Rivista "IBC" XIV, 2006, 2

Dossier: Oltre il Codice

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Nodi sciolti e da sciogliere

Pierfrancesco Ungari
[Ufficio legislativo del Ministero per i beni e le attività culturali]

A distanza di un anno e mezzo dall'entrata in vigore del Codice e del convegno organizzato in questa città per discutere della riforma della disciplina del paesaggio, la situazione è molto cambiata. In quell'occasione, trattando il tema degli aspetti innovativi e dei profili strategici della nuova disciplina, mi compiacevo della sintonia tra i livelli istituzionali nel porre mano a cambiamenti così incisivi, mettendo in discussione le posizioni acquisite. Com'è noto, nell'elaborazione del decreto integrativo e correttivo del Codice, il dialogo si è interrotto.

Non sta a me valutare la correttezza del procedimento seguito dal Governo in questa rielaborazione del Codice (a prescindere dalla mia posizione personale, ne condivido comunque la responsabilità, avendovi partecipato), né, tanto meno, la fondatezza delle ragioni esposte dalle Autonomie in sede tecnica della Conferenza Stato-Regioni a supporto del giudizio di "non emendabilità" dato nei giorni scorsi all'articolato proposto dal Governo. Questo intervento è invece volto a verificare se, al di là della formalizzazione di una volontà politica (negativa) in sede di Conferenza Unificata, vi siano margini per ipotizzare, almeno fra tecnici, la ripresa del confronto e un percorso comune.

 

Lo schema di decreto legislativo integrativo interviene a tre livelli. In ordine di crescente importanza, alcune delle proposte di modifica riguardano errori materiali che andavano corretti.

Così è, in particolare, per i refusi sopravvissuti all'affrettata collazione del testo del Codice, seguita alla modifica dell'articolo 143 da parte del Consiglio dei ministri. Il testo all'epoca concordato nel gruppo di lavoro tecnico consentiva al piano paesaggistico conforme alle previsioni dell'articolo 143 di sottrarre aree all'obbligo di autorizzazione paesaggistica, senza limitazioni relative alla natura del vincolo (nella prospettiva che non vi dovesse essere gerarchia tipologica tra vincoli provvedimentali, vincoli ope legis e vincoli di piano, e che si dovesse guardare alla sostanza delle previsioni e dei valori da tutelare). Il Governo ha poi ritenuto che tale possibilità non dovesse riguardare le aree oggetto di vincoli provvedimentali, ma dovesse essere limitata alle categorie tutelate in base alla Legge Galasso, e l'articolo 143, comma 5, è stato corretto di conseguenza; ma non sono state corrette le disposizioni (degli articoli 143, comma 6, e 156, comma 4) che detta illimitata possibilità presupponevano, per condizionarne gli effetti all'adeguamento dei piani regolatori e all'esperimento di forme di pubblicità equivalenti a quelle seguite al momento dell'imposizione del vincolo. Ciò ha originato un equivoco: prevale la formulazione del comma 5 (assai involuta, perché le lettere a) e b) definiscono il medesimo ambito in due modi diversi) o ciò che implicitamente presuppongono le altre disposizioni sopra citate?

Credo che la risposta dell'interprete debba essere nel senso della prevalenza del comma 5, univoco e richiamato dalle altre disposizioni, ma su questa contraddizione si sono sviluppate difformità di vedute e quindi una pericolosa incertezza. Va aggiunto che non per questo risulta impossibile modificare la disciplina dei vincoli provvedimentali, e che, anzi, una rimodulazione dei vincoli viene in generale programmata dal Codice, là dove ne indica i contenuti (articolo 143, comma 3: valori, obbiettivi, prescrizioni, criteri di gestione, ecc.); mentre la nuova formulazione dell'articolo 143, oggi proposta, chiarisce che la puntualizzazione del contenuto del vincolo nelle aree sottoposte a tutela ope legis (con l'opportuna graduazione dei regimi, alla luce dell'effettiva esistenza di valori da salvaguardare) costituisce uno dei contenuti necessari della revisione e dell'adeguamento dei piani paesaggistici.

