Rivista "IBC" XIV, 2006, 1
Dossier: Il convento ritrovato - Una stagione di restauri nel complesso di San Domenico a Forlì
musei e beni culturali, dossier /
"Le sue opere stupiscono per nitore, pacatezza ed eleganza. I suoi colori incantano per la lucentezza di smalto [...] con assoluta maestria e genio, Palmezzano porta la grande eredità della pittura del Quattrocento dentro il nuovo secolo". Così Antonio Paolucci sottolinea il ruolo storico di Marco Palmezzano (Forlì, 1459-1539), protagonista della mostra che il 4 dicembre 2005 ha inaugurato il nuovo ordinamento del complesso di San Domenico a Forlì.1 Promotori dell'evento, la locale Fondazione Cassa dei risparmi, il Comune e la Diocesi, le Soprintendenze di Bologna e di Milano, il Polo museale di Firenze e i Musei Vaticani. Sessantuno i dipinti, selezionati da una commissione della quale fanno parte Paolucci, Emiliani, Prati, Tumidei, Bentini, Brigliadori, Brunelli, Ceriana, Colombi Ferretti, Gheroldi, Poma, Prosperi, Verdon, Viroli, Zaghini e Torriani ( www.marcopalmezzano.it).
Sono tavole straordinarie a ripercorrere le vicende del rinascimento romagnolo. E prestiti "impossibili" da tutta Europa. Sfilano, lungo il percorso espositivo, capolavori del Palmezzano, di Melozzo, di nuovo in scena dopo le celebrazioni del '94, con i comprimari Zaganelli, Longhi, Carrari, Rondinelli. E con l'aggiunta di spettacolari sezioni venete (Cima, Bellini) e centroitaliane (Perugino). Il meglio della produzione tra Quattro e Cinquecento, sulla quale si allarga l'esperienza figurativa del territorio. Perché composita, e policentrica, fu la geografia artistica delle Romagne. E così pure la formazione di Marco Palmezzano. Quello stile personalissimo e bilanciato, "rosa dei venti con i punti cardinali orientati verso i centri del Rinascimento italiano" (Paolucci), gli derivava da una capacità di sintesi formidabile, che gli permetteva di coniugare il fior fiore della pittura del suo tempo: il segno spigoloso dei ferraresi, il tratto preciso dei fiorentini, i colori accesi degli umbri, quelli più morbidi dei veneziani, e la prospettiva toscana.
Infatti, "giovane eccezionalmente sensibile" e uso a guardare intorno a sé, Marco guardò molto, come osservò Papini nel 1957. L'occasione era quella della rassegna che il municipio dedicava al suo illustre cittadino, a vent'anni dall'esposizione del Quattrocento romagnolo allestita a Forlì nel 1938, sotto ben immaginabili auspici. Emergeva già da allora una personalità costellata: Melozzo, in un primo tempo, e insomma l'orbita melozzesca, che significava la prospettiva e Piero della Francesca. Non fu un caso, ma anzi una fortuna, che in questo senso lo citasse Luca Pacioli, inquieto francescano e amico degli artisti, il cui ritratto, eseguito da Jacopo de' Barbari, apre il percorso della mostra. Era un manipolo ridotto, per il matematico, quello dei prospettici in grado di onorare il pittore di San Sepolcro: i due Bellini, Botticelli, Filippino Lippi, Ghirlandaio, Perugino, Signorelli, Mantegna, e "in Furli Meloçço con suo caro alievo Palmegiano". I due, a quelle date, avevano da poco terminato le decorazioni, perdute, nella cappella Feo di San Biagio (1493), tra gli esordi di Marco. Che con il maestro aveva soggiornato nell'Italia centrale; a Loreto ma soprattutto a Roma: qui lavoravano Giovanni Santi, nientemeno che il babbo di Raffaello, e Antoniazzo Romano, altro modello di riferimento.
