Rivista "IBC" XX, 2012, 2
Dossier: Le case delle parole - Viaggio nella Romagna dei poeti e degli scrittori
musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali, biblioteche e archivi, dossier /
"In questa sua casa / Vincenzo Monti / dal tumulto delle metropoli / veniva a ritemprare il suo genio / nell'intimità della famiglia / tra gli amici primi e più fidi". Inizia così l'epigrafe dettata da Carlo Piancastelli nel 1928, centenario della morte del poeta, e posta sulla facciata di Villa Monti a Maiano di Fusignano, dimora non frequente ma prediletta. Conosco questa epigrafe fin da quando la villa era meta di rituali visite scolastiche e noi bambini della campagna maianese eravamo affascinati dall'immenso andito con le pareti dipinte e dal grande scalone sul cui pianerottolo campeggiava il busto del poeta. Oggi, in questo severo palazzo settecentesco, passato in mani "straniere" nel primo Novecento, non c'è più la biblioteca, non ci sono più carte che ricordino la famiglia Monti, il poeta e sua figlia Costanza, le cui nozze con Giulio Perticari furono benedette il 7 giugno 1812 nella vicina chiesa della Beata Vergine del Pilar. Il palazzo rimane testimonianza muta, silenziosa, come silenziosa è la modesta casa natale del poeta ad Alfonsine. Le carte montiane (tra le quali i manoscritti dell'Iliade, della Feroniade, della Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca) forse non sono mai state nel palazzo di Maiano: sono rimaste per alcuni decenni nella Biblioteca di Carlo Piancastelli a Fusignano e ora si trovano nel Palazzo degli Istituti culturali di Forlì.
Da altre case le carte non si sono mai allontanate, come da quella di Marino Moretti a Cesenatico. Da altre ancora sono approdate in istituti pubblici: come i manoscritti di Renato Serra, conservati nella Malatestiana; le carte di Alfredo Oriani nella Biblioteca ravennate che porta il suo nome, dove si trova anche una piccola parte dei manoscritti di Olindo Guerrini; quelle di Antonio Beltramelli nella Biblioteca di Forlì; quelle di Alfredo Panzini e di Antonio Baldini rispettivamente nelle biblioteche di Bellaria e di Santarcangelo. O hanno accompagnato lo scrittore, come nel caso di Pascoli, che nella casa di Castelvecchio ha concluso la sua vita. Di altre carte di scrittori romagnoli (penso a Olindo Guerrini, ad Aldo Spallicci), ancora in possesso degli eredi, è incerto il destino. Eredi che dovrebbero seguire l'esempio di quanti hanno reso pubbliche le carte (e le case) ricevute.
Molti documenti si sono salvati grazie a chi li ha raccolti e gelosamente conservati, per poi destinarli a un'istituzione pubblica, come fece Carlo Piancastelli, che, agli inizi degli anni Trenta, confidava a un amico: "Le raccolte sono fatalmente destinate a scomparire rapidamente, affidate agli eredi [...]. Del resto è nella logica delle cose. Gli amori cambiano, le indoli si differenziano: si venderà, mettiamo anche nella migliore delle ipotesi, per creare altre raccolte di altro genere, ma si venderà. Quale il rimedio? Affidare le raccolte a un ente pubblico". E Piancastelli non solo destinò con disposizione testamentaria alla città di Forlì le sue raccolte, ma una parte di esse, la collezione di autografi, la consegnò quand'era in vita, accompagnando il dono con queste parole: "Se dicessi che mi allontano con impassibile freddezza da questa raccolta autografica, nessuno mi crederebbe; e infatti io mentirei. Un padre non vede con indifferenza uscire dal proprio tetto un figlio, anche se va incontro a un più felice avvenire. Ma sul sentimento prevalse la ragione. Sull'egoismo pur giustificabile del raccoglitore innamorato, prevalse l'interesse della cultura generale".
Il 21 marzo 2012, a Santarcangelo di Romagna, in piazza Ganganelli, "nella casa di Tonino Guerra è entrato il silenzio". Così i familiari hanno annunciato la morte del decano degli scrittori romagnoli. Il silenzio entra nelle case degli scrittori che ci hanno lasciato, dove non risuonano più le voci e i rumori della vita di ogni giorno. In silenzio le visitiamo. Nel silenzio riposano i libri e le carte, che sembrano condividere con gli autori il mondo dell'ombra.
