Rivista "IBC" XIV, 2006, 1
Dossier: Il convento ritrovato - Una stagione di restauri nel complesso di San Domenico a Forlì
musei e beni culturali, dossier /
La mostra "Marco Palmezzano. Il Rinascimento nelle Romagne" e il restauro dell'ex convento di San Domenico a Forlì, che la ospita fino al 30 aprile 2006, sono i protagonisti di questo dossier di "IBC", che si propone di contribuire a un ulteriore momento conoscitivo del lungo e laborioso percorso che ha visto istituzioni pubbliche e private impegnate a vari livelli in un progetto di alto spessore culturale per la città. Il dossier viene pubblicato in occasione della XIII edizione del Salone del restauro di Ferrara (30 marzo - 2 aprile 2006), luogo di incontro di tecnici e specialisti del settore, palcoscenico importante per informazioni e iniziative riferite ai beni culturali ( www.salonedelrestauro.com).
E il restauro è il veicolo fondamentale che ha permesso, nel caso del complesso forlivese e delle opere pittoriche esposte, di ampliare conoscenze e fornire informazioni e spunti per approfondimenti di carattere storico e storico-artistico. Dal restauro architettonico, che in queste pagine trova spazio con le voci di coloro che hanno diretto e seguito i lavori, al restauro dei dipinti, determinato dal forte impegno finanziario espresso dalla Fondazione Cassa dei risparmi di Forlì per gli interventi riferiti alla mostra e dalle programmazioni che l'Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna (IBC), la Soprintendenza per il patrimonio storico, artistico ed etnoantropologico di Bologna e il Comune di Forlì hanno intrapreso in un lungo arco temporale.
In questa sede verranno presentati gli interventi promossi negli ultimi dieci anni con contributi delle leggi regionali per i musei, finalizzati alla manutenzione, al restauro e alla conservazione preventiva della raccolta museale forlivese. Preme sottolineare la positività di questa collaborazione come un esempio significativo e un punto di forza della politica di valorizzazione della città e del suo patrimonio artistico. Già da vari anni Forlì e la sua Pinacoteca civica sono protagonisti di eventi culturali di grande qualità e prestigio, riferiti in particolare alla presentazione di artisti forlivesi e comunque di provenienza romagnola, rappresentanti di spicco della multiforme produzione artistica espressa nel nostro Paese fra Quattrocento e Cinquecento.
Il primo esempio in tal senso viene dalla mostra di Melozzo e dal convegno "La cultura umanistica a Forlì fra Biondo e Melozzo", organizzati dal Comune e dall'IBC nel 1994, iniziative che hanno segnato il recupero di una significativa tradizione rinascimentale forlivese, testimoniata peraltro nelle collezioni museali cittadine sia nel campo delle ceramiche che delle terrecotte, dell'architettura, della scultura e della pittura, tanto da determinare la rivalorizzazione delle collezioni civiche e un modo nuovo di guardare la città.
È seguita, nel 2003, la mostra "Francesco Menzocchi. Forlì 1502-1574", occasione importante per approfondire lo studio sull'artista, per fare il punto sulle conoscenze maturate negli anni attorno al pittore e sulle nuove fonti bibliografiche, un'iniziativa voluta dal Comune di Forlì, con la collaborazione della Soprintendenza per il patrimonio storico e etnoantropologico per Bologna, Ferrara, Forlì-Cesena, Ravenna e Rimini, e con il sostegno della locale Fondazione Cassa dei risparmi.
Ultima, in ordine di tempo, la mostra dedicata quest'anno a Marco Palmezzano, che oltre alle opere del pittore forlivese presenta anche dipinti di altri autori di ambito romagnolo quali Melozzo da Forlì, Baldassarre Carrari, Francesco e Bernardino Zaganelli, Girolamo Marchesi, Nicolò Rondinelli, accanto ad artisti provenienti da altre località come Jacopo de' Barbari, Perugino, Giovanni Bellini, Cima da Conegliano, Girolamo Genga, provenienti da musei e collezioni della nostra regione (con una buona percentuale di quadri forlivesi), da musei nazionali (Pinacoteca di Brera, Museo di Capodimonte, Musei Vaticani) e internazionali (Vienna, Baltimora, Dublino, Grenoble, Ginevra) oltreché da collezioni private inglesi e americane.
La mostra, allestita negli spazi dell'ex Convento di San Domenico, rappresenta per la città una sorta di ouverture, un'immagine preliminare di quello che sarà l'allestimento ormai prossimo di alcune sezioni museali, attualmente conservate nel Palazzo del Merenda, monumentale edificio dell'Ospedale vecchio, sede delle collezioni forlivesi dal 1922. Il complesso conventuale di San Domenico, imponente struttura risalente al XIII secolo, a cui seguirono successive aggiunte e trasformazioni avvenute in periodo rinascimentale e agli inizi del XVIII secolo, è stato di recente restaurato. È già previsto anche il lavoro di recupero della grande chiesa, intitolata a San Giacomo, annessa a uno dei chiostri, il cui degrado, a partire dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso, ha portato al crollo della parte centrale del tetto e del lato meridionale.
