Rivista "IBC" XX, 2012, 3
musei e beni culturali / mostre e rassegne, restauri, storie e personaggi
L'incubo, come l'orrore, ha sempre in sé qualcosa di straniante. Lo sanno bene gli archeologi e gli antropologi entrati per primi nella cripta della chiesa di Roccapelago: quella catasta indistinta di uomini e donne scarsamente vestiti, di corpi scomposti, in un caso almeno in posizione decisamente grottesca (un uomo di cui emergevano solo le gambe divaricate), sembrava la replica dei cadaveri ammassati nei campi di sterminio.
Un'immagine potente, al limite del surreale, di cui ricordano chiaramente la luce che, cadendo dall'alto, creava un ambiente ovattato, raccolto, devoto. "Eravamo sorpresi e sgomenti" - raccontano - "ma non c'era panico nelle nostre emozioni. Un vento costante penetrava dalle piccole feritoie, il clima era secco e l'aria odorava di polvere, non di putrefazione. Eravamo spaesati, ecco tutto: a dispetto di ciò che vedevano i nostri occhi, quel vento non sapeva di morte ma di pace".
Fin qui la cronaca. La storia invece, in parte ancora da raccontare, è scritta in quei cenci rattoppati come gli umili che li indossavano, nelle bende pietose, nei fermagli a tutela delle pudenda, nei rosari, nei crocifissi e nelle medaglie che dovevano propiziare l'accesso a un mondo migliore, affinché quei poveracci accatastati uno sull'altro, quel groviglio di teste, braccia, gambe e mani, non fossero solo una massa informe di umanità, una piramide di carne e dolore, ma tramandassero il rispetto per una vita dura eppure onestamente vissuta e il ricordo indelebile di chi li aveva amati.
Il 2011 era appena iniziato quando gli archeologi che collaboravano ai lavori nella Chiesa della Conversione di San Paolo Apostolo, a Roccapelago di Pievepelago, nell'Alto Frignano modenese, hanno fatto una delle più singolari scoperte degli ultimi anni, almeno per l'Italia settentrionale. Una fossa comune con 281 inumati, di cui circa 60 mummificati, sepolti dalla metà del Cinquecento alla fine del Settecento. Li hanno trovati per caso, scoperchiando il soffitto della cripta: sotto un sottile strato di macerie, è apparsa una montagna di ossa, pelle, tendini e capelli, ancora avvolti in sacchi-sudari, con camicie, calze, cuffie e piccoli oggetti d'uso quotidiano. Uomini, donne, infanti e bambini che un fortunato mix di ventilazione e clima secco ha conservato fino a oggi, restituendoci i morti di un'intera comunità.
Nei racconti di chi ha scavato a Roccapelago ricorre spesso una parola. Tenerezza. Hanno passato mesi tra quei corpi accatastati, le vesti, i poveri monili, li hanno districati con il rispetto che si deve a una persona cara, trattando con pietà quei tessuti molli mummificati con la propria fauna cadaverica. E nel luglio 2012 hanno inaugurato la mostra "Le Mummie di Roccapelago (XVI-XVIII secolo): vita e morte di una piccola comunità dell'Appennino modenese", ospitata nel luogo del ritrovamento fino al 14 ottobre.1
Vania Milani e Mirko Traversari, gli antropologi che hanno curato l'allestimento, hanno scelto di non esporre i corpi nelle teche (trasformandoli in reperti) ma, caso unico in Italia, hanno preferito adagiare alcune mummie nella cripta, replicando il più possibile la sepoltura originaria e, di fatto, riportandole "a casa".
La Chiesa della Conversione di San Paolo Apostolo sorge su uno sperone roccioso con una sola via d'accesso, che fu sfruttato tra il 1370 e il 1400 per insediarvi una fortezza presidiata da Obizzo da Montegarullo, uno dei più potenti signori del Frignano, ribelle al dominio agli Estensi. Sul finire del Cinquecento, quando ormai la rocca militare era in disuso, una parte fu riadattata per realizzare una chiesa parrocchiale, che raggiunse la massima giurisdizione territoriale nel XVII secolo.