Così è anche per le disposizioni (articoli 152 e 154) che richiamano ancora le zone di interesse archeologico indicate all'articolo 136, mentre tale indicazione è saltata nel Codice a seguito del parere delle commissioni parlamentari. Delle due, l'una: o (come ritengo auspicabile) si ripristinerà la menzione delle zone di interesse archeologico (insieme a quella dei centri storici, che ha condiviso la stessa vicenda) all'articolo 136, oppure si eliminerà l'attuale richiamo, in quanto improprio.

 

Altre modifiche riguardano il sistema sanzionatorio, che il Codice non aveva affrontato. La rinuncia a intervenire sulle sanzioni amministrative (per un self-restraint, non imposto dalle norme costituzionali) rendeva virtuale la riforma. Fintanto che la scelta tra sanzione ripristinatoria e sanzione pecuniaria resta affidata a una valutazione ancorata a un parametro diverso da quello della compatibilità paesaggistica, sarà ben difficile per l'amministrazione preposta alla vigilanza comminare sistematicamente la demolizione; ma se la compatibilità non c'è, è sacrosanto che l'abuso (ogni abuso) venga eliminato: si potrà discutere sui tempi e modi (tenendo conto delle capacità operative dell'amministrazione), non sull'an [sul "se", sulla sussistenza, ndr] della misura ripristinatoria.

La problematica è stata complicata dalla sopravvenienza del cosiddetto condono paesaggistico e dell'accertamento di conformità per i cosiddetti piccoli abusi (quelli che non comportano aumento di volume o superficie utile), previsti dalla Legge 308/2004, nominalmente ai soli fini dell'estinzione del reato, ma - anche se il Consiglio di Stato ha affermato che l'accertamento di conformità, a differenza del condono vero e proprio, non preclude la sanzione ripristinatoria amministrativa - con possibili conseguenze anche sulla legittimità di un eventuale provvedimento demolitorio dell'abuso che, in un procedimento parallelo, sia stato considerato compatibile ai fini della depenalizzazione. Infatti non è agevole giustificare che la compatibilità paesaggistica possa sussistere ad alcuni effetti e non ad altri, ed è discutibile che il divieto di rilascio dell'autorizzazione in sanatoria, cosiddetta ex post, consenta o addirittura imponga di ripristinare l'abuso meramente formale (per mancanza del previo titolo abilitativo) che sia già stato riconosciuto compatibile con la tutela del paesaggio ai fini dell'estinzione del reato (e infatti i commentatori, in prevalenza, collegano alla Legge 308/2004 effetti di sostanziale sanatoria anche sul piano amministrativo).

Rispetto a quanto è già stato concesso dalla Legge 308/2004 ai realizzatori degli abusi in aree vincolate, era difficile tornare indietro. Così, la proposta contenuta nel decreto integrativo delinea un sistema nel quale per i cosiddetti piccoli abusi, a regime, e per gli abusi per i quali è stato chiesto il condono ai sensi della Legge 308/2004, o che comunque siano stati commessi prima dell'entrata in vigore del Codice (tutti i casi nei quali, in sostanza, vi sia una sorta di aspettativa di sanabilità) viene conservata, a esaurimento, la possibilità della sanatoria a tutti gli effetti (così stabilendo una deroga, ma "controllata", al divieto di autorizzazione ex post, ribadito a chiare lettere anche per la fase transitoria iniziata l'1 maggio 2004), sanatoria comunque accompagnata dal pagamento della sanzione pecuniaria. Un sistema in cui, per contro, in tutti i casi in cui venga accertata la mancanza della compatibilità paesaggistica, non vi sia più scelta tra le sanzioni, e si debba necessariamente procedere al ripristino.

