Rivista "IBC" XIV, 2006, 4

musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali / mostre e rassegne, progetti e realizzazioni

Il Museo nazionale delle arti del XXI secolo, passando in rassegna alcuni casi architettonici esemplari, ha provato a immaginare come si trasformeranno i luoghi dell'arte nel prossimo futuro.
Museo... e poi?

Pippo Ciorra
[docente di Composizione architettonica all'Università di Camerino]

Che succede ai musei? Da un paio di secoli gli architetti sono abituati a scrutare i nuovi musei come se fossero delle bacchette da rabdomante in grado di orientarli sui destini dell'architettura. Col tempo, non appena il museo è uscito dalla sua fase tipologica e ottocentesca, e quindi dalla coazione a ripetere un modello preciso, ci siamo anche abituati a considerare l'importanza dell'architettura di un museo come una variabile tutto sommato indipendente dalle collezioni o comunque dal contenuto e dalle politiche curatoriali del museo stesso. Quanti architetti saprebbero rispondere a una domanda sulle collezioni della Staatsgalerie di Mies a Berlino, del Museum of Modern Art di New York, del museo di Stirling a Stoccarda, o di molti altri capolavori di architettura museale i cui aspetti architettonici conoscono peraltro a menadito? Da Wright in poi, con una buona dose di ingenuità, abbiamo creduto di imparare che l'architettura procede per la sua strada, attingendo ai suoi archetipi, rivolgendosi soprattutto alla città e all'architettura stessa, negoziando discretamente le sue soluzioni con le esigenze dell'arte, ma raramente facendo di questo negoziato un tema dominante delle soluzioni proposte.

Oggi però il panorama sembra lievemente diverso. Le ultime notizie sul futuro architettonico dei musei non le cerchiamo tanto nei testi teorici dei progettisti (dove sono?) quanto nelle parole dei curatori e degli esperti in politiche culturali. Salvatore Settis, certamente uno dei massimi conoscitori internazionali del settore, ci ricorda che "l'istituzione-museo è assai recente. Ha poco più di duecento anni di vita e la sua espansione a livello planetario ne ha molti di meno. Nulla garantisce che i musei debbano esistere ancora tra cento-duecento anni: essi sono una formazione storica che, come altre, può a un certo punto perdere vitalità".1 La cosa più importante, per Settis, è difendere il patrimonio culturale e il suo contenuto identitario dagli eccessi dell'assimilazione agli spazi e alle dinamiche del mercato. Thomas Krens, invece, da molti considerato la personificazione del demone del mercato dentro al mondo delle istituzioni museali, vagheggia per le Hudson Yards di New York un museo della "Next Generation", che sappia imparare da Bilbao e poi "think differently, [...] something that would both add to the perception of what culture could do, be available to a huge audience, and speak multiple languages".2 L'impressione, avvalorata anche da quanto affermava Germano Celant nel convegno sui "musei dell'iperconsumo",3 è quindi che curatori, artisti e coloro che definiscono le politiche istituzionali tornino oggi a essere più importanti dei progettisti nel definire la natura architettonica di un museo, i suoi tipi di spazi, il ruolo che andrà a svolgere all'interno di flussi e contesti urbani e globali.

Tra settembre e ottobre, al Museo nazionale delle arti del XXI secolo (MAXXI) di Roma, è stata esposta "Museums", una grande mostra sui musei contemporanei. La parte più cospicua dell'esposizione è in realtà una mostra itinerante, curata dall'Art Centre di Basilea e intitolata "Musei del XXI secolo". Rispetto ad affermazioni come quelle di Settis, scorrendo la sequenza di plastici e pannelli relativi a 27 iperprogetti di museo (ci sono dentro tutti, da Gehry a Libeskind) sembrerebbe che da dieci anni a questa parte l'atmosfera non sia molto cambiata. Il glorioso crescendo inaugurato col Beaubourg, e arrivato alla (provvisoria?) acme con l'edificio di Gehry a Bilbao, pare tutto sommato stabilizzato e coerente. E anche l'inevitabile rallentamento dovuto al "9/11" sembra ormai riassorbito e metabolizzato in una nuova ondata di ottimismo edilizio museale. Forse l'unico a farne davvero le spese è stato proprio il progetto gehriano del Downtown Guggenheim di Manhattan, davvero troppo complicato e costoso "to come true". Per il resto il risultato del report dell'agenzia svizzera è che si continuano a costruire decine di musei, tutti monumentali, firmati, costosissimi e di importanza globale.

