Rivista "IBC" XIII, 2005, 2

linguaggi, interventi, storie e personaggi

Ci ha lasciati Raffaello Baldini. Aveva scelto il dialetto di Santarcangelo per raccontare situazioni e sentimenti di ogni luogo: lo ricordiamo attraverso le parole di chi lo ha conosciuto da vicino, e con i suoi ultimi versi.
Poesia del riserbo

Manuela Ricci
[direttrice di Casa Moretti, Cesenatico (Forlì-Cesena)]

Abbiamo avuto la fortuna di ascoltarlo. Di più: di godere della sua amabile, discreta, intelligente amicizia. E ricordare Raffaello Baldini è oggi soprattutto portare alla memoria il piacere di un incontro, con il poeta e con l'uomo. Evidenziare il piacere dell'ascolto. Ci diceva che "un testo dialettale, oltre e magari prima che letto, debba essere sentito leggere", e nel suo caso - se ciò fosse possibile - era ancor più vero.

Quando, negli anni Ottanta, in occasione delle prime presentazioni, lo sentimmo recitare i suoi versi, si trattò per molti di una vera e propria folgorazione. Da allora ogni suo incontro pubblico radunava le folle. E il pubblico che ha seguito Baldini in questo ventennio è un pubblico tutto speciale: attento sì, ma soprattutto partecipe, complice, quasi irriverente col poeta, se non fosse che, davanti a quelle sue performance di lettore, rimaneva come in apnea. Ma poi, alla fine di ogni poesia, riprendeva quella richiesta di titoli, quasi scomposta, più consona al pubblico di un concerto rock o al tifo di stadio che non a un reading di poesia. Potere di Lello, come lo si chiamava tutti, quello di abbattere qualunque distanza formale che talvolta sussiego e sicumera d'autore incutono. Ma qui il valore era tutto dell'uomo.

Riservato, ma così attento a tutti. Aveva scritto: "Ci accorgiamo che nessuno vuole ascoltare nessuno [...] ascoltare è difficile, ascoltare è sempre un po' diventare l'altro, e uno si difende, d'istinto". Lui invece sapeva ascoltare, guardandoti con quegli occhi affabili e ironici. E otteneva l'ascolto di tutti.

Non era forse mai accaduto che testi di così alto valore letterario divenissero anche così popolari. Certo a tale popolarità ha contribuito il registro dell'opera baldiniana, comico in superficie, che ne dissimula il carattere tragico. Ma agli uditori (siano stati compaesani illetterati, o intellettuali preparati) non mancava la consapevolezza che si stesse di fronte a una delle voci poetiche più grandi e originali in Italia, così come aveva avvertito Mengaldo nell'introduzione di Ad nòta. Perché un altro merito di Baldini è stato quello di catalizzare, meritatamente, sin dall'uscita della sua prima raccolta, l'interesse dei critici più autorevoli. Lo si è voluto evidenziare nel volume Lei capisce il dialetto?, nel quale, con Giuseppe Bellosi, qualche anno fa abbiamo cercato di mettere assieme il coro dei contributi della critica più attenta ed esperta, che unanimemente ci aveva indicato Lello quale grande poeta del nostro secondo Novecento.

Raffaello Baldini appartiene a quel gruppo di autori, nati nella nostra Santarcangelo di Romagna, che nell'immediato dopoguerra - capofila Tonino Guerra - diede avvio a un'avventura culturale singolarmente ricca e varia, capace di sviluppi non solo in campo letterario ma anche artistico e cinematografico. Il circal de giudéizi li avevano con sarcasmo apostrofati i concittadini che li vedevano discutere sulla piazza del paese, o nel Caffè Trieste, allora di proprietà dei genitori di Baldini. Ma in quelle discussioni, in quella irrequietezza giovanile, in quella ricerca di senso o di chiavi espressive c'era già in nuce quanto sarebbero diventati nei vari campi Tonino Guerra, Nino Pedretti, Flavio Nicolini, Gianni Fucci e Rina Macrelli, i quali - una volta laureati - lasciarono il paese e si trasferirono in città, chi a Roma, chi a Milano come Baldini.

Appena laureato aveva trascorso un breve periodo in Francia per insegnare, ma, rientrato in Italia, dal 1955 si era subito trasferito, appunto, nella capitale lombarda. Lavorò prima come traduttore e copy-writer, ma presto entrò come giornalista nella redazione del settimanale "Settimo giorno", e poi stabilmente in quella di "Panorama", dove ha sempre curato le rubriche culturali del "Cartellone" e delle recensioni. Letteratura e teatro sono da subito, quindi, i suoi interessi principali.

Nel 1967 era uscita da Bompiani quella sua prima curiosissima opera che è Autotem: "libro difficile da definire", e "non altrimenti definibile, se non come un piccolo capolavoro satirico", come recita la quarta di copertina. Dietro un testo apparentemente dimesso e disarmato, si nascondeva infatti tutta la pungente ironia di Baldini che, attraverso la forma di lettere inviate al direttore di una ipotetica redazione da altrettanti ipotetici personaggi, tracciava il profilo feroce e profetico della civiltà dell'automobile degli anni del boom, ovvero di quella umanità nevrotizzata della tecnologia e dei consumi, nella quale potremmo rispecchiarci anche noi.