La proposta, a mio avviso, coniuga ragionevolezza (o, quanto meno, realismo) e rigore. Una soluzione del genere (di cui si potranno discutere modalità applicative, soprattutto per quanto concerne il periodo e la casistica rilevanti ai fini della ultrattività dell'autorizzazione ex post), non dovrebbe risultare sgradita alle Regioni e agli enti locali, perché risolve un problema che è soprattutto loro, dando certezza a un quadro normativo oggi a dir poco confuso.

 

E veniamo alle modifiche che segnano un'inversione di tendenza rispetto alla distribuzione delle competenze sancita dal Codice. Sono le proposte che, credo, hanno finora impedito un vero confronto nel merito. Partono dalla constatazione che, dopo quasi due anni di vigenza, non vi è stata una concreta attuazione delle previsioni del Codice.

Non parlo degli adempimenti strumentali, che pure sono importanti. Il Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri sulla documentazione a corredo delle istanze di autorizzazione paesaggistica previsto dall'articolo 146, comma 3, sta per essere emanato e spero consentirà un salto di qualità nell'individuazione dei contenuti della valutazione di compatibilità e, prima ancora, della progettazione delle trasformazioni del territorio nelle aree vincolate. È da lì che gli operatori del settore possono partire per maturare il convincimento che una motivazione razionale e approfondita delle scelte, non soltanto è imposta dalla legge, ma è opportuna e proficua. Lo schema generale di convenzione per la ricognizione delle aree e dei vincoli e l'interoperabilità dei sistemi informativi, previsto dall'articolo 156, comma 2, è stato anch'esso predisposto, a livello tecnico, e attende di essere formalizzato.

Mi riferisco invece alle scelte politico-amministrative. Le leggi regionali in materia di governo del territorio promulgate poco prima o dopo l'entrata in vigore del Codice hanno in generale mostrato di non raccogliere le indicazioni del Codice sul rapporto tra livelli di pianificazione e sulla valenza strategica e prioritaria dell'opzione costituita dall'elaborazione congiunta (d'intesa, previo accordo) dei piani.

Con le dovute distinzioni, mi sembra che un denominatore comune (con l'eccezione della legge della Sardegna, che però è poco più di una normativa interlocutoria di salvaguardia) sia rappresentato dall'attribuzione del ruolo strategico nella tutela paesaggistica alla pianificazione generale del Comune, ritagliando per la Regione e le Province un ruolo defilato, scarsamente incisivo.

Gli unici accordi per la pianificazione restano ancora quelli con il Lazio e con l'Emilia-Romagna,1 che risalgono alla precedente legislatura e alla matrice dell'Accordo in Conferenza Stato-Regioni del 19 aprile 2001 (a parte il caso della Calabria, ancora priva di pianificazione, e per la quale le attività del tavolo comune sembrano segnare il passo). Ed ecco che si pone il problema della effettività delle previsioni sulla revisione concordata dei piani paesaggistici.

In questo contesto, si è ingigantita la preoccupazione (storica) degli uffici del Ministero dei beni culturali, di dover fronteggiare con strumenti spuntati i Comuni, ormai arbitri della pianificazione e della gestione del vincolo, ma ricattati dall'essere nel contempo, e anzi prima di ogni altra cosa, enti responsabili dello sviluppo economico delle collettività locali, uno sviluppo che non di rado passa per il consumo disinvolto del proprio territorio; e, comunque, per tre quarti, prigionieri di una dimensione territoriale e organizzativa inadeguata a compiere scelte che di regola devono prendere in considerazione ambiti vasti. E ha echeggiato la richiesta, avanzata con forza dalle associazioni ambientaliste all'indomani del Codice, di garantire allo Stato quei poteri concorrenti che la Corte costituzionale ha sempre affermato costituire un fondamento del sistema di tutela.