Dal 2008 al 2011 il complesso è stato oggetto di un importante lavoro di restauro architettonico, preceduto da una serie di controlli archeologici effettuati sotto la direzione scientifica della Soprintendenza per i beni archeologici dell'Emilia-Romagna. Oltre al recupero di due vani del castello medievale e di sette tombe con sepolture multiple, gli scavi hanno scoperto un ambiente voltato interrato, che in origine era pertinente alla rocca, ma che dopo la costruzione della chiesa fu trasformato prima in cripta cimiteriale (con sepoltura nel sottosuolo) e poi in fossa comune (con deposizioni multiple sopraterra). Questa fossa è stata probabilmente chiusa alla metà dell'Ottocento, sigillando per sempre una miniera di informazioni sulla piccola comunità di Roccapelago.
Lo studio dei resti rinvenuti nella cripta svela usi, costumi, religiosità e malattie di una collettività di contadini di montagna. Le camicie usate per tutta la vita, quasi sempre di lino, filate sul posto, rammendate più volte e dappertutto. Le monete, scarsissime, perché più che a Caronte servivano ai vivi (come d'altronde i vestiti). I tanti lasciapassare della fede, indispensabili a un ultimo viaggio che per molti era anche il primo. E i gesti di pietas, le amorevoli cure su quei morti troppo spesso "al cielo cari", visto il gran numero di giovani donne e bambini.
La mostra, curata dall'antropologo Giorgio Gruppioni e dall'archeologo Donato Labate, ha esposto 12 mummie e circa 150 tra i reperti più significativi rinvenuti nello scavo, raccontando la vita di quell'umile gente, una piccola comunità montana di 40, 50 individui al massimo, uomini e donne in egual misura, vissuti abbarbicati sul loro cocuzzolo, a 1.095 metri di altitudine. Per una volta, la storia ha accantonato i potenti per dare volto e voce a tante creature passate anonime nel dramma della vita. Studiando i loro resti, esperti di tessuti e devozione religiosa, archeologi, antropologi e genetisti stanno ricostruendo la loro vita, scoprendo le abitudini dei contadini, le vesti intime, i modi di sepoltura, la dieta e le carenze alimentari, le malattie, i traumi e i tentativi di cura.
Secondo la studiosa di tessuti Thessy Schoenholzer Nichols, il solo fatto di disporre di indumenti è di per sé eccezionale: di solito si studiano gli abiti di personaggi di alto rango, se non di veri e propri regnanti; è raro poterlo fare con le vesti dei contadini di tre-cinque secoli fa. Le mummie di Roccapelago consentono non solo di studiare tessuti, fogge, cuciture e decorazioni utilizzati dalla povera gente, ma di farlo anche su indumenti in fibra vegetale (canapa e lino) che sono sempre i primi a deteriorarsi.
Il loro abbigliamento è costituito da una camicia e un sudario, quasi sempre di lino, e da un paio di calze, esclusivamente di lana; rara la presenza di seta e velluto, usati solo per due cuffie. Tutto è fatto con materie prime locali, filate e tessute sul posto. Le camicie erano usate per molti anni, forse per tutta la vita adulta: lo confermano i numerosi rattoppi, anche sovrapposti, che le ricoprono in ogni parte. La miseria non impediva comunque alle contadine di aggiungere dettagli vezzosi, come piccoli ricami o merletti a fuselli, realizzati in casa. Perfettamente conservato anche un commovente abito da bambino, con gorgiera.
Informazioni struggenti vengono dalle cure applicate alle salme prima dell'inumazione. I capelli delle donne erano acconciati con trecce e chignon, o raccolti in cuffie, le mani intrecciate in preghiera o adagiate sull'addome, le estremità legate per mantenerle unite, i menti fasciati per evitare che la bocca si spalancasse. Indossavano anelli, orecchini, collane o bracciali: gioielli semplici, mai in metallo prezioso. Tante le medaglie votive, riposte tra le pieghe degli abiti o in appositi sacchetti: ricorrono l'effigie di Sant'Emidio, protettore dai terremoti, la Vergine dei Sette Dolori, rappresentata con sette spade conficcate nel cuore, e la Madonna di Loreto, riprodotta anche su un pezzo di stoffa. Singolare il ritrovamento di una lettera di rivelazione posta sulla salma di Maria Ori: una sorta di contratto con Dio per avere protezione in cambio di preghiere.
