Rivista "IBC" XVIII, 2010, 1

musei e beni culturali / mostre e rassegne

"Paesaggi, villaggi, contrade. Pittura emiliana tra '800 e '900", Bologna, Casa Saraceni, 30 ottobre 2009 - 28 febbraio 2010.
Bologna vista dalla campagna

Mirko Nottoli
[collaboratore delle Collezioni d'arte e di storia della Fondazione Cassa di risparmio in Bologna]

Si è chiusa il 28 febbraio 2009, a Casa Saraceni, la mostra "Paesaggi, villaggi, contrade. Pittura emiliana tra '800 e '900", con oltre 70 opere provenienti dalle Collezioni d'arte della Fondazione Cassa di risparmio in Bologna. Insieme a "Vedute bolognesi", di un paio di anni fa, l'esposizione vuole formare un dittico ideale sul tema del paesaggio locale tout court. Se là erano le vedute cittadine, qua è la campagna. Se là erano portici, strade, monumenti, qua sono la natura, i corsi d'acqua, le colline, i borghi fuori porta. Al centro sempre Bologna, vista però, questa volta, da lontano, come mostra lo splendido paesaggio dal colle dell'Osservanza dipinto da Gaetano Tambroni, esposto per la prima volta insieme al suo grande disegno preparatorio.

La città e la sua provincia, due lati della stessa medaglia, soprattutto per una città a forte vocazione agricola com'è, e com'è stata, Bologna: San Lazzaro e Casalecchio, Granaglione e Vado, la pianura e la montagna. Tale vocazione agricola è testimoniata dai numerosi scorci sui campi coltivati, le cascine e gli inconfondibili covoni: su tutti, il bellissimo olio su rame dipinto da un anonimo fiammingo, che sul finire del Settecento ha ritratto, da un'altura, tutta la tenuta sottostante, con Bologna e la sua selva turrita sullo sfondo, il colle della Guardia a destra e un colle d'invenzione sulla sinistra, dove al gusto per il dettaglio si aggiunge una vastità di ampio respiro.

Anche i nomi sono quelli che già abbiamo incontrato nella mostra precedente. C'è Antonino Sartini, c'è Ferruccio Giacomelli, ci sono Luigi Bertelli e Alessandro Scorzoni, tutto il nutrito gruppo di paesaggisti bolognesi di inizio secolo che, mentre altrove stavano esplodendo le avanguardie, continuavano a frequentare i generi consolidati e a interrogare un'idea di pittura rasserenante e contemplativa. Solo Carlo Corsi portò da Nizza il brivido della modernità e alcuni, come Garzia Fioresi, lo seguirono per un periodo. Ma fu solo un breve periodo. Vennero addirittura chiamati "secessionisti". A Bologna, del resto, c'è sempre voluto poco per essere trasgressivi. Sono loro che, con amore e dedizione, hanno ritratto questo pezzo di mondo cogliendo inconsapevolmente le progressive mutazioni che quotidianamente investono il territorio circostante. Mutazioni che sono architettoniche o ambientali, ma che riflettono ben altri cambiamenti, sociali, politici, culturali.

Da questa semplice riflessione si comprende perché queste opere andranno a costituire un nucleo fondamentale all'interno del percorso espositivo del futuro Museo della città, perché più e meglio che altrove esse sanno descrivere la lenta evoluzione che ha portato Bologna, con la sua provincia, a essere quello che è oggi. Provincia che diviene indiscussa protagonista non solo dentro i quadri. Passando infatti in rapida rassegna le biografie degli artisti, si scopre che Antonino Sartini è di Crespellano, Alessandro Scorzoni di Calcara, Gino Marzocchi di Molinella, Giovanni Romagnoli di Faenza. Anche Antonio Basoli, il più celebre tra i vedutisti bolognesi, è nato in provincia, a Castel Guelfo.

Un discorso a parte merita la sezione dedicata agli "Ultimi naturalisti" di Francesco Arcangeli: il passaggio è brusco ma coerente. Esiste invero anche un altro modo di concepire il paesaggio, e questi artisti ne hanno dato prove esemplari. Anche se gli esiti sembrano divergere diametralmente, è sempre di paesaggio che si parla. Solo che è un paesaggio non più osservato, contemplato, descritto dall'esterno, non è più solo ritratto nella sua esteriorità fenomenica ma è vissuto dal di dentro: un paesaggio in cui affondare e con cui confondersi. Il punto di vista è iperravvicinato, il pittore col suo corpo e con la faccia si immerge nell'erba e nella terra fintantoché vede soltanto grumi marroni e verdi, macchie rosse e gialle, grigie e nere. La rappresentazione della natura finisce con imitare la natura stessa partendo dalla sua consistenza materiale, per cui ecco la grosse spatolate di colore, i coaguli fangosi, i solchi profondi scavati in una materia densa. La terra è presente tanto da sentirne quasi l'odore.

Sono Ilario Rossi, Sergio Vacchi, Pompilio Mandelli, Giuseppe Ferrari, Bruno Pulga, Giovanni Ciangottini, Lidia Puglioli, oltre a Piero Giunni, Mattia Moreni ed Ennio Morlotti. Sono quasi tutti emiliano-romagnoli (eccetto gli ultimi tre, lombardi) e non ci sembra casuale. Vengono spesso confusi con i pittori informali ma sono altra cosa. Mentre gli informali fanno tabula rasa per ripartire dal grado zero della rappresentazione, gli ultimi naturalisti mantengono un legame con la natura ctonia, per recuperare la parte primordiale dell'essere vivente, quella che rimane una volta eliminate le sovrastrutture. Per dirla con lo stesso Arcangeli: "La natura: che si guarda, si respira, si sente, si soffre, ancor prima che la si dica a parole. L'amico pensa, anzi, che se la sua opera non sarà sentita come interna alla radice, al momento generante della natura, non avrà esistenza". In mostra anche due inconfondibili vedute di San Luca firmate da Norma Mascellani, una del 1972, una del 2000. Dipinte a quasi trent'anni di distanza l'una dall'altra, sono un autentico omaggio alla memoria di una grande artista recentemente scomparsa.

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