Tutto ciò ha prodotto alcune modifiche che vanno nel senso di rendere effettive le previsioni (oggi, poco più che ottative) vigenti. Mi sembra che il collegamento dell'entrata in vigore della disciplina del procedimento autorizzatorio a regime, non più all'adeguamento dei piani (evento futuro e incerto, lasciato dal Codice, in mancanza di poteri sostitutivi sulla scelta politica, alla libera determinazione delle Regioni), ma alla scadenza di un termine quadriennale fisso, non debba suscitare perplessità; a meno di non nutrire riserve sull'opportunità di sostituire la (sterile, come ormai appare ai più) contrapposizione tra autorizzazione e annullamento, con l'integrazione delle valutazioni nell'ambito del procedimento.

In questa prospettiva, anche la previsione della natura vincolante del parere della Soprintendenza, nell'ipotesi in cui la revisione e l'adeguamento dei piani vengano effettuate unilateralmente dalla Regione, trova una sua giustificazione; a meno di non voler lasciare priva di sanzione (lato sensu intesa) una scelta che va contro i principi di leale collaborazione e rende virtuale - nella fase strategica della pianificazione (quella, cioè, nella quale si dovrebbero ripensare l'estensione e i contenuti dei vincoli) - la pur conclamata concorrenza dei poteri di tutela.

Altre previsioni della proposta di decreto legislativo integrativo investono l'allocazione della competenza autorizzatoria, quindi toccano direttamente l'ambito di organizzazione e distribuzione dei poteri all'interno delle Regioni. Non credo sia seriamente discutibile che la dimensione comunale sia, il più delle volte, inadeguata a gestire il vincolo paesaggistico, per le ragioni che ho ricordato prima. Non è solo un problema di opportunità politica; l'adeguatezza del livello istituzionale di competenza è prima ancora un canone di legittimità, ai sensi dell'articolo 118 della Costituzione; quindi, il richiamo a quest'esigenza e la proposta del livello della Provincia come quello, di regola, adeguato all'esercizio della funzione, mi sembrano più che giustificati.

Forse, a essere un po' forte, è lo strumento che viene proposto per disincentivare la scelta di mantenere l'allocazione al livello comunale: la permanenza del parere vincolante della Soprintendenza, anche nell'ipotesi in cui la pianificazione venga revisionata e adeguata d'intesa. Il parere vincolante, infatti, è una forma di codecisione particolarmente subdola, in quanto condiziona l'esito della valutazione, lasciando all'amministrazione procedente tutti gli oneri. Qui potrebbe essere valutata la possibilità di introdurre dei correttivi, valorizzando le forme di esercizio associato tra i Comuni delle funzioni, previste dal Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli Enti pubblici, e dando spazio a una motivata differenziazione dei livelli ai quali allocare le competenze nell'ambito delle singole Regioni, con riferimento a indici oggettivi di capacità operativa dei diversi Comuni.

Un'analoga "invadenza" organizzativa presenta la previsione concernente la composizione delle Commissioni provinciali, che viene in parte vincolata alle designazioni delle Università e delle associazioni ambientaliste. Un correttivo potrebbe essere rappresentato dal rendere tali designazioni auspicabili, ma non obbligatorie, lasciando alle leggi regionali la scelta di modi alternativi per garantire l'effettiva autorevolezza tecnica dei nominati.

 

In conclusione, non mi sembra che, al di là delle considerazioni sul metodo del confronto istituzionale, vi siano particolari motivi di perplessità, sotto il profilo giuridico; né che la distanza tra le esigenze e preoccupazioni (almeno, tra quelle reciprocamente esternabili) sia incolmabile. Come sempre, molto dipenderà dalla disponibilità e dalle riserve mentali di coloro che si occuperanno del problema.

 

Nota

(1) Si veda in proposito: A. Mele, G. Poli, D'accordo sul paesaggio, "IBC", XII, 2004, 1, pp. 9-13.

 

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