Rivista "IBC" XIX, 2011, 2

musei e beni culturali / storie e personaggi

Raffaele De Grada, storico dell'arte, critico, politico (1916-2010).
Raffaelino in Romagna

Orlando Piraccini
[IBC]

C'è tanta Romagna nel lascito culturale di Raffaele De Grada, scomparso nel tardo autunno dell'anno scorso a Milano, all'età di 94 anni. Mai si potrà dimenticare il suo fattivo contributo alla conoscenza e alla promozione dell'arte in questa regione. Il contatto più ravvicinato e continuativo con la realtà romagnola va fatto risalire agli anni Settanta, il periodo della luminosa direzione dell'Accademia di belle arti di Ravenna. Qui De Grada era giunto nel '71 con il suo carico di notorietà come critico militante da sempre impegnato sul fronte politico.

Nato a Zurigo nel 1916, figlio d'arte, Raffaele De Grada (detto Raffaelino per distinguerlo dal padre pittore) era stato avviato all'interesse per l'arte da Raffaele senior, buon paesaggista, debuttante nel '26 alla prima mostra di "Novecento" promossa da Margherita Sarfatti, poi più volte alla Biennale veneziana e fino all'ultimo insegnante di belle arti. Fu subito grande amore questo interesse nel giovane De Grada (i primi articoli e saggi risalgono al '35), anche se subentrò ben presto la passione per la politica. Arrestato per attività antifascista nel 1938 e nel '43, dopo l'8 settembre, assieme a Curiel e a Pajetta, De Grada organizzò il Fronte della Gioventù in Lombardia e poi in Toscana, dove assunse il comando militare della brigata partigiana. A guerra finita, fu la prima voce di Radio Milano. Animatore del dibattito culturale e artistico sul fronte del realismo, nell'immediato dopoguerra svolse intensa attività politica all'interno del Partito comunista italiano e come consigliere comunale milanese, fino all'elezione in Parlamento nel '59.

Dal 1965 all'86 è stato titolare della cattedra di Storia dell'arte all'Accademia di Brera. Contemporaneamente ha svolto un'intensa attività come studioso e critico d'arte (a lui si devono saggi fondamentali sulla pittura dell'Ottocento italiano, dai Macchiaioli a Boldini, e sul Novecento). Tra i tanti incarichi ricevuti vanno ricordati quelli di consigliere della Scala e del Museo "Poldi Pezzoli" di Milano, di commissario alla Biennale di Venezia, di direttore di importanti istituzioni accademiche. Con la chiamata a Ravenna, ebbe il compito di ridare lustro a una scuola di grande tradizione, ma a quel tempo ancora priva di riconoscimento ministeriale e in uno stato di così grave difficoltà, a livello gestionale, da suggerire all'Amministrazione comunale e a quella provinciale di associarsi in un ente consortile per il rilancio dell'istituto.

"Mi chiamarono all'Accademia di Ravenna" - ha raccontato lo stesso De Grada - "per cercare di rinvigorire un'istituzione che era in decadenza. Chiamai alcune personalità come Giò Pomodoro, Luca Crippa e altri, che portarono l'insegnamento accademico sul piano dell'oggetto, del design, della formazione scenografica di tipo nuovo, e devo dire che i risultati furono eccellenti. Ciò però non comportava la distruzione dell'opera di coloro che insegnavano pittura e scultura; anzi, costoro furono sollecitati a dare un carattere più formativo anche in senso pratico (per esempio, come si usa il colore, come si può passare dal disegno alla formazione plastica, eccetera), che aiutò molto e da quella Accademia uscirono allievi veramente capaci".

È certo che andranno rivisitati a fondo quei tumultuosi primi anni Settanta dell'Accademia in formato De Grada, con il suo straordinario cumulo di aspirazioni e progetti, ma anche di clamorose rivalse e di contestazioni. È stato scritto a questo proposito che la sua direzione risentì di un'impostazione ancora veteromarxista, attenta soprattutto a un approccio di tipo realista. Sarebbero dunque state le aspre contestazioni studentesche per una supposta chiusura nei confronti delle cosiddette avanguardie e delle ultime tendenze internazionali, e certi contrasti all'interno del corpo docente, ad allontanare il critico da Ravenna, dopo soli cinque anni di direzione.

Non può essere però sminuita la formidabile visibilità raggiunta in breve dall'Accademia "sotto De Grada", dovuta anche alla chiara fama di alcuni docenti (fra i quali ci piace qui ricordare Tono Zancanaro, maestro ineguagliabile di disegno e d'incisione). E fu allora che, finalmente, i portoni della scuola si aprirono alla città e al territorio e si provò a insegnare e a praticare l'arte all'interno delle aule con lo sguardo alla realtà circostante, e un'attenzione alla creatività applicata al mondo del lavoro.

C'è molto da ricordare su De Grada in rapporto all'ambiente artistico ravennate e romagnolo di quegli anni. Fu lui a presentare, nel 1974, l'antologica dedicata a Giò Pomodoro alla Loggetta Lombardesca, sede dell'Accademia, e, appena un anno dopo, assieme a Pierre Restany, i memorabili "Dodici anni di angurie" di Mattia Moreni. Andrebbero poi menzionate, a una a una, le tante occasioni d'incontro con le comunità locali, le mostre nelle piccole città d'arte del circondario ravennate a quel tempo capeggiate da Bagnacavallo, le riscoperte e rivalutazioni di artisti fino ad allora ingiustamente trascurati negli ambienti romagnoli.

Memorabile il saggio scritto da De Grada in occasione della grande esposizione "La Pittura in Romagna dalla seconda metà dell'800 a oggi", allestita nel '74 alla Loggetta Lombardesca, saggio a cui successive imprese repertoriali sull'arte regionale del secolo scorso si sono giustamente ispirate, e che ancora conserva una sua straordinaria validità. Ci piace dunque concludere questo breve ricordo dello studioso e critico con un breve passo di quella magistrale esplorazione, nel punto in cui, riepilogando il suo percorso da un secolo all'altro, volle osservare che si "devono ascrivere a merito dei romagnoli, cominciando da quelli che meglio riflettono il grande apporto del Lega e del Torchi, di avere creato una scuola di paesaggio che è libera dai vizi del vedutismo e una pittura della figura e dell'ambiente che, iniziando da Varoli, penetra nell'intimo delle condizioni esistenziali, sviluppando una coerenza che ha una tale saldezza morale da restare indenne dai danni degli stilemi novecenteschi. [...] Si tratta di una ricomposizione della moralità della forma con la storicità dei contenuti, un punto alto dell'esperienza di tutta Italia, che non è stato preso in considerazione in tutta la sua espansione fino a oggi e che la mostra potrà aiutare a valutare". Un giudizio sintetico, ma che vale ancora una lezione.

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