Rivista "IBC" XIII, 2005, 3
convegni e seminari, mostre e rassegne, storie e personaggi
Dal 5 al 7 agosto 2005 si è tenuta al Castel Sismondo di Rimini la sesta edizione del "Festival internazionale di poesia medievale" organizzato annualmente dall'associazione "Il Portico del Vasaio" col lusinghiero interesse del pubblico e dei media.1 È la prima iniziativa, in Italia e in Europa, che presenta a un pubblico diverso da quello specialistico la poesia medievale in una manifestazione, articolata su più giorni, che coinvolge studiosi, traduttori, attori e musicisti. Un viaggio alla ricerca del continente perduto: quella parte della coscienza europea e mediterranea che agisce da sempre nella nostra storia ma è stata esclusa dai nostri programmi di studio, dalle nostre abitudini di lettura.
Da secoli la letteratura poetica medievale giace sepolta nell'ambito dell'erudizione o della formazione religiosa o del folklore nazionale: se il Medioevo è oggetto di culto e fascinazione ormai da molti decenni, in un revival di interesse che non conosce limiti di genere e di mode, la sua poesia è rimasta invece sempre un pianeta sconosciuto, la cui attrattiva balena dalla versione musicale dei Carmina Burana o dal pathos religioso dello Stabat mater, per emergere solo nella sintesi epocale della Divina Commedia o nel Perceval di Chrétien de Troyes. Dell'immenso patrimonio conservato nei manoscritti delle nostre biblioteche, e che solo per la produzione in latino conta migliaia di autori e testi, solo pochissimi godono del privilegio di una traduzione italiana.
Eppure il Medioevo, che ha saputo concretizzare altezze e profondità del suo percorso spirituale in manifestazioni artistiche di eccellenza assoluta, ha generato anche un corpus poetico di straordinaria estensione europea e mediterranea, creando mondi fantastici alla cui conoscenza la coscienza occidentale e orientale non può rinunciare senza perdere la propria identità storica ed estetica. Il Festival si propone appunto di contribuire all'esplorazione di questo universo sconosciuto presentando testi di tutte le letterature poetiche medievali, articolati intorno a temi ogni anno diversi grazie a ricerche espressamente eseguite da un comitato scientifico nazionale, spesso appositamente tradotte per la prima volta in italiano, o per la prima volta recitati in forma pubblica e spettacolare.
L'impianto che organizzatori e comitato scientifico hanno pensato di dare a questa edizione privilegia due condizioni essenziali per la cultura del Medioevo ma del tutto inconsuete per il lettore moderno di testi medievali: anzitutto la dimensione musicale, che per la poesia antica era costante naturale. Il suo recupero ripristina un'unità di percezione che oggi la poesia ha perduto, e si realizza in questa edizione grazie a un prestigioso complesso come gli "Anima Mundi Consort", coadiuvati da Gianna Grazzini, un ensemble di livello internazionale che esegue un repertorio appositamente selezionato in accordo col tema dei testi. Il secondo aspetto è il recupero della dimensione multiculturale, che a lungo è stata oscurata dall'idea romantica del Medioevo come epoca di incubazione delle nazioni e dall'immagine di una monocultura cristiana e occidentale: oggi si torna a scoprire quanta molteplicità di forme e di linguaggi si agitava dietro l'immobile coerenza della cultura medievale, e anche quest'occasione contribuisce ad acquisire coscienza della pluralità di voci e di culture attive in continuo dialogo, e spesso anche in costante conflitto fra loro.
Le grandi raccolte di poesia mediolatina, come i Carmina Cantabrigiensia e i Carmina Burana, contengono assai spesso testi in lingue diverse. Al palazzo del re di Bretagna Tristano si esibisce in canti di tradizioni linguistiche differenti. Alla corte normanna di Ruggero II e in quella sveva di Federico II, nella Siviglia mozarabica e nei giardini di palme e fontane della Sicilia multiculturale i poeti scrivono in arabo, greco e in latino, cantano in provenzale e in tedesco. Ma già l'Europa di Carlo Magno è un coacervo di apporti internazionali, unificati dalla comune lingua latina. Il Medioevo non è un'unità culturale: è un caleidoscopio di tradizioni, di colori, di suoni, di forme: per questo il modo più autentico di assaporarne la bellezza e la creatività deve attingere trasversalmente dal patrimonio delle sue tante letterature, latina e franco-provenzale, germanica e celtica ma anche araba, bizantina e persiana, in un affascinante rapporto di analogia e di osmosi che fa del Medioevo il laboratorio letterario di etnie in costante comunicazione. La musica e la poesia sono in grado di evocare questa lussureggiante vitalità più di ogni altra forma espressiva: e il Festival è una delle migliori occasioni per entrare in contatto con questo universo.