Edificio maestoso, al cui interno maestranze specializzate hanno lavorato anni per restituire a nuova vita spazi di notevole impatto visivo, segno di un'attività religiosa colta, che aveva la capacità di unire l'approfondimento teologico e la predicazione al gusto per l'arte, San Domenico appare la sede ideale per accogliere testimonianze preziose della storia della città e per offrire al pubblico spazi di grande respiro, per abbandonare temporaneamente la frettolosità e la confusione della vita quotidiana. Si tratta dei lunghi corridoi e degli ambienti che si affacciano su di essi, dei chiostri, dello scalone e in particolare del refettorio, senza dubbio l'ambiente che maggiormente attira il visitatore per la sua imponenza e per la presenza di un apparato decorativo, rinvenuto nel 1996 durante i lavori di restauro, lacunoso ma sufficiente a rendere l'idea della raffinatezza del tratto pittorico.
Anche la chiesa, che conserva ancora frammenti di decorazioni murali e stucchi ed è forse l'ambiente che sprigiona il fascino maggiore, entrerà a far parte del percorso museale. Nel generale progetto di destinazione degli spazi, infatti, la chiesa, per la quale è prevista la ricostruzione del tetto e il ripristino della volumetria originaria, sarà adibita a sala per attività culturali ed esposizioni temporanee, un punto di incontro che consentirà di attivare il museo secondo criteri rivolti a una partecipazione attiva del pubblico.
Il trasferimento dalla vecchia alla nuova sede di intere collezioni (dipinti, oggetti archeologici, oggetti ceramici) rappresenta un momento difficile e delicato da affrontare per un museo che storicamente è cresciuto in determinati spazi, nei quali ha trovato, per oltre ottant'anni, un proprio assestamento conservativo. Forlì ha iniziato questa operazione con l'allestimento di una mostra particolarmente difficile se si considera la grande fragilità delle opere esposte, tutti dipinti su tavola che, per la loro conformazione e per la delicatezza del supporto, necessitano di attenzione e cure continue sia in un assetto espositivo permanente che temporaneo.
In questa fase è stato di particolare aiuto per gli organizzatori l'intervento sostenuto dall'Istituto regionale per i beni culturali nell'ambito del progetto per il monitoraggio delle condizioni microclimatiche dei musei della regione denominato "MUSA. Rete regionale intermuseale per la gestione a distanza della conservazione dei beni artistici", promosso e coordinato dall'IBC in collaborazione con il Consiglio nazionale delle ricerche - Istituto di scienze dell'atmosfera e del clima (CNR-ISAC) di Bologna ( www.isac.cnr.it/musa). La mostra forlivese si è rivelata un banco di prova significativo per verificare la validità scientifica nonché la fattibilità dei principali obiettivi che garantiscono la sicurezza e la correttezza nella conservazione delle opere d'arte, in questo caso opere destinate a una mostra temporalmente definita.
Grazie a un lavoro di équipe fra i ricercatori del CNR e tutti coloro che, a vari livelli, sono stati incaricati di far funzionare la sofisticata impiantistica e di rendere al meglio l'allestimento espositivo, è stato possibile effettuare una campagna di misurazioni che ha permesso la redazione di un documento di conformità delle condizioni microclimatiche, fondamentale per i prestatori dei dipinti, il controllo della fase di acclimatazione delle opere in entrata e in uscita e, nel periodo di durata della mostra, la sorveglianza ambientale. Il tutto naturalmente corredato da un servizio di informazione costante al responsabile del museo.
Accanto a questo progetto di conservazione preventiva, che riteniamo di grande utilità e per il quale l'IBC è impegnato a tutto tondo, ci è sembrato opportuno dare conto in queste pagine, come già accennato, di alcuni interventi di restauro che hanno interessato opere pittoriche, prevalentemente su tavola, negli ultimi dieci anni di attività svolta dall'IBC con la predisposizione dei piani di restauro delle leggi regionali per i musei. Questi interventi rappresentano l'esempio di una ragionata programmazione, rivolta al futuro della pinacoteca e alle iniziative che già si prevedevano.
Uno dei dipinti restaurati, L'andata al Calvario di Marco Palmezzano, è esposto in San Domenico, mentre gli altri trovano spazio in Pinacoteca, una delle sedi del percorso di visita previsto dalla mostra. Di tutti i dipinti sottoposti a restauro - che qui di seguito si elencano, anche per consentire, a chi desidera vederli, un'identificazione più immediata - ne sono stati selezionati quattro che risultano interessanti per le metodologie di recupero utilizzate, come viene evidenziato, nelle prossime pagine, dalle schede di approfondimento che li documentano.
[Luisa Masetti Bitelli]
I restauri di opere del Palmezzano e della sua cerchia finanziati nell'ambito delle leggi regionali:
Legge regionale n. 20/1990
- Francesco Menzocchi, tre dipinti su tavola raffiguranti I Fiumi (Phison, Tigri, Eufrate). Restauro a cura di: Marisa Caprara, Bologna.
- Marco Palmezzano, Presepe. Restauro a cura di: Isabella Cervetti, Bastia (Ravenna).
- Marco Palmezzano, Autoritratto. Restauro a cura di: DELTA, Crespellano (Bologna).
- Marco Palmezzano, Annunciazione (piccola). Restauro a cura di: Sandro Salemme, Imola (Bologna).