Eppure basta fermarsi a leggere le lettere ricevute dagli scrittori, e le case (o le biblioteche) si animano di parole dai toni e dagli accenti diversi. Dagli epistolari, ha scritto Maria Corti, "arriva un gran brusio di voci, un frastuono di incontri scontri". Si possono ascoltare personaggi della vita culturale italiana di due secoli: i corrispondenti di Monti (Wilhelm von Humboldt, Giacomo Leopardi, Alessando Manzoni, Silvio Pellico, Madame de Stäel), di Oriani (Giulio Cesare Abba, Andrea Costa, Edmondo De Amicis, Eleonora Duse), di Panzini (Giosue Carducci, Giovanni Pascoli, Matilde Serao, Renato Serra, Sibilla Aleramo, Filippo De Pisis, Emilio Cecchi, Giovanni Papini, Giuseppe Prezzolini). E sterminato è l'epistolario conservato a Casa Moretti: oltre 14.000 pezzi suddivisi per circa 1.300 corrispondenti, che restituiscono una fitta rete di relazioni e di amicizie all'interno di una vivace comunità letteraria (Corrado Govoni, Sergio Corazzini, Guido Gozzano, Antonio Beltramelli, Federigo Tozzi, Aldo Palazzeschi, Umberto Saba, Manara Valgimigli, Carlo Betocchi, Vittorio Sereni), allargata agli amici francesi (Juliette Bertrand, Marcel Brion, Paul Hazard, Romain Rolland), agli artisti (Adolfo De Carolis, Filippo De Pisis) e agli editori (Ricciardi, Treves, Mondadori). E a Casa Moretti sono conservate lettere di Panzini, così come a Casa Panzini ci sono quelle di Moretti.
E si possono leggere i manoscritti o le bozze di stampa di molte opere dei nostri autori. Marco Antonio Bazzocchi, responsabile scientifico per Casa Panzini, ha messo in evidenza la bellezza e il fascino "che ancora oggi derivano dalle carte dello scrittore", carte che occorre vedere, sfogliare, "per poterle apprezzare, per seguire la penna di Panzini all'opera, il complicato incastro di fogli incollati e riscritti, di cancellature e riprese, di correzioni che caratterizzano il laboratorio di uno scrittore prima dell'avvento del computer o addirittura della macchina da scrivere"; i "manoscritti elaboratissimi, fatti di strisce incollate, dove la penna si alterna ai colori blu e rosso della matita, sembrano vere opere visive, collage intarsiati".
Viene da chiedersi perché mai uno scrittore conservi le diverse stesure di una propria opera, anche dopo la pubblicazione del testo definitivo: pagine e pagine di manoscritti e bozze di stampa pieni di pentimenti, di correzioni, di aggiunte. Per non dimenticare e non far dimenticare il lungo e faticoso lavoro della scrittura che ha occupato la sua vita? O per una sorta di mania di conservazione?
In una lettera a un amico, Piancastelli, bibliofilo con una particolare predilezione per le "carte", scriveva: "Perché uno spende tutta la sua vita per creare una raccolta qualsiasi, o Biblioteca o Museo, o quadreria o collezione magari di scatole di tabacco? perché tale raccolta gli sopravviva il maggior tempo possibile a testimoniare la sua attività, la sua personalità", e aggiungeva: "Non so rassegnarmi a morire del tutto e nel ricordo e nel cuore dei miei concittadini", limitando ai confini del paese il motivo oraziano non omnis moriar che egli aveva ripreso anche a conclusione dell'epigrafe celebrativa per Vincenzo Monti, dicendo che il poeta anelava tornare nella casa paterna per "compiere la sua stanca giornata / confidando di tutto non morire".
Anche le carte non dureranno in eterno, ma almeno sopravviveranno a chi le ha scritte e, alimentandone la memoria, ne prolungheranno la vita, così come gli oggetti che ci sono appartenuti e che dureranno più di noi; e, finché qualcuno di essi rimarrà, anche noi non moriremo del tutto. Dice il protagonista dell'ultimo monologo di Raffaello Baldini, La Fondazione, che tiene da conto tutto quello che gli passa per le mani: "Qui è che non muori, fintanto che ci rimane una sedia, una cravatta, una bottiglia d'inchiostro, vuota, sì, ma una bottiglia d'inchiostro che l'hai adoperato tu, che hai scritto tu, fintanto che ci rimane una cartolina che ti ha mandato un amico venti trent'anni fa, salutissimi da Venezia [...], fintanto che ci sono le carte delle melarance, che quelle davvero, ci sono quelli che fanno la collezione, e io le ho lì, ne ho che non si contano, e non è una collezione, quelle carte sono io".
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