Rivista "IBC" XVIII, 2010, 4

Dossier: Sono vecchie queste regioni? - Dalla politica di Augusto all'Italia della Costituzione

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Tra censimenti e cataloghi

Claudio Zaccaria
[docente di Epigrafia latina e di Epigrafia e antichità romane all'Università di Trieste]

Questo incontro si propone il tentativo di creare un ponte ideale tra un dopoguerra di 2000 e più anni fa e una situazione di dopoguerra recente, quello da cui è nata la Costituzione repubblicana, che ha generato anche l'attuale ordinamento regionale. Guardiamo al passato per guardare avanti e dunque soffermiamoci su un momento, quello dell'età d'Augusto, in cui c'è stato un forte cambiamento costituzionale e istituzionale nell'Italia antica. Si usciva da una serie di guerre sanguinose, che avevano depauperato la penisola, e quella a cui si predisponeva Augusto era una costruzione non facile sebbene ne avesse, come si sarebbe visto a posteriori, la forza, la capacità e gli strumenti.

Uno dei problemi concettuali che si trovano di fronte gli studiosi è quello che riguarda l'esistenza, in antico e nel presente, di una vocazione regionale dell'Italia, contrapposta e coesistente con una unitaria. Gli autori dell'età augustea hanno lavorato alla creazione di un'immagine dell'Italia superiore a quella delle province che Roma aveva conquistato. E l'idea di un'Italia peninsulare unita sotto il governo romano, formata da comunità di cittadini romani, la conosciamo già dagli anni Quaranta del I secolo avanti Cristo: dunque una ventina o una trentina di anni prima (a seconda di come si vuole datare il provvedimento) che Augusto pensasse di regionalizzare l'Italia.

Le famose 11 regioni augustee, che tutti noi abbiamo conosciuto rappresentate a vari colori negli atlanti storici e nelle carte murali viste a scuola, che cosa avevano alla base come esperienze amministrative nell'Italia romana? Non conosciamo tutti i municipi e le colonie dell'Italia di allora; ma possiamo stimare che esistessero circa quattrocentocinquanta entità autonome: alcune si erano storicamente costituite da centri preromani progressivamente romanizzati, altre erano nate ex novo come fondazione dei Romani. Erano unità che avevano la propria amministrazione e che si riferivano a Roma per quanto riguarda l'aspetto della sovranità, della difesa, del diritto. Gli indirizzi politici generali promanavano da Roma. Esisteva un unico esercito, comandato dai magistrati romani. A Roma, davanti al pretore, si discutevano le cause importanti, mentre le altre, di minore gravità e valore, erano di pertinenza dei magistrati giurisdicenti dei municipi e delle colonie. Non c'era un'istanza intermedia: si decideva e si operava nel municipio o nella colonia, oppure si andava a Roma.

Questo sistema poteva andar bene finché l'Italia era limitata alla dimensione peninsulare, con esclusione della Cisalpina. Ma quando, dopo il 42 avanti Cristo, l'amministrazione romana diretta si estese ai centri sorti nella pianura padana, si affacciarono nuovi problemi; e questi problemi furono percepiti da Augusto. Il principe aveva perfettamente chiaro come si fosse costituita l'Italia romana, un processo che potremmo in qualche modo sintetizzare ricorrendo a un famoso passo dello storico-geografo Strabone, attivo in età augustea: "Ora sono tutti Romani, ma nondimeno alcuni si dicono Umbri e Tirreni, così come avviene per i Veneti, i Liguri e gli Insubri". Questa romanità era, dunque, un mosaico di città e di etnie e aveva delle difficoltà di comunicazione superiori a quelle che potremmo avere oggi (anche se allora, sulle strade imperiali, si viaggiava forse più veloci che sulle ferrovie di oggi!).

È abbastanza significativo che lo stesso Augusto, il quale ha proposto questa divisione in regioni, abbia pensato a creare per l'Italia una rete di comunicazione solida ed efficace, costruendo e restaurando a proprie spese, come si legge nell'iscrizione dell'arco di Rimini, "la via Flaminia e le rimanenti trafficate vie d'Italia". Il consolidamento del sistema viario agevolava la comunicazione tra i municipi e le colonie, e soprattutto tra questi e Roma. Augusto avrebbe anche voluto realizzare la pratica del voto per corrispondenza, anche se non per tutti ma solo per i decurioni, cioè i senatori locali che amministravano i municipi e le colonie. L'idea dell'imperatore, come raccontano le fonti, era di farli votare nelle città di residenza e di trasferire il voto sigillato a Roma, anche se solo come voto indicativo, che raccogliesse le opinioni di tutte le diverse comunità cittadine. Ma il progetto non ebbe attuazione. Non si sarebbe più potuto controllare direttamente il voto elettorale da parte delle élite che contavano e che volevano conquistare i voti a colpi di decine di milioni di sesterzi; il voto sarebbe stato molto più frammentato, molto meno controllato, e molto più pericoloso per chi voleva gestire il potere da Roma.

