Rivista "IBC" XIV, 2006, 4

musei e beni culturali / mostre e rassegne, pubblicazioni

Goya e la tradizione italiana, a cura di S. Tosini Pizzetti, Cinisello Balsamo (Milano), Silvana Editoriale, 2006.
'Annibale', firmato Goya

Mirko Nottoli
[collaboratore delle Collezioni d'arte e di storia della Fondazione Cassa di risparmio in Bologna]

Cosa c'entra, si chiederanno i più, Goya con Parma? C'entra, c'entra, eccome se c'entra! Innanzitutto perché una delle sue opere più famose, La famiglia dell'infante don Luis, è insospettabilmente conservata a Mamiano di Traversetolo, paesino disperso nella provincia parmense, dove ha sede la Fondazione "Magnani Rocca". L'opera fu acquistata da Luigi Magnani nel 1974 dopo che, messa in vendita dalla famiglia Ruspoli, lo Stato italiano pensò bene di rinunciare al diritto di prelazione (la domanda è: ma quando si applica allora il diritto di prelazione?). È tra le principali testimonianze della prima maturità artistica dell'artista, quella che segna la sua ammissione nell'alta società spagnola, alla corte di don Luis di Borbone, e, come scrive Fred Licht, mantiene un posto centrale nel costante sviluppo del "ritratto di gruppo" all'interno della ricerca pittorica di Goya. Ed è proprio nei ritratti di gruppo che Goya offre la propria personale visione di quella società aristocratica ormai al tramonto, priva delle certezze dell'Europa a cavallo della rivoluzione (basti per tutti La famiglia di Carlo IV).

E c'entra perché non tutti sanno che proprio all'Accademia di belle arti di Parma Goya partecipò nel 1771 a un celebre concorso di pittura. Aveva venticinque anni e come tutti i geni non fu immediatamente compreso (le cronache ce lo descrivono attaccabrighe e buono a nulla). Tant'è che il suo Annibale vincitore che rimira per la prima volta dalle Alpi l'Italia si aggiudicò solo la seconda piazza, dietro a Il genio della guerra guida Annibale attraverso le Alpi di tal Paolo Borroni, pittore che raramente in seguito fece pervenire notizie di sé. Non che l'Annibale di Goya sia uno dei suoi lavori migliori, con il protagonista che guarda l'orizzonte, mano a coprirsi dal sole e occhi sgranati, sembra stia cercando qualcuno perso tra la folla, mentre quello di Borroni, con un taglio più accademico e diligentemente affine al testo letterario, è probabile abbia maggiormente colpito la giuria giudicatrice che, di converso, rimproverò all'artista aragonese "un certo discostarsi dal vero, che se più al vero s'accostassero le sue tinte, e la composizione all'argomento, avrebbe messo in dubbio la palma riportata dal primo".

Ora, dopo oltre tre secoli di distanza, i due dipinti tornano di nuovo a confrontarsi uno di fianco all'altro, nella mostra "Goya e la tradizione italiana", curata da Simona Tosini Pizzetti per la Fondazione "Magnani Rocca" (9 settembre - 3 dicembre 2006, www.magnanirocca.it/goya/index.htm). Da tale confronto l'idea di allargare il discorso e indagare i rapporti che Goya intrattenne con l'Italia, l'influenza che su di lui ebbe la pittura barocca e classicistica conosciuta durante il suo viaggio giovanile a Roma, la conoscenza diretta dell'opera di Giovan Battista e Giandomenico Tiepolo, che lavorarono alla corte madrilena. In mostra, una bella selezione di opere di artisti suoi contemporanei ricostruisce il contesto italiano dell'epoca e documenta i livelli raggiunti dalla ritrattistica italiana singola e di gruppo. Ghezzi, Benefial, Giaquinto, Traversi, Baldrighi, Batoni, Mengs, Zoffany, Kauffman: i nomi ci sono tutti e di ognuno non mancano i capolavori, prestati per l'occasione da alcuni tra i più importanti musei del mondo (Madrid, Roma, Washington, Firenze). Un risultato che rende giustizia alla Fondazione "Magnani Rocca" e all'attività e all'impegno di chi ci lavora.

L'ultima sezione, quella all'apparenza secondaria, è forse la più interessante e suggestiva: vi sono infatti esposte le incisioni che vanno a comporre il ciclo completo dei Caprichos, 80 stampe di grande formato realizzate in 300 esemplari, dalle quali emerge un Goya caustico, moralista e satirico che mette alla berlina assurdità, pregiudizi e inganni degli esseri umani, in un clima in cui realtà sociale e fantasie demoniache coesistono in una specie di incubo senza salvezza. Il pessimismo ebbe poi modo di peggiorare nelle serie successive, quando la salute prima fisica e poi mentale dell'artista cominciò a vacillare, nei Desastres de la Guerra e nei Disperates, queste ultime ormai coeve alle terribili "pitture nere" della Quinta del sordo, dove Goya è già surrealista. Tra tutte ovviamente spicca la celeberrima Il sonno della ragione genera mostri, l'opera che rappresenta l'artista spagnolo forse meglio di qualunque altra.

 

Goya e la tradizione italiana, a cura di S. Tosini Pizzetti, Cinisello Balsamo (Milano), Silvana Editoriale, 2006, 184 p., euro 28,00.

 

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