamente scientifico-naturalistico. La condivisione delle conoscenze scientifiche più avanzate è importante, ma lo è altrettanto la riscoperta delle tracce che le catastrofi naturali del passato hanno lasciato nell'ambiente fisico e costruito, così come la conoscenza delle tracce del rapporto fra uomo e calamità nella cultura, nelle tradizioni, nelle espressioni artistiche.
Educare al rischio significa promuovere la coscienza che esso è un elemento della vita quotidiana, e connota con un carattere ben definito il territorio in cui si vive: la conoscenza della vulnerabilità dell'ambiente fisico e costruito, acquisita facendone esperienza, è la chiave per promuovere comportamenti individuali e sociali positivi, e per ridurre il rischio.
In tutto questo lavoro sono entrate in gioco tante competenze presenti nel mondo della ricerca (fisica, geologia, storia, ingegneria, psicologia, eccetera); altrettanto importante è stato il contributo delle numerose collaborazioni avviate con pedagogisti, esperti di progettazione educativa, autori di libri per ragazzi, illustratori, fumettisti, progettisti multimediali, esperti di comunicazione.
Se dovessimo fare un bilancio di quanto la comunicazione scientifica e le attività di educazione al rischio in questi dieci anni siano riuscite a incidere sul contesto emiliano sulla base di quanto questa sequenza sismica ha rivelato, tale bilancio sarebbe decisamente fallimentare.
Ha fallito la comunicazione scientifica, in termini generali, quando nel 2003 questi territori sono stati, per la prima volta, classificati come "sismici" (in zona 3, a pericolosità media, non nella classe di pericolosità più bassa): nel senso comune, a dieci anni di distanza, quest'area invece era considerata, erroneamente, non sismica.
Esperienze significative di educazione al rischio non ci sono state ("EDURISK" ha operato principalmente altrove) o hanno affrontato rischi di altro tipo (come le alluvioni): il tema del rischio sismico è rimasto sempre nell'ombra.
Il territorio e la popolazione colpita hanno manifestato, in verità, risorse inusuali: una buona qualità del patrimonio edilizio recente a uso abitativo (pur costruito in assenza di normativa), una buona capacità di gestire la situazione di emergenza. Tuttavia il costo economico e sociale di un terremoto che in altri paesi avrebbe prodotto effetti modesti è stato tremendamente elevato.
Significa che il lavoro da fare è ancora lungo: e l'obiettivo di un lavoro educativo non può più essere ridotto semplicemente ad acquisire i comportamenti corretti in emergenza, ma deve andare decisamente verso l'obiettivo della riduzione del rischio. L'obiettivo deve cioè diventare l'attivazione di un processo virtuoso di miglioramento costante della qualità dell'ambiente costruito, attraverso interventi di riduzione della vulnerabilità sismica di tutto il patrimonio presente sul territorio. Gli effetti del prossimo forte terremoto dipendono strettamente dalle scelte che andremo a fare da oggi in poi.
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