Se un dado da gioco può far pensare a liete serate in buona compagnia, nel complesso gli antropologi non hanno dubbi: la vita degli abitanti di Roccapelago era durissima. Fratture e patologie ossee denunciano il trasporto di carichi pesanti su terreni impervi, i traumi testimoniano scontri violenti se non mortali. Diffusa tra le donne l'osteoporosi (favorita dalle tante gravidanze e dai lunghi allattamenti), mentre in tutti è evidente l'usura e la perdita dei denti, legata al consumo di alimenti poco adatti a preservare la dentatura (segale, crusca, castagne, noci). Altissima la mortalità delle giovani donne, falcidiate dai parti, e degli infanti dal primo anno di vita fino ai 6-7 anni; chi però varcava i vent'anni, soprattutto se uomo, poteva anche arrivare a un'età abbastanza avanzata per l'epoca, come attestano le numerose sepolture senili.
La mostra è stata il primo passo verso la ricostruzione della storia antropologica e bioculturale di questa piccola comunità e per lo studio dei processi microevolutivi delle popolazioni umane e del loro rapporto con l'ambiente e le risorse. Per fare ciò, la Soprintendenza per i beni archeologici dell'Emilia-Romagna e il Laboratorio di antropologia del Dipartimento di storie e metodi per la conservazione dei beni culturali dell'Università di Bologna (sede di Ravenna) hanno messo a punto un approccio pluridisciplinare che coniuga gli aspetti archeologici, antropologici e storici con un'attenta valutazione delle esigenze di esposizione e conservazione di reperti altamente deperibili quali i resti umani e i corredi tessili.
Mummie di questo tipo consentono spesso di ricostruire l'aspetto somatico dei defunti, mentre il DNA estratto dai resti apre la strada a innovative indagini genetiche di grande interesse biologico e medico-patologico (già in corso di programmazione). Lo studio degli scheletri fornisce indicazioni sulla dieta e su altri fattori riconducibili a malattie, stati carenziali, attività fisica svolta o eventi traumatici che hanno colpito i soggetti nel corso dell'esistenza. Le prime osservazioni sulle ossa, come si è detto, hanno già prodotto dati di grande interesse sulle particolari condizioni ambientali di sussistenza e isolamento geografico in cui è vissuta per secoli questa piccola comunità. Grazie alla disponibilità degli ospedali di Ravenna e Forlì, prima di essere esposte le 12 mummie sono state sottoposte a tomografia assiale computerizzata (TAC), un modo per carpire i primi segreti di questa gente, verificando cosa resti sotto i tessuti e mettendo a fuoco le varie patologie.
La valorizzazione di questo straordinario rinvenimento si avvarrà poi delle più moderne tecnologie digitali, a cominciare dalla ricostruzione tridimensionale delle sepolture più significative e dalla creazione virtuale di interventi di restauro e modelli di mummie, per offrire al pubblico, sotto forma di narrazione, la storia di questo straordinario ritrovamento.
Va infine sottolineato che, al termine degli studi, alcuni resti mummificati resteranno nel luogo del rinvenimento, mentre la maggior parte delle salme troverà degna e meritata sepoltura nel cimitero di Roccapelago.
Nota
(1) La mostra è stata promossa da: Soprintendenza per i beni archeologici dell'Emilia-Romagna; Laboratorio di antropologia di Ravenna - Dipartimento di storie e metodi per la conservazione dei beni culturali dell'Università di Bologna (sede di Ravenna); Comune di Pievepelago; associazione "Pro Rocca".
In collaborazione con: Accademia "lo Scoltenna"; Comunità montana del Frignano; Istituto per i beni artistici, culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna [l'IBC ha contribuito allo studio dei tessuti promuovendo il restauro, coordinato da Iolanda Silvestri e Marta Cuoghi Costantini, di una veste funebre, una cuffia e un paio di calze a cura dalla ditta RT Restauro Tessile di Albinea (Reggio Emilia); Costantino Ferlauto ha collaborato alla campagna fotografica di rilevamento delle mummie con attenzione all'apparato vestimentario, ndr]; Musei civici di Modena; Fondazione Centro conservazione e restauro "La Venaria Reale"; Parrocchia di Roccapelago; Provincia di Modena; Ufficio diocesano per i beni culturali ecclesiastici.
Con il sostegno della Fondazione Cassa di risparmio di Modena e il contributo di: IBC; Agenzia onoranze funebri "Gianni Gibellini"; Confederazione nazionale dell'artigianato e della piccola e media impresa (CNA) di Modena.
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