Non c'è alcun dubbio che il panorama descritto nella mostra curata da Suzanne e Thierry Greub sia esaustivo e veritiero. Ai musei, proprio per la loro natura "sublime", si può però provare a guardare anche in un altro modo. Restituendo loro il ruolo storico di "sensore" possiamo infatti interrogarli in modo un po' più stringente sui destini dell'architettura, sul suo rapporto con l'arte e la cultura, sugli effetti che la combinazione di questi elementi può avere nell'estenuato tessuto delle città contemporanee. Per fare questo, alla mostra "XXI Century" è stata accostata un'esposizione più piccola sui musei della "prossima generazione", una specie di ricerca sui musei del "XXII Century", raccontata in una sezione specifica.

I criteri della ricerca sono pochi e semplici. Prima di tutto si tratta solo di musei e centri di arte contemporanea. La ragione è quella che si diceva all'inizio: è palesemente l'arte contemporanea quella che tende oggi a mettere più in crisi il ruolo storico del museo, sia perché l'idea stessa di opera (da esporre) si modifica ormai quotidianamente, in termini di consistenza materiale e/o immateriale, dimensioni, durata, accessibilità, sia perché sempre più spesso l'arte tende a scavalcare la mediazione dell'architettura per negoziare direttamente il suo spazio nella società e nella città (arte pubblica, intercambiabilità di artisti e architetti in molti progetti, occupazione di "spazi dismessi", musei "aperti", ecc.).

Un altro criterio importante è quello che restringe i casi studiati a quegli esempi nei quali è più difficile associare al museo l'idea tradizionale di edificio e di progetto edilizio. Proprio il rischio di essere tagliata fuori dal rapporto tra arte e luogo induce oggi l'architettura a lavorare sulla natura imprecisa e aperta del contenitore, sulla sua strategia d'uso, o semplicemente sulla sua sparizione e quindi sulla con-fusione tra architettura, città e paesaggio. Il terzo criterio è infine la città: sono progetti caratterizzati da un preciso valore "urbano", in cui l'arte o il museo si configurano come strategie (più o meno spontanee, più o meno consapevoli) di trasformazione della città o di una sua parte. Anche in questo caso l'intento è rintracciare il terreno su cui la competizione creativa e sociale tra arte e architettura si dispiega al meglio.

I "casi museali" esposti nella mostra "Next Generation" sono otto: "Dashanzi 798" a Pechino, la "Metropolitana dell'arte" di Napoli, il Palais de Tokyo a Parigi, la "Fiumara d'Arte" di Antonio Presti a Castel di Tusa (Messina), i progetti Guggenheim a Las Vegas e San Pietroburgo, il progetto "Arte all'arte" di San Gimignano (Siena), l'ampliamento dell'IVAM di Valencia dello studio SANAA, l'universo incerto dei "musei virtuali". La disomogeneità balza agli occhi, e forse è una virtù, soprattutto se confrontata con gli elementi ricorrenti (e i criteri suddetti): il ruolo diretto che ha l'arte nella trasformazione dei luoghi, l'indifferenza o l'eterodossia degli "spazi espositivi", l'ambizione a connettere direttamente l'evento artistico ai fenomeni tipici della trasformazione metropolitana (flussi e infrastrutture, paesaggi da riqualificare, luoghi dismessi), evitando la negoziazione tradizionale dell'architettura. Ma soprattutto il fatto che sono tutte o quasi situazioni in cui la natura innovativa del ragionamento sul museo si incontra con le sperimentazioni più avanzate in chiave di ricerca artistica, di comunicazione e di rapporto con il mercato dell'arte.

Quali sono le indicazioni che questi sensori privilegiati offrono agli architetti e a tutti coloro che nei prossimi anni si occuperanno di architettura museale? La prima, forse, è proprio l'indicazione di rileggere con cura l'intervento di Settis al convegno di San Pietroburgo che citavamo all'inizio: non è detto che il museo sia una istituzione eterna, o almeno non è detto che i musei del futuro debbano avere la stessa natura istituzionale e spaziale di quelli dei due secoli che sono appena trascorsi. Nella mostra sui musei del XXI secolo abbiamo visto, con sorpresa, quanti progetti continuino ossessivamente a rifugiarsi nella rilettura dei pochi archetipi museali consolidati:4 lo schema planimetrico durandiano, la pianta dell'Altes Museum di Schinkel, la scalinata della Pinacoteca di Leo von Klenze a Monaco, la spirale del Guggenheim. Come se l'impossibilità di comprendere fino in fondo i meccanismi che legano oggi l'arte, il museo e la città spingesse i progettisti a chiudersi dentro uno steccato disciplinare, apparentemente rassicurante.