Dopo la capitale, dove avrà visto gli affreschi umbri e centroitaliani sotto la volta Sistina ancora tutta da decorare, Palmezzano prese la strada per Venezia intorno al 1495, ma non prima di avere studiato i ferraresi. Il rapporto con la pittura lagunare dovette essere ben più che episodico e circoscritto. Molti dei suoi lavori ne ripetono gli echi, e talvolta con esplicite citazioni: l'Imbalsamazione di Cristo dei Musei civici di Vicenza, per esempio, ispirata al prototipo belliniano dei Musei Vaticani; o la splendida pala della Pinacoteca di Faenza (1497): cromìe brillanti che sostanziano una materia compatta e luminosa, e un Arcangelo dal gesto baldanzoso e cadenzato da sembrare un "San Giorgione". Furono queste suggestioni venete frequenti a motivare l'inclusione del forlivese tra Bellini e i belliniani (Fritz Heinemann). Del resto, nella Serenissima, Marco aveva aperto bottega, ma ne aveva chiuso i battenti quasi subito per ritornare a casa.
Circostanza fortunata, per la sua terra, che ebbe il vantaggio di aggiudicarsi molti tra i suoi capolavori. Il Crocefisso con San Giovanni Gualberto e la Maddalena, conservato in San Mercuriale insieme ad altri due dipinti; il Trittico in San Biagio e tanti altri, senza contare le pale della Pinacoteca di Forlì. Opere sulle quali il percorso di mostra si allarga, per estendersi oltre San Domenico in un itinerario attraverso le "terre del Palmezzano": Dozza Imolese, Forlimpopoli, Faenza, Brisighella, Castrocaro (itinerario suggerito per l'occasione da un'apposita guida a stampa).2 A Forlì, comunque, dove dimorò fino alla fine dei suoi giorni, il pittore godette di un prestigio duraturo e di un benessere economico insolito per un artista, assicurato dall'appartenenza a una famiglia di riguardo. Certo lavorò sodo, e non soltanto per mantenere tre mogli che nel tempo gli avevano dato la bellezza di dieci figli. Scomparso Melozzo, dal 1494 ne ereditò i cantieri, complici gli onori derivati dalla considerazione di Luca Pacioli. Ben presto diventò il pittore delle istituzioni religiose e dell'aristocrazia che gravitava attorno a Caterina Sforza, vedova di Girolamo Riario subentrato agli Ordelaffi.
Non si dimentichi che la Romagna fu un luogo nevralgico della politica signorile, e campo di battaglie tra le grandi famiglie. Ma benché l'uso dei veleni si alternasse a quello dei pugnali, di queste lotte furibonde non rimane traccia nei suoi dipinti, eccezion fatta per il profilo delle rocche che si confonde dolcemente con le montagne digradanti all'orizzonte. "Tutto il resto è pace" nelle sue pale, "una pace che stupisce ma che trova ragion d'essere nell'orgoglio dell'artista di vivere in una capitale del Rinascimento" (Paolucci). Perché Forlì fu una corte, anche se in tono minore. Sottratto Melozzo alla Romagna da una fama nazionale, di questa stagione dorata, omessa dai manuali ma finalmente recuperata, resta interprete Palmezzano, con la sua pittura compatta e lucente: finezze esecutive squisitamente quattrocentesche protratte fino al secolo successivo. Ma armonizzate a un'individualità capace di cogliere lo spirito di un luogo. Che è l'anima profonda di un territorio e della sua gente.