- Francesco Menzocchi, San Paolo detta precetti a due Vescovi. Restauro a cura di: Manuela Mattioli, Bologna.
- Francesco Zaganelli, Immacolata Concezione. Restauro a cura di: Manuela Mattioli, Bologna.
- Pier Paolo Menzocchi, Via Crucis. Restauro a cura di: Pietro Antoni, Castelfranco Emilia (Modena).
- Guido Palmerucci, San Gregorio e Maria Maddalena. Restauro a cura di: DELTA, Crespellano (Bologna).
- Michele Bertucci, Madonna con Bambino fra i Santi Girolamo e Maddalena. Restauro a cura di: Marisa Caprara, Bologna.
Legge regionale n. 18/2000
- Marco Palmezzano, Andata al Calvario. Restauro a cura di: Marisa Caprara, Bologna.
- Marco Palmezzano, Madonna tra i Santi Bartolomeo e Antonio da Padova. Restauro a cura di: Adele Pompili, Bologna.
- Baldassarre Carrari, Cristo deposto. Restauro a cura di: Marisa Caprara, Bologna.
- Schedatura conservativa particolareggiata riferita allo stato di conservazione dei dipinti su tavola della Pinacoteca civica, a cura di Marisa Caprara.
A Forlì, accanto alla mostra dedicata a Marco Palmezzano allestita nel rinnovato complesso di San Domenico ( www.marcopalmezzano.it), merita una visita la Pinacoteca civica, che è in attesa del generale trasferimento nella nuova, bellissima sede (proprio quella che ora accoglie la mostra). Qui si possono trovare molti altri bei dipinti, in parte dello stesso Palmezzano, in parte di pittori a lui contemporanei. D'altra parte, mostre come questa vogliono avere un taglio problematico, e questo impone che le opere scelte formino una sequenza di per sé significativa, oltre che tale da rispecchiare le indagini di tipo storico di cui dà conto il catalogo. L'occasione, quindi, non poteva né doveva tradursi in una pura e semplice catalogazione di tutto ciò che forma l'opera conosciuta dell'artista.
Palmezzano, oltre tutto, fu copioso e non esente da ripetitività. La mostra, dunque, affronta la lunga persistenza del suo modo di proporre un tipo costante di figurazione sacra - sia come tipologia che come fattura materiale - presentando una selezione scelta della sua pittura e affiancandovi confronti significativi. Tutte queste dinamiche e altre ancora, collegate a ragioni più strettamente conservative, fanno sì che l'asciutto disegno espositivo trovi un ricco e accogliente contesto in altri luoghi della stessa città e in alcuni centri vicini.
Ma occorre adesso dare una particolare sottolineatura all'aspetto che in questa sede merita la maggiore attenzione: quello della conservazione delle opere. Il momento così festosamente accolto in cui il comitato della mostra, insediato da quattro anni, ha dato pubblico resoconto delle indagini svolte, è stato preceduto da una fitta campagna di restauri. Un atto di politica culturale in apparenza scontato, ma nella realtà abbastanza raro. Notevole, in questo caso, soprattutto per la sua organicità ed estensione e per l'impegno che è costato, ma anche per la chiarezza delle sue intenzioni programmatiche, condivise da molte persone e da tutte le istituzioni coinvolte.
La Fondazione Cassa dei risparmi di Forlì - lo leggeremo anche nelle prossime pagine - esce con un gesto inusitato di moderno mecenatismo nei confronti della città. Ma non è da meno l'impegno delle altre istituzioni (la Soprintendenza bolognese, l'Istituto regionale per i beni culturali, e il Servizio pinacoteca e musei del Comune di Forlì), un impegno meno appariscente forse, non sorretto da altrettante capacità finanziarie, ma ancora capace di far nascere buoni frutti dalle radici - non del tutto secche, si vede - di un dibattito sui beni culturali che risale a trent'anni fa. Una stagione che, per chi l'ha vissuta, doveva preludere ad altri svolgimenti. Tuttavia vale la pena di andare a ricercare il titolo fortunato del libro di Andrea Emiliani uscito nel 1971, La conservazione come pubblico servizio, per trovarvi rispecchiato il senso di una programmazione dei restauri come questa di cui siamo a tirare le somme.
Come si può vedere dagli elenchi dei restauri pubblicati in questo dossier, si è trattato di una decina d'anni di lavori molto intensi, nel corso dei quali ognuno ha dato il suo contributo a far sì che la città chiarisse sempre meglio davanti a sé stessa la bontà della via intrapresa, cioè quella di investimenti culturali davvero importanti e coraggiosi, in relazione alla grande rilevanza delle sue raccolte artistiche.
È stata innanzitutto la scelta di dare una nuova sede alle collezioni civiche che ha fornito un saldo ancoraggio alla programmazione di una campagna organica di restauri su diversi settori della Pinacoteca (per tacere adesso dell'altro notevole impegno sulla rilevazione dei dati microclimatici, assunto in primo luogo dall'Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna). Proprio dall'osservatorio interno di questa grande raccolta abbiamo visto delinearsi sempre meglio alcuni momenti in cui la storia figurativa della città esprime qualcosa di molto specifico. E non è nemmeno stata senza significato la sequenza delle mostre dedicate a Melozzo, Menzocchi e ora a Palmezzano. Una sequenza all'interno della quale appare subito evidente che la linea cronologica non segue un filo rettilineo. Guardando meglio, però, si scopre che il filo segue qualcos'altro: Forlì sempre più invita a guardare il patrimonio figurativo che rimane al suo interno.