La seconda indicazione riguarda il rapporto tra i musei e il loro contesto. I musei storici, fino al moderno, avevano una relazione forte con il loro immediato intorno urbano, dettavano geometrie e assialità, stabilivano un tono architettonico che contribuiva a definire il "carattere" dei quartieri. I musei post-Beaubourg, quelli della nostra generazione eroica, saltano a piè pari le modalità tradizionali di relazione col contesto, riassumono dentro di sé la città e la sostituiscono (Stirling a Stoccarda), si infilano negli spazi interstiziali (Eisenman a Columbus), trasformandosi in icone metropolitane essenzialmente rivolte all'interno dialogo tra le loro molteplici identità (spazi espositivi, di svago, di studio, di incontro, di shopping, ecc.: basta pensare al Getty Center di Meier). Il contesto dei musei post-Bilbao, quelli dell'ultima generazione, è invece "il mondo": costruiscono reti globali, rimandano a percorsi planetari, ignorano del tutto il contesto urbano ampio nel quale si trovano. La Fabbrica 798 è lontanissima da Pechino: il taxi, se siamo riusciti a spiegargli dove vogliamo andare, ci lascia ai margini della città e per arrivare al recinto della Fabbrica dobbiamo percorrere due chilometri di buio urbano. È però a portata di mano di tutto il mondo, basta passarci un sabato pomeriggio per rendersi conto di quanto quella Cina sia "vicina". Per Las Vegas il discorso è fin troppo evidente: la collocazione del nuovo Guggenheim è estremamente rilevante sul piano globale, ma su Las Vegas ha probabilmente lo stesso impatto ambientale di una nuova sala di slot machine o di un nuovo night club.

Un'ultima considerazione, più tecnica, riguarda proprio la natura e la resistenza dell'architettura dentro questo processo. Basta guardare alla differenza tra i musei "d'avanguardia" degli ultimi decenni e gli esempi che sono stati presi in considerazione in questo settore della mostra. Per quanto votati all'inusuale, alla decostruzione, all'identità critica, i progetti anni Ottanta e Novanta di Eisenman, Stirling, Libeskind, lavoravano ancora su temi propriamente architettonici, chiaramente riconoscibili "in pianta", cioè nel luogo disciplinare più proprio. Nelle piante riconoscevamo la citazione e la distorsione dei modelli storici, le superimpositions, le geometrie ostili e polemiche verso la città, le decostruzioni del lessico progettuale moderno e tutto il resto. Per nessuno dei musei raccolti in questa rassegna la pianta ha invece una qualsivoglia importanza: l'immagine zenitale di Google Earth basta e avanza. E infatti non compare mai nelle mostre e nelle documentazioni. Come se l'architettura, per reggere all'urto che le viene portato insieme dall'arte e dallo spazio urbano, dovesse rinunciare alla propria natura, accettare di sparire per poi rinascere con caratteri e strumenti diversi. Naturalmente la mostra non si prefigge lo scopo di rispondere a tanta domanda. Certo però che se vogliamo trovare il modo di reagire alla progressiva (e magari dorata) marginalizzazione dell'architettura nei processi di trasformazione delle nostre città (soprattutto italiane) una domanda di questo genere dobbiamo cominciare a porcela. E cercare risposte in tempi brevi.

 

Note

(1) S. Settis, Ma il museo ha un futuro? (estratto dall'intervento al convegno "Il futuro dei musei", San Pietroburgo 30 giugno 2006), "la Repubblica", 30 giugno 2006, p. 53.

(2) Intervista di Charlie Rose a Thomas Krens per la rete televisiva Fox (3 gennaio 2006, www.guggenheim.org).

(3) G. Celant, Un museo spettacolare, il Global Guggenheim, in I Musei dell'Iperconsumo. Atti del convegno internazionale, a cura di P. Ciorra e S. Suma, Roma, Accademia nazionale di San Luca, 2003.

(4) Si veda: T. Greub, Alcune riflessioni sui musei dei primi anni del XXI secolo, in Musei del XXI secolo, München, Prestel Verlag, 2006.

 

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