L'edizione 2005 è stata la prima di una serie dedicata al tema del fantastico, che ci è divenuto familiare, da Tolkien in poi, grazie alla fortunata diffusione di romanzi, fumetti e opere cinematografiche di ispirazione fantasy, cioè di ambientazione pseudostorica spesso riferita a un Medioevo di mostri, fate e cavalieri di facile impatto sull'immaginazione del grande pubblico. Indagando nei testi del passato si scopre però con qualche sorpresa che elfi, draghi, vampiri e zombies, orchi e fantasmi, abitano veramente l'immenso patrimonio delle letterature medievali: sono anzi quasi tutte creazioni proprio del Medioevo, che hanno poi attraversato l'immaginario moderno in metamorfosi continua. I mostri che popolano molti film di questi anni sono talvolta gli stessi che percorrevano i testi autentici del Medioevo; la differenza è che allora quella presenza era sentita come relativamente naturale e poco traumatica, mentre alla nostra educazione razionalistica essi appaiono come assolutamente incongrui e perciò forse portatori di un fascino ambiguo. Ma personaggi e vicende sono spesso analoghi. Nemmeno il termine "fantastico" è esclusivamente moderno: certo, nel Medioevo non indicava un genere narrativo, ma anche il XII secolo conosce i suoi fantastici casus e le sue fantasticae illusiones, come le chiama Walter Map nel De nugis curialium parlando, per l'appunto, di fantasmi.
Al nostro "fantastico" nel Medioevo equivale più precisamente il concetto di "meraviglioso", il mirabile o meglio ancora i mirabilia: i fenomeni e i personaggi che provocavano meraviglia e stupore. Secondo lo storico francese Jacques Le Goff dopo il 1100 possiamo individuare tre tipi di meraviglioso: il mirabilis, sovrannaturale di qualsiasi tipo, il magicus, per lo più demoniaco, e il miraculosus, che è il meraviglioso cristiano, i cui fenomeni sono sempre riconducibili all'intervento divino, direttamente o attraverso l'opera dei santi. Ma quel che distingue veramente la mentalità medievale dalla nostra è che nel Medioevo ogni fenomeno poteva e doveva essere spiegato come segno del divino: anche il mostro, anche l'animale inesistente, anche la parola di un morto o il volto di un demonio si inserivano in un ordine di cose presentato come coerente e compatto, e in quest'ordine ogni forma visibile aveva senso in sé ed era portatrice di un senso ulteriore, di un messaggio per gli altri: lo testimoniano le interpretazioni delle mostruosità naturali che leggiamo in testi altomedievali come il Liber monstrorum e le versioni latine del Physiologus.
Su questo tessuto variopinto ma unitario si inserisce nel XII secolo una novità dirompente: l'emergere del folklore precristiano dalle forme di trasmissione orale alla narrativa degli intellettuali: nascono così raccolte di mirabilia (come quelle di Walter Map, Raimondo Lullo, Gervasio di Tilbury), trattati sul miracolo (Pietro di Cluny), e nelle storie nazionali (Goffredo di Monmouth) personaggi magici ed elementi fiabeschi entrano in misura imponente e spesso indipendente dalla cornice culturale cristiana, ricostituendo un collegamento con le tradizioni popolari che la produzione colta sembrava avere perduto. È questo "l'ingresso dell'immaginario nella produzione culturale medievale", latina e non, testuale e artistica, di cui parlano Le Goff e Baltrusaitis nei celebri volumi dedicati al meraviglioso e all'immaginario, che hanno fatto di questi temi uno dei filoni di ricerca privilegiati dalla medievistica negli ultimi vent'anni. In questo momento comincia il processo, giunto fino a noi, di estetizzazione del meraviglioso, cioè di trasformazione del meraviglioso in letteratura e arte del fantastico.
Nell'immenso repertorio del fantastico, ancora poco esplorato soprattutto nelle sue fonti latine, l'edizione 2005 del Festival riminese di poesia medievale ha seguito un filone tematico di grande fascino simbolico: le storie dei giganti, che come molti elementi dell'immaginario fondono o sovrappongono in sé tratti della tradizione classica con aspetti della mitologia nordica e della narrativa biblica. Le attestazioni poetiche che ci sono pervenute li presentano quasi sempre come "esseri dell'Altrove", "creature di Fuori", secondo l'antica suggestiva definizione del Beowulf. Questa loro collocazione, che accomuna mitologie nordiche e tradizioni semitiche prebibliche, deriva da una condizione di nature intermedie fra gli dèi e gli uomini - o fra gli angeli e gli uomini, o la terra e gli uomini - caratterizzate dalla dimensione enorme, dalla deformità dei tratti corporei, da un comportamento violento e lussurioso, comunque istintuale, tipico di un'epoca precedente alla civiltà, da un linguaggio quasi sempre incomprensibile a tutte le altre creature (come ancora in Saxo Grammaticus e nella Divina Commedia, dove a Nimrod si attribuisce il verso "Kraphel Mai amecche zabi almi"), e spesso da una funzione liminare, di soglia fra il mondo dei vivi e il mondo dei morti, che li mette tuttavia in possesso di conoscenze inattingibili agli umani.