Il termine abusato di "città d'arte", ormai, si è svuotato di significato, e non è il caso di ripescarlo in relazione al caso forlivese. Nella letteratura antica delle biografie di artisti o delle prime guide, o ancora dei viaggiatori, la città non ha quasi nemmeno un posto. Il perché va ricercato nelle diverse dinamiche che l'hanno attraversata: gli artisti forlivesi molto spesso si sono formati lontano e/o hanno lavorato lontano. Né si può dire in senso generale che Forlì abbia avuto un ruolo come centro di produzione (Palmezzano è un caso particolare e isolato, che va considerato a sé). Gli artisti che vi sono transitati non hanno lasciato tracce evidenti, forse per il crescere di una situazione sull'altra: una città senza immagine artistica tende a essere poco attenta a cose e memorie di tipo figurativo, ma più ancora nei confronti di quelle che non riconosce come sue. Sarà certo più difficile in queste condizioni ritrovarne le tracce, ma più si osserva la situazione da vicino, più appaiono indizi significativi di passaggi e incontri che hanno lasciato un segno.
I quattro dipinti di cui, nelle prossime pagine, si pubblica la relazione di restauro, si trovano nelle sale della Pinacoteca civica di Forlì, in Corso della Repubblica. Si tratta di tre opere del Palmezzano e una di Francesco Zaganelli da Cotignola, e il loro legame con la mostra allestita in San Domenico non ha bisogno di essere sottolineato.
L'Annunciazione del pittore forlivese era un tempo nella chiesa dei Servi. Viene chiamata "piccola", per distinguerla dall'altra assai più grande, proveniente dalla chiesa del Carmine, che è un capolavoro degli anni giovanili del pittore e attualmente è esposta in mostra. Questa, che appartiene a una fase più matura della sua carriera, e viene collocata cronologicamente all'inizio del secondo decennio del Cinquecento, è totalmente mutata negli atteggiamenti delle figure e nell'ambientazione. È questa stessa composizione, in un formato sensibilmente più grande, che viene ripresa dal Palmezzano in una delle ultime opere che di lui si conoscano: L'Annunciazione nella chiesa dei Servi di Forlimpopoli (Forlì-Cesena), datata 1534 e inserita nell'itinerario che affianca la mostra.
Tra le arcate esterne del restaurato complesso di San Domenico i visitatori che si preparano a entrare alla mostra incontrano un particolare molto ingrandito del cielo che fa da sfondo a questa Annunciazione, con l'osservazione attenta delle gru, che, come dice Dante, volano "facendo in aere di sé lunga riga".
Il Presepe della Pinacoteca di Forlì è una delle più tarde redazioni del soggetto tante volte replicato, in formati anche diversi. Vi si legge la data MDXXXII, che potrebbe essere anche incompleta. Nell'ultima sala della mostra sono esposti, uno accanto all'altro, il grande dipinto di Grenoble, già nella chiesa dei Gerolamini di Forlì, e l'altro, di minor formato, della Pinacoteca di Brera. Per le figure è utilizzata sempre la medesima composizione; e sono più numerose ancora le redazioni note. Per conoscere il modo di operare di Marco Palmezzano è importante prendere atto di questa lunga persistenza dei suoi modelli.
Per visitatori maggiormente coinvolti nelle problematiche di studio si aprono punti di osservazione anche sugli spazi di committenza e di mercato di opere legate a modelli quattrocenteschi, spazi che a Forlì appaiono fino a date progredite del Cinquecento. Se infatti una conoscenza manualistica dei fatti artistici porta a credere che il procedere della cronologia comporti automaticamente una linea di sviluppo dei fatti figurativi in senso moderno, l'esame ravvicinato di molte singole situazioni, all'interno di vari luoghi, permette di toccare quasi con mano come questo ideale percorso prenda nella realtà andamenti non rettilinei, o del tutto contraddittori.
Terza opera del Palmezzano di cui qui si può leggere la scheda di restauro è la Madonna in trono tra i Santi Bartolomeo e Antonio da Padova. Si tratta di un'opera che certo ha un posto di riguardo nella produzione del pittore. Appare databile anch'essa al secondo decennio del Cinquecento. Si sa che fu commissionata da Alberico Denti per l'altare della sua famiglia nella chiesa della Trinità. Evidentemente la ricostruzione settecentesca di tale chiesa ha portato con sé una trasformazione anche del dipinto. La modifica dei suoi contorni parla in questo senso: la pala d'altare non fu subito accantonata, ma fu adattata alla forma di un altare settecentesco, con un profilo mistilineo nel lato superiore. Ciò che allora la rese per qualche tempo più moderna e accettabile, entro il rinnovato contesto della chiesa, nel corso del tempo piacque sempre di meno.