Riuscì invece il progetto di dividere l'Italia in 11 regioni. Sulle motivazioni e sulla portata di questo provvedimento si è cominciato a discutere nella seconda metà dell'Ottocento e il dibattito è ancora vivace. Si continuano, infatti, a prospettare ipotesi contrapposte, che riprendono sostanzialmente i termini della questione impostati chiaramente da Theodor Mommsen, che scrisse pagine fondamentali anche sul problema delle regioni, e da Joachim Marquardt, che aveva un'idea del tutto opposta.

Secondo un filone di studi, Augusto avrebbe avuto in mente un'istanza intermedia tra il potere centrale dello Stato romano e i municipi e le colonie, raggruppati in entità chiamate regiones, che sarebbero servite per scopi fiscali, per scopi amministrativi, per creare dei magistrati intermedi che gestissero ambiti regionali riuniti sulla base di origini storiche e culturali affini. La tesi alternativa è che Augusto avrebbe voluto semplicemente registrare la nuova realtà dell'Italia romana ai fini di una statistica dei cittadini attraverso i censimenti e per offrire un quadro che rispettasse in qualche modo le origini storiche, etniche, linguistiche e culturali delle varie aree dell'Italia romana. Nel suo intento c'era la volontà di rispettare quello che Lucio Gambi ha chiamato il "regionalismo", vale a dire l'identità di aree geografiche con caratteristiche simili, ma non di dar vita a un'organizzazione regionale amministrativa. Egli, per tornare ai termini di Gambi, non avrebbe pensato di realizzare una regionalizzazione dell'Italia in chiave politico-amministrativa.

Il problema è che non possediamo fonti letterarie o epigrafiche per dimostrare che cosa esattamente sia stato attuato da Augusto e se il sistema delle regiones sia rimasto in vita per parecchio tempo dopo di lui. Non è un caso che queste tesi contrapposte si siano riproposte con vivacità all'esame della storiografia nell'Italia del secolo scorso, proprio nel momento in cui si stavano costituendo le regioni dell'Italia repubblicana. A guardare con attenzione, i lavori di riferimento sono della fine degli anni Sessanta e degli inizi degli anni Settanta. Il tema è stato affrontato, in particolare, nel grande dibattito tra Gianfranco Tibiletti, storico romano, e Francesco De Martino, storico del diritto fortemente coinvolto nella storia politica dell'Italia di quegli anni. In assenza di fonti antiche esplicite, Tibiletti sosteneva che sulle regioni augustee le nostre conoscenze sono praticamente nulle: le regioni non si sarebbero mai realizzate come istanza politica e amministrativa. Il tentativo di Augusto di regionalizzare l'Italia non avrebbe avuto seguito alcuno.

Augusto, non dimentichiamolo, era un grande classificatore. Se leggiamo le Res Gestae (il suo testamento spirituale o, se si preferisce, la regina delle iscrizioni romane, redatta in latino e in greco e comunemente conosciuta come Monumentum Ancyranum con riferimento al luogo di rinvenimento e di conservazione, l'antica Ancyra, moderna Ankara), possiamo constatare che da questo testo emana uno spirito classificatorio notevole. Qualche studioso, poco rispettoso, ha sostenuto che Augusto sia stato il ragioniere di sé stesso, perché l'iscrizione riporta quante migliaia di sesterzi ha elargito, quante terre ha distribuito, quanti templi ha innalzato (ben 85 solo a Roma), e così via.

L'imperatore, grazie all'impegno profuso da Agrippa, il suo più stretto collaboratore, ha voluto tracciare la descrizione dell'impero e quella dell'Italia tramite la carta dell'Ecumene allora conosciuto, rappresentata sulla parete di fondo della porticus Vipsania, di cui parla Plinio il Vecchio nella sua opera enciclopedica, la Naturalis Historia. Per un filone di studiosi la descrizione dell'Italia in 11 regioni si inquadra in questo spirito di classificazione.

Claude Nicolet, grande studioso francese, interpreta questa descrizione del regesto regionale dell'Italia come la conseguenza delle operazioni del censo: per effettuare i censimenti (ne conosciamo le procedure in età tardorepubblicana dalla tabula Heracleensis e dalla lex municipi Tarentini) si registravano le dichiarazioni di censo nei municipi e nelle colonie e poi, entro 60 giorni, si trasferivano i registri a Roma. Qui i dati venivano organizzati, come pensa ragionevolmente Nicolet, mantenendo come elemento di classificazione le aree di provenienza, identificate con le regioni storiche dell'Italia romana.