Non a caso Marco fu un grandissimo paesista. Quei paesaggi li amava. E per questo li raffigurava sugli sfondi dei suoi dipinti in modo che il viandante li potesse distinguere, quando ci passava. Ma benché umanizzati e riconoscibili, i luoghi del Palmezzano furono anche luoghi della fantasia. Perché uno degli aspetti più fascinosi della sua pittura sono, inaspettatamente, le nuvole. Nuvole e angeli. Angeli, sì, ma più "romantici" che "neoplatonici". Si sa che gli artisti, esseri ispirativi per eccellenza, hanno guardato il cielo, e quelle intuizioni le hanno portate sulla terra. Ma meno ce le aspetteremmo, certe divagazioni, in un maestro del Quattrocento; benché Mantegna, nel San Sebastiano, buttasse là qualche cirro antropomorfo, ma impercettibilmente. Marco, invece, "in un giorno d'estate", come ipotizza Paolucci, avrà guardato in alto, e si sarà accorto che le nuvole portate dal vento assumevano forme fantastiche. Ed ecco allora che creature alate fanno capolino tra le nubi e si levano sul paesaggio, mentre un cavallino bianco sbuca tra i nembi candidi e spicca un salto svaporando sopra la testa della Maddalena.
Al di là di questo amabile gioco, nel quale l'artista ci trascina ancora, a cinque secoli di distanza, ci si può chiedere se fosse un uomo di indole contemplativa. E lo fu, certamente. Così sensibile da cogliere percezioni sottili per raffigurare la spiritualità del tempo. È nei paesaggi, come in genere nella sua pittura, che si può leggere un catechismo per immagini altamente rappresentativo. Del resto, il fatto che Palmezzano fosse un maestro d'arte sacra non lo differenzia dai colleghi, che come lui producevano per le chiese. Ma pochi interpretarono in maniera altrettanto efficace la religiosità contemplativa dell'epoca, spesso visionaria e segnata dall'esperienza della preghiera. Uno stile di vita mistico, condiviso anche dai laici, che affiora nei capolavori del maestro, pittore della devozione privata, oltreché delle confraternite. Un aspetto, questo, evidenziato nel saggio di catalogo da Timothy Verdon, noto esperto di settore. Uno studio importante, dove si restituisce attenzione ai contesti interpretativi dei dipinti per ricostruire, attraverso l'esame iconografico, i contenuti spirituali che passavano attraverso i quadri, e che i quadri, o gli affreschi, raccontavano alla gente.
Ne è un esempio l'Annunciazione della Pinacoteca di Forlì, eseguita per il Carmine sul finire del secolo: opera tra le più ricche di dettagli ma che ben pochi "non addetti ai lavori" sarebbero in grado di decifrare, al di là degli elementi figurativi convenzionali. Perché in questa pala elegantissima si celano spunti di meditazione di notevole finezza. Sono suggerimenti espliciti forniti dalla committenza all'artista per sottolineare il tema incarnazionale caro ai carmelitani, certo, ma che l'artista, poi, tradusse in un lirismo intenso. Che si esprime, per esempio, nelle pagine del libro aperto sotto la mano di Maria, sfogliate e quasi scorse dal "soffio" di una brezza leggera, in modo che le parole scritte si trasformino in carne nel grembo della Madre (Verdon). E così pure si chiarisce la presenza ricorrente del misterioso marchingegno dentellato spesso raffigurato dal pittore alla base dei troni della Vergine. Ingranaggio da riferirsi, più che a un elemento di stile ferrarese, in realtà fine a sé stesso, all'incipit di un inno sacro all'epoca molto diffuso, dove si canta la Macchina dell'universo tripartita in terra, mare e cielo, e governata dal Dio che Maria porta nel grembo (Verdon). Ma si tratta di frammenti simbolici residui di un Medioevo crepuscolare, che in Palmezzano, come in altri artisti del Rinascimento, si apre impercettibilmente a una nuova percezione della natura, e specialmente della natura umana.
Note
(1) "Marco Palmezzano. Il Rinascimento nelle Romagne", Forlì, Complesso monumentale di San Domenico, 4 dicembre 2005 - 30 aprile 2006. Catalogo: Marco Palmezzano. Il Rinascimento nelle Romagne, a cura di A. Paolucci, L. Prati, S. Tumidei, Milano, Silvana Editoriale, 2005.
(2) U. Tramonti, Marco Palmezzano. Itinerari nelle Romagne. Guida storico-artistica, Milano, Silvana Editoriale, 2005.
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