L'elemento ricorrente di tutte le narrative che coinvolgono i giganti è l'incontro o scontro con esseri di livello diverso dal loro: con gli dei, come avviene nelle Dionisiache scritte in greco dall'egiziano Nonno di Panopoli e nell'Inferno di Dante, oppure con gli uomini, come negli altri testi, dove quasi sempre questi uomini sono eroi e guerrieri. E in tutti questi conflitti il destino del gigante è la sconfitta, la sconfitta di chi viene da un tempo anteriore e non è adatto alla dimensione e alle tecniche del mondo che viene. La sottomissione dei giganti è tuttavia ottenuta sempre a prezzo di uno scontro spaventoso, che provoca cataclismi irrecuperabili nel creato o ferite profonde nelle creature, ma riporta comunque, alla fine della conflagrazione, un nuovo ordine già annunciato, dal quale appunto i superstiti di un passato ancestrale non accettavano di vedersi superati.
Dalla mitologia germanica delle culture nordiche, dove i giganti assumono un ruolo primario di stirpe spesso preumana, il Festival ha proposto due episodi di tonalità contrastante: uno è la storia drammatica e allegorica della gigantessa Harthgrepa, precursore di figure suggestive della letteratura moderna da Swift a Baudelaire, narrata dal grande scrittore latino del XIII secolo noto col nome di Saxo Grammaticus, lo stesso che ci conserva gran parte delle saghe danesi altrimenti perdute, raccontandoci per primo la vicenda di Amleto; l'altro è l'archetipo assoluto del gigante come pura bestialità, il Grendel del Beowulf, primo poema della letteratura anglosassone (datato dagli specialisti fra VI e VIII secolo), nemico dell'eroe eponimo in uno scontro suggestivo ed enigmatico che simboleggia, come per la saga di Eracle, l'affermazione della civiltà come liberazione dallo stadio di vita primitiva, asociale, bestiale della forza bruta, e insieme la forma di resistenza vandalica e devastatrice opposta al trionfo della nuova civiltà da parte di chi ne rimaneva escluso. Entrambi i testi sono stati offerti nella elegante traduzione della compianta Ludovica Koch.
L'epica protobizantina rappresenta invece il gigante come prototipo di una superbia convinta di poter sfidare il divino: le Dionisiache di Nonno di Panopoli, tradotte da poco in italiano dalla grecista Daria Gigli Piccardi, presentano infatti con grandiosità di scenari lo scontro titanico fra Zeus e Tifone, che gli ruba il fulmine e cerca di detronizzarlo, ma resta affascinato dalla dolcezza della musica di Cadmo e alla fine soccombe, dopo una lotta immane e catastrofica i cui scenari, degni di una spielberghiana Guerra dei mondi, sono descritti dal poeta con barocca profusione di mezzi epici. Allo stesso filone si ricollega in parte il XXXI canto dell'Inferno, dove Dante, seguendo la tradizione medievale dell'Ecloga Theoduli, fonde nella condanna alla superbia i giganti che nelle narrazioni antiche attaccarono Giove e l'episodio della Torre di Babele. Anche il tentativo per eccellenza di scalata al cielo da parte di creature inferiori era stata infatti ispirata dalla malizia di un personaggio di dimensioni favolose: Nemroth, valoroso re babilonese definito "gigante" a causa di un errore della traduzione latina della Bibbia e identificato da alcune tradizioni medievali ed ebraiche con un coltissimo astronomo miscredente. Fra questi mostri Dante include anche il Tifeo, o Tifone, protagonista dell'epica bizantina.