Proprio per questa classificazione Augusto avrebbe creato (il condizionale qui è d'obbligo, perché non lo sappiamo dalle fonti) un sistema organizzato per aree geografiche, all'inizio identificate semplicemente con un numero ordinale: Regio prima, secunda, tertia... fino all'undecima. Non c'è un ordine geografico, perché allora la descrizione dell'Italia era fatta seguendo la costa. Lo testimonia Plinio il Vecchio, che riferisce come Augusto abbia fatto la descriptio Italiae partendo dalla Liguria, proseguendo prima lungo il Tirreno e arrivando poi allo Ionio e all'Adriatico. L'ultima, l'undicesima, è l'unica regione che allora non toccava il mare, quella che più tardi sarà chiamata Transpadana. Le regioni di Augusto non si chiamarono quindi, all'origine, con i nomi etnici che noi siamo soliti attribuire loro: Venetia, Picenum, Etruria, Calabria...

Che il sistema abbia alla base una necessità di registrazione e classificazione dei dati dei censimenti dell'Italia romana può essere un'ipotesi condivisibile. Ma le fonti antiche non ci aiutano a capire meglio come si configurasse questo sistema. Infatti, a parte il passo pliniano citato, che offre la descrizione pura e semplice delle regioni, gli scrittori antichi e i documenti epigrafici offrono scarse notizie. In un altro passo, per esempio, Plinio tocca un aspetto che appare bizzarro: quanti ultracentenari ci fossero nel mondo romano ai suoi tempi. L'autore prende a campione proprio la regione tra l'Appennino e il Po, che più avanti chiama octava Regio, e città per città (Parma, Placentia, Bononia, Ariminum, Veleia e così via) fa l'elenco di quelli che avevano cento, centoventi e centoquaranta anni: tirando le somme ne conta in tutto 54. Ma è un po' poco per concludere che la suddivisione dell'Italia in regiones avesse un grande significato.

Sappiamo tanto sull'amministrazione dei municipi e delle colonie; e molto sull'amministrazione dell'Italia e su quella dell'impero romano. Per cui risulta un caso assolutamente straordinario non avere conoscenze sulle regioni: non c'è un magistrato che emerga dalle fonti epigrafiche, non c'è un elemento che ci permetta di dire che qualcuno avesse una funzione a livello regionale, come potremo intenderla noi. Apparentemente, insomma, l'ordinamento augusteo in regiones non serviva a niente. Di recente, però, gli storici moderni hanno notato che né i compartimenti dell'Italia postunitaria né le stesse regioni stabilite dalla Costituzione italiana servirono a qualcosa per parecchio tempo. La Costituzione fu varata nel 1947, ma le regioni si costituirono di fatto solo negli anni Settanta. Quindi è possibile ammettere che anche in antico esistessero dei quadri teorici in attesa che venissero redatti quelli che noi chiamiamo regolamenti attuativi, con una definizione precisa di competenze.

Va notato, però, che quando nel corso dell'età imperiale si crearono circoscrizioni territoriali per percepire le imposte indirette dovute dai cittadini romani residenti in Italia (per eredità, vendite di schiavi e così via), l'organizzazione degli uffici non si basò sulle 11 regioni augustee. Al contrario, si crearono raggruppamenti regionali o interregionali aggregando le regioni in unità sovraregionali di composizione variabile a seconda delle imposte e dei periodi. Se in nuce c'era l'idea di dare un contenuto amministrativo alla regiones, poi il sistema ha funzionato in maniera diversa, almeno finché l'Italia è rimasta distinta dalle province. Anche quando con Diocleziano si realizza il grande cambiamento amministrativo del mondo romano (284 dopo Cristo), l'Italia diventa una provincia, non un insieme di regioni. Il territorio dell'Italia entra nel sistema organizzativo delle province romane; e questi ambiti provinciali anche italici avranno dei governatori, come avevano dei governatori le province romane.

Allora, ci chiediamo, le regioni erano un progetto rimasto nel cassetto? Augusto ha mai pensato di svilupparlo? Non lo sappiamo. Le uniche notizie che abbiamo sono quelle dei censimenti già citati. È dunque imbarazzante parlare di un modello delle regioni. Se ne è dibattuto molto solo quando si è voluto avere un termine di riferimento. Ed è stato sostenuto che Augusto avesse abbozzato un sistema di regionalizzazione che tenesse conto del regionalismo. Insomma, sono davvero antiche queste regioni? Per rispondere dobbiamo forse fare un passo indietro anche rispetto al momento augusteo.

Secondo Massimo Pallottino, infatti, "nell'Italia preromana affonda saldamente le sue radici la vocazione regionale del nostro paese che costantemente si manifesterà attraverso i secoli in opposizione dialettica con la sua vocazione unitaria". E ancora, secondo Leandro Polverini, "Italia e regioni costituiscono i poli dialettici (in senso reale e ideale), ma anche dinamici (cioè variabili nel tempo) di un percorso storico trimillenario, durante il quale lo spazio geografico chiamato Italia è stato politicamente unito solo due volte, nell'Italia romana e nell'Italia postrisorgimentale, per poco più di sette secoli". E qui posso concludere, riallacciandomi a quanto è stato appena detto da Guido Fanti: continuiamo nella contrapposizione dialettica, ma per andare avanti e non per tornare indietro.


Bibliografia

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