L'opera passò in sagrestia, poi in Pinacoteca. È stata sempre apprezzata per la sua bella fattura, ma la nuova forma, così inadatta a un dipinto cinquecentesco, appare ai nostri occhi come un danno irreversibile, tanto che ha orientato in senso negativo il suo inserimento nel percorso della mostra. Il restauro ultimato da pochissimo tempo ha reso piena giustizia alla sua qualità pittorica, che ora si può seguire e apprezzare assai meglio di prima, e rende percepibile come mai quella solenne dolcezza della Madonna possa essere apparsa non inattuale per un'immagine di culto nel secolo XVIII.
La quarta scheda di restauro riguarda un'opera di Francesco Zaganelli, illustre contemporaneo del Palmezzano, rappresentato in mostra da altre opere di minor formato, affiancato dal fratello Bernardino. La grande pala dell'Immacolata, dipinta nel 1513 per la chiesa forlivese di San Biagio (è firmata e datata), è l'unica sua opera che rimanga in città, ed è di grande importanza. Proprio in un giro d'anni strettamente vicino a questa data, in molte chiese vennero commissionate immagini destinate al culto, dedicate al tema dell'Immacolata, soprattutto da parte dell'ordine francescano - come in questo caso - ma non soltanto. Dopo gli anni in cui Sisto IV sembrò a un passo dalla proclamazione del dogma, con la sua morte (1484) la questione prese a complicarsi, attraversando fasi di maggiore o minore evidenza. Il dogma dell'Immacolata Concezione, come è noto, fu proclamato soltanto nel 1854 da Pio IX.
L'opera di Francesco Zaganelli, oltre a inserirsi nel contesto di un momento di ripresa del dibattito, oltre a fornire una redazione del tutto innovativa dell'immagine, costituisce una testimonianza ai più alti livelli delle straordinarie capacità del suo autore. Il restauro del 1975 aveva provveduto a eliminare la prima causa del suo degrado: i movimenti delle tavole lignee del supporto. È legittimo definire il metodo molto drastico, a confronto con un diverso tipo di sensibilità conservativa che sta maturando oggi, perché il legno della struttura originale fu asportato per sostituirlo con un pannello di alluminio. Se questa fu - anzi è - un'operazione irreversibile, non è del tutto così per le scelte che presiedettero allora alla presentazione della superficie pittorica. Per una volta, il nuovo restauro di quest'opera eseguito nel 1997 è stato mosso da motivazioni eminentemente figurative: la necessità di poter rileggere unitariamente un'immagine come questa, a cui una miriade di piccole lacune non avevano tolto nulla che non si potesse pazientemente ricucire. Così è stato fatto, da una mano estremamente sensibile, con grande rispetto delle qualità espressive dell'opera.
Si potrà vedervi anche un legittimo aggiornamento di gusto nei confronti del dibattito nato negli anni Settanta del secolo scorso sul trattamento delle lacune in sede di restauro e della scelta prevalente di lasciarle in evidenza sulle superfici dipinte. Questa fu una presa di posizione in sede teorica (e di radice assai autorevole), ma ha potuto dar luogo a esiti operativi estremamente diversificati. Nel caso di questo dipinto si può forse giudicare che esso si adattasse con particolare difficoltà a un trattamento di questo tipo. La stessa quantità di figure e di dettagli, spesso minuti, finiva per perdersi nella continua frammentazione delle forme, attraversate dalle lacune a tinta neutra.
Si può dire che la scelta di reintegrare le lacune non abbia lasciato nessun margine all'arbitrio. La ritessitura della superficie pittorica è perfettamente individuabile da un punto di vista ravvicinato. E infine si può affermare che un'operazione di questo tipo si sia tradotta in un'esperienza insostituibile dei modi pittorici di Francesco Zaganelli, almeno vista dalla parte di chi ha diretto il lavoro. Ma è anche vero che ciascuno dei visitatori della Pinacoteca di Forlì potrà ora seguire il continuo rimando di contrasti tra gli andamenti aguzzi e taglienti (nei panneggi, nei contorni), la morbidezza delle ombre (sfumate negli incarnati, annidate tra gli alberi) e il guizzo dinamico dei cartigli srotolati, dei manti e dei nastri, e tante altre particolarità che invitano a sostare davanti a quest'opera con un lungo sguardo.
[Anna Colombi Ferretti]
Quattro restauri esemplari: le schede tecniche
Marco Palmezzano, Annunciazione.
- Descrizione: tempera su tavola, cm 165x118.
- Provenienza: Pinacoteca civica di Forlì.
- Data del restauro: 1997, con finanziamento dell'Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna.
- Restauro a cura di: Sandro Salemme, Imola (Bologna).
- Direzione dei lavori: Anna Colombi Ferretti, Luisa Masetti Bitelli.
Il quadro, la cui raffigurazione richiama l'altra Annunciazione del Palmezzano, la grande tavola che con la sua maestosità e la raffinatezza del tratto pittorico accoglie i visitatori all'ingresso della mostra dedicata al maestro forlivese, proviene dalla chiesa di Santa Maria dei Servi a Forlì ed entrò a far parte della Pinacoteca nella seconda metà dell'Ottocento.
L'intervento di recupero ha interessato sia la struttura lignea che la superficie dipinta. Al momento del suo arrivo in laboratorio l'opera presentava una generale alterazione del supporto ligneo, che aveva subìto una notevole riduzione dello spessore in occasione di un precedente restauro, avvenuto probabilmente intorno agli anni Sessanta. L'alterazione era ampiamente estesa anche alla rappresentazione pittorica. Numerosi attacchi di insetti xilofagi avevano indebolito la struttura, rendendo assai precaria l'adesione tra la pittura e il retro del dipinto.
Al fine di contrastare il naturale movimento del legno era stata applicata una parchettatura "alla fiorentina", molto rigida, costituita da traverse in legno d'abete collocate in senso orizzontale e verticale. L'andamento ondulato della parte figurativa, ben evidente all'esame degli esperti, era indicativo di una curvatura delle tavole costitutive del supporto. In assenza di documentazione specifica dell'intervento precedente, si è ipotizzata l'esecuzione di una piallatura che, oltre a diminuire lo spessore, aveva raddrizzato la parte posteriore del dipinto lasciandolo liscio e ben levigato.
Per recuperare il più possibile la planarità della rappresentazione pittorica, erano state eseguite stuccature con gesso e colla animale per colmare le rotture e pareggiare i dislivelli. Tali operazioni restituirono all'immagine un aspetto più compatto e privo di imperfezioni. Le copiose stesure di stucco servivano anche a nascondere i numerosi fori provocati dagli insetti e il ritocco, non particolarmente raffinato, mimetizzava le lacune.
Presa visione di tutti questi aspetti e messo a punto un piano di lavoro, la prima operazione concreta ha riguardato il consolidamento della superficie pittorica e la successiva velinatura con carta giapponese, per poter agire sul retro in condizioni di sicurezza.
L'intervento forse più delicato - e molto importante, nel caso di questo dipinto, ai fini del suo riassetto strutturale - ha riguardato la demolizione della vecchia parchettatura, con la rimozione delle traverse e il risanamento delle parti della tavola maggiormente danneggiate. Tutte le rotture sono state risanate e colmate con tasselli in legno della stessa essenza dell'originale, ricavati da vecchie travi. Poiché le condizioni della fibra lignea erano molto degradate è risultata necessaria l'eliminazione di alcune sezioni del supporto anche in prossimità dello strato preparatorio, colmate con essenze lignee preventivamente disinfestate. La nuova parchettatura scorrevole, ora in grado di agevolare il naturale andamento del legno, è stata costruita con barre in alluminio innestate in tasselli di faggio evaporato.
Dopo la rimozione delle cartine giapponesi dalla superficie pittorica, si è proceduto all'asportazione delle ridipinture e delle numerose stuccature, sotto le quali si ritrovava ancora intatto il colore originale. Le lacune provocate dai danni avvenuti nel tempo sono state colmate con un impasto di gesso di Bologna e colla d'ossa, mentre la loro integrazione è stata eseguita con colori ad acquerello e finitura a vernice, così da offrire all'insieme una buona leggibilità. In basso, fra l'Angelo e la Vergine, un piccolo cartiglio riporta, parzialmente leggibile, la firma del pittore.
Marco Palmezzano, Presepe.
● Descrizione: tempera su tavola, cm 70x94.
● Provenienza: Pinacoteca civica di Forlì.
- Data del restauro: 1997, con finanziamento dell'Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna.
● Restauro a cura di: Isabella Cervetti, Bastia (Ravenna).
● Direzione dei lavori: Anna Colombi Ferretti, Luisa Masetti Bitelli.
Il dipinto, che proviene dal lascito "Piancastelli", era stato oggetto negli anni Settanta di un intervento di restauro rivolto in particolare al supporto ligneo, la parte più delicata e fondamentale per la conservazione generale dell'opera. In quell'occasione fu approntata una parchettatura che ha consentito nel tempo i naturali movimenti del legno e che risulta a tutt'oggi adeguata all'assetto complessivo del manufatto. Un percorso diverso ebbe l'intervento sulla superficie pittorica, che, sulla base delle linee metodologiche seguite in quegli anni da tutti coloro che si occupavano di restauro, esigeva il mantenimento delle cosiddette "lacune", semplicemente abbassate di tono e riportate alla colorazione che meglio si addiceva alla migliore visibilità della rappresentazione pittorica.
Proprio per questo, quando si è trattato di individuare le opere da inserire nei programmi di restauro per la pinacoteca di Forlì, si è creduto utile prendere in considerazione anche interventi di restauro puramente pittorico, così da recuperare, quanto più possibile, l'aspetto estetico di quadri di notevole qualità artistica, senza dimenticare poi la loro prossima collocazione e quindi il nuovo assetto espositivo presso il complesso conventuale di San Domenico.
Per quanto concerne il Presepe, la composizione era alterata, al centro, da una fenditura di rilevante spessore che comprometteva tre volti, quello di San Giuseppe e dei due pastori alle sue spalle, proseguendo sullo scollo della Vergine e sul paesaggio di sfondo. Al termine di un'operazione di pulitura della superficie, che non ha presentato particolari problemi e ha riguardato principalmente la rimozione del particellato atmosferico depositato sulla superficie dipinta, si è proceduto all'eliminazione delle vecchie stuccature e al loro rifacimento, preparazione necessaria per poter intervenire con abili tocchi di pennello a una ricucitura dell'insieme.
Il problema più grave, come già accennato, riguardava soprattutto i volti, elementi molto delicati da affrontare in queste circostanze. Con un lavoro di grande pazienza, accomunato alla necessaria competenza e sensibilità artistica, e sulla base delle tracce presenti, anche le più esigue, è stato ricomposto tutto quello che era possibile ricostruire. Dove questo non era fattibile, il pennello ha accompagnato l'immagine mancante attraverso tratti cromatici che non hanno ricostituito il disegno, ormai assente, ma ne hanno soltanto accennato le linee di contorno. Inoltre sono state integrate fin dove possibile le zone abrase, per giungere a una lettura sufficientemente omogenea e armoniosa dell'opera, priva di quegli elementi che ne disturbavano la percezione visiva. Tutto il delicato lavoro di ritocco è stato eseguito ad acquerello.
Marco Palmezzano, Madonna in trono tra i Santi Bartolomeo e Antonio da Padova (pala "Denti").
- Descrizione: tecnica mista su tavola, cm 141x118 (le misure sembrano lievemente ridotte e il lato superiore presenta un profilo mistilineo non originale).
- Provenienza: Pinacoteca civica di Forlì.
- Data del restauro: 2005, con finanziamento dell'Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna.
- Restauro a cura di: Adele Pompili, Bologna (risanamento della carpenteria eseguito da Martin Kleinsasser).
- Direzione dei lavori: Anna Colombi Ferretti, Luisa Masetti Bitelli.
L'attuale assetto dell'opera sembra aver ricevuto la maggiore impronta da un adattamento nel Settecento. La chiesa della Trinità di Forlì, da cui proviene, fu completamente riedificata in tale secolo. Il dipinto del Palmezzano, collocato sull'altare della famiglia Denti, fu verosimilmente ridotto nelle dimensioni e nella forma attuali con l'intendimento di rimodernarlo, prima di essere trasferito in sagrestia, e da lì in Pinacoteca.
Il supporto è formato da quattro assi verticali in legno di pioppo, più un sottile listello lungo il margine destro. La carpenteria è rinforzata da due traverse orizzontali, progettate con incastro a coda di rondine, senza alcun fissaggio rigido, in modo da consentire i naturali movimenti delle fibre lignee. Quelle attuali, in legno di faggio, non sono originali. Hanno anche subìto un intervento improprio, perché sono state bloccate, per cui nella struttura si sono prodotte alcune trazioni improprie. La traversa inferiore era anche uscita dalla sua sede, a causa dell'incurvatura presa dal dipinto, e sulla faccia dipinta dell'opera si erano determinate alcune fessurazioni accompagnate da sollevamenti della mestica e del colore (per fortuna di limitata entità).
Sono state poste a sostegno della struttura nuove traverse mobili, con molle inserite, per dare all'aggancio un'elasticità sufficiente, e insieme un limite alla mobilità delle fibre. Sulla struttura sono state eseguite tutte le operazioni occorrenti alla sua buona conservazione: disinfestazione con permetrina, risanamento delle fessurazioni con innesti a cuneo in legno della stessa essenza, e il tamponamento delle sedi delle vecchie farfalle.
Le fasi di lavorazione sul retro della tavola sono state intercalate alle lavorazioni sulla superficie dipinta. Per poter applicare la velinatura di protezione necessaria a evitare movimenti di colore durante il risanamento della carpenteria, si sono operati prima alcuni interventi assai delicati: la rimozione delle vernici di restauro, di vecchie stuccature e di alcuni ritocchi pittorici, e quindi il fissaggio dei sollevamenti del colore e della preparazione.
In questa fase, insieme alle responsabili della direzione dei lavori e con il supporto del professor Vincenzo Gheroldi, è stato condotto quell'indispensabile esame critico dello stato della pittura che conduce a capire quali fossero le condizioni di nascita dell'opera e in quale misura l'abbiano alterata le vicende conservative. Solo questo tipo di indagine preliminare, accompagnata da prove pratiche, consente di individuare le linee da seguire nell'intervento e di fissarne gli obbiettivi.
Eseguita quindi quasi totalmente la pulitura, la superficie del dipinto era pronta per l'applicazione della velinatura protettiva, e si è eseguito il risanamento della carpenteria, come descritto sopra. Rimosse infine le cartine giapponesi, il lavoro finale è stato indirizzato a ripristinare la leggibilità dell'opera, richiudendo le lacune pittoriche, che non erano di grande entità, con un ritocco a rigatino molto minuto, percepibile da un punto di vista ravvicinato. Le stuccature sottostanti, tutte rinnovate con gesso, colla e caolino, sono state preparate a tempera con velatura di colori a vernice. Sono stati ritrovati i contorni delle grottesche sul gradino del trono della Madonna e i contorni della ricaduta del manto, con una paziente ricucitura di minimi frammenti originali in una zona particolarmente martoriata.
La documentazione che rimane dell'opera consente di ricostruire che proprio qui fu ridipinto lo stemma della famiglia Denti, committente dell'opera. Non doveva trattarsi di una parte originale del dipinto, perché la stesura del Palmezzano - che è quella ritrovata e ripristinata - non lo prevedeva. Sarà stata probabilmente un'aggiunta dello stesso tipo di un'altra che rimane leggibile in basso: un secondo cartellino, sotto al primo (dove rimane mal leggibile la firma del pittore), che riporta il nome di Alberico Denti come committente e patrono dell'altare e la data mal leggibile, forse 1513. Si è già detto che l'attuale forma del dipinto ha tutta l'aria di essere frutto di manomissioni del secolo XVIII: probabilmente anche queste aggiunte furono introdotte allora.
Dello stemma rimane solo la memoria. Quando l'opera è entrata in laboratorio di restauro, questa zona di pittura sul gradino mostrava i segni non solo di danni pregressi, ma di veri fraintendimenti delle parti originali, con aggiunta di maldestre ridipinture. La buona leggibilità complessiva è stata ritrovata con l'aggiunta di qualche velatura sulle parti abrase, utilizzando prevalentemente colori ad acquerello. Sul retro e ai bordi è stato operato un intervento di protezione con paraloid e un sottile strato di cera, per rallentare lo scambio di umidità con l'esterno. La superficie del dipinto è stata finita con una vernice.
Francesco Zaganelli, La Concezione della Vergine.
- Descrizione: tecnica mista, originariamente su tavola, trasportata su pannello in alluminio nel 1975, cm 315x190.
- Provenienza: Pinacoteca civica di Forlì.
- Data del restauro: 1997, con finanziamento dell'Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna.
- Restauratore: Manuela Mattioli.
- Direzione dei lavori: Anna Colombi Ferretti, Luisa Masetti Bitelli.
La grande pala d'altare è stata sottoposta a restauro dopo ventidue anni dall'intervento di Ottorino Nonfarmale (1975), soprattutto per l'esigenza di ritrovare una lettura complessiva dell'immagine. I problemi strutturali, infatti, allora erano stati risolti tramite il trasporto del colore e della mestica sul pannello in alluminio che ancora costituisce il supporto della pittura. La forma del dipinto era stata alterata in precedenza, modificando la centina e colmando con un innesto il vuoto lasciato nel margine inferiore da una forma inserita, probabilmente un tabernacolo. Neppure questo assetto ha subito altre modifiche. Quella che è stata sottoposta a completa revisione è la superficie pittorica, e solo per quanto ha riguardato il trattamento delle lacune, perché la pulitura di allora, con la rimozione dei vecchi ritocchi, è apparsa ancora adeguata.
Le operazioni eseguite costituiscono un elenco in sé breve: è stata rimossa ogni traccia del deposito atmosferico che si era accumulato in oltre vent'anni, e poi anche la vernice applicata su tutte le lacune del tessuto pittorico, che allora erano state presentate con un semplice tono neutro. La difficoltà di questo lavoro è derivata tutta dal numero abbondantissimo di tali lacune. La loro superficie, oltre tutto, era stata lasciata a un livello minimamente più basso, rispetto al resto della superficie, per cui si è resa necessaria l'applicazione di uno strato sottilissimo di nuovo stucco (con gesso di Bologna e colla di coniglio) per portare la figurazione a un livello omogeneo.
A questo punto l'opera è stata nuovamente verniciata del tutto, per procedere alla parte più significativa del lavoro: la ricucitura della fattura pittorica. Le lacune vere e proprie sono state trattate con un tratteggio finissimo, che appare solo a uno sguardo molto ravvicinato. Sono stati adoperati pigmenti in polvere in vernice chetonica. La natura stessa delle lacune, fortunatamente, consentiva questo tipo di lavoro, perché nessuna forma e nessun profilo erano tanto lacerati da non consentire di ritrovare gli andamenti originali. Evidentemente i movimenti del legno, quando la struttura lignea originale non era stata asportata, avevano causato una quantità di cadute di colore tutte di dimensioni piccole o medie, ma nessuna lacuna incolmabile.
Altri tipi di danni sono stati riscontrati sulla superficie pittorica. Uno, derivato da lavori eseguiti in passato con imperizia, consiste nella rimozione di velature con cui la forma pittorica richiedeva di essere finita. L'altro, causato probabilmente da un difetto tecnico, consiste nella particolare fragilità dei verdi.
Qui la reintegrazione è stata guidata dalle particelle di colore originario residue e dalle tracce del disegno preparatorio sottostante alla pittura, spesso ben visibili a causa della leggerezza della stesura. Assai più difficile è stato l'intervento sulle zone rimaste prive di finiture oleose, in particolare nei due campi di colore delle maniche della Madonna, dove la sovrapposizione di toni giallo-rossi crea un insolito arancio luminoso. La manica destra era ridotta a una sagoma piatta, poco articolata dagli andamenti del panneggio, quella sinistra era pressoché illeggibile. Ora la prima ha ritrovato maggior definizione, mentre la seconda ha dovuto rimanere poco più che abbozzata. La copia ottocentesca dell'opera, esistente nella chiesa di San Francesco a Forlì, aveva già dato un'interpretazione molto libera di queste parti, evidentemente già danneggiate, per cui non ha potuto essere utilizzata per una più fedele ricostruzione.
La verniciatura finale è stata realizzata con vernice mastice diluita, applicata a pennello. Infine è stata perfezionata vaporizzando la stessa vernice, diluita in essenza di trementina. Visivamente non si percepisce che il supporto della pittura non è più quello originale in legno. Le discontinuità di superficie e la traccia dell'unitura delle antiche assi si percepiscono ancora sotto la pittura, e la lettura dell'opera è ora consentita in maniera assai migliore di prima.
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