Con gli altri poemi latini di ambito franco-normanno il mostruoso si integra invece con la dimensione più familiare delle mitologie medievali: il ciclo carolingio e il ciclo arturiano, che comprendono entrambi scontri con giganti (nel nostro caso: Artù col gigante di Mont Saint-Michel, rapitore di una nobile fanciulla, e Orlando in combattimento col gigante saraceno Ferraù o Ferraguto). Sono episodi attinti da fonti poetiche quasi sconosciute, e qui tradotti per la prima volta in italiano. Conservano del gigante un'immagine ancora in parte selvaggia e crudele, specie nel primo episodio (tratto da una poco studiata versificazione dei Gesta regum Britanniae del XII-XIII secolo), ma ormai priva dei connotati sapienziali e dell'ambizione superba che ne faceva comunque gli ambiziosi sfidanti della legge. Nel secondo brano, dal Karolellus del XII secolo le cui fonti si collegano a quelle del cantare franco-veneto Entrata in Spagna e dell'Orlando innamorato di Boiardo, il gigante saraceno Ferraù, una sorta di novello Golia, ha ormai perso completamente anche questi elementi di trasgressione, per diventare interlocutore civilizzato del paladino Orlando in un epico scontro durato tre giorni che è anche uno scontro dialettico: qui la fede cristiana si impone sulla musulmana, attraverso una spiegazione teologica, come l'umano si impone sul deforme, che tuttavia ormai non oppone più alcuna resistenza ad accettare la sua legge.
Un'umanizzazione razionale caratterizza anche il versante miraculosus del fantastico gigantesco: la storia del santo-gigante, Cristoforo, che passò dal servizio del diavolo a quello di Cristo per ansia di trovare l'uomo più potente del creato, e fu celebrato da centinaia di traduzioni iconografiche nell'atto di trasbordare sulle proprie spalle il bambino Gesù, pesante come nessuno avrebbe potuto sopportare perché teneva il mondo nelle proprie mani. Cristoforo, divenuto protettore di viandanti e automobilisti, è stato uno dei santi più venerati e rappresentati dall'arte medievale e moderna, ma la sua figura affonda le proprie origini in un fondo ancestrale che l'indagine agiografica non è riuscita a dipanare completamente: in alcune versioni tardomedievali, come la Leggenda de sancto Cristofano in volgare romano del Trecento che il Festival ha presentato, è appunto un gigante ormai perfettamente umanizzato, anche se il suo nome originario, Reprobo o membro della tribù dei Reprobi, ne ricorda un'origine certamente inquietante; nelle versioni più antiche, come quella conservata nello stesso prezioso manoscritto del Beowulf, o come il poema latino di Guglielmo di Spira (X secolo), e soprattutto in quelle orientali rimaste fissate in molte celebri icone bizantine, è invece un vero e proprio mostro con la testa di forma canina, un cinocefalo.
Gli intellettuali mediolatini hanno avuto buon gioco a interpretare questo aspetto come legato al simbolo del cane quale guardiano della Chiesa o predicatore focoso, ma al di là dell'escamotage intellettuale il santo gigante con la faccia di cane non poteva non creare smarrimento nelle credenze dei suoi cultori cristiani. È per questo che già in età carolingia il teologo benedettino Ratramno di Corbie scrisse per un suo confratello l'Epistola de Cenocephalis, un trattatello diventato necessario per tranquillizzare i lettori sulla appartenenza sia dei cinocefali sia dei giganti alla stirpe umana. Negli stessi anni l'enciclopedista Rabano Mauro si esprimeva contro la convinzione secondo la quale i giganti nominati in alcuni passi dalla Bibbia erano stati generati dal connubio antidiluviano degli angeli con le donne umane: l'ipotesi nasceva da un passo della Genesi (6, 1-4) che parla di unione fra "figlie dell'uomo" e "figli di Dio". L'esegesi più recente interpretava le prime come figlie di Caino e i secondi come discendenti di Set, ma l'enigma non trovò mai una soluzione soddisfacente, anche perché in passi inquietanti di Isaia e nel libro dei Proverbi si allude nuovamente ai giganti come abitatori del Regno dei Morti, analogamente a quanto avviene nelle saghe danesi.
I giganti, insomma, turbavano ancora la coscienza degli intellettuali cristiani del Medioevo, e la storia di Cristoforo rappresenta perfettamente lo sforzo di neutralizzare questo fondo precristiano e quasi primitivo in un contesto che gli conferisca un nuovo significato religioso. Ma i teologi risolvevano l'angoscia soprattutto spiegando che anche questi mostri "hanno una propria collocazione, perché la legge della natura è l'ordine di Dio" (Ratramno). Oggi giganti e altri mostri sono tornati a popolare le nostre librerie e i nostri cinema: come nel Medioevo, ancora una volta sono la narrazione e la creazione poetica a liberarci dai fantasmi del fondo più oscuro della nostra natura, che riemergono periodicamente nei momenti di crisi di una civiltà in trasformazione profonda.
Nota
(1) Questo testo costituisce un'anticipazione parziale di un contributo che sarà pubblicato sulla rivista "Medioevo": ringraziamo l'editore del testo integrale per la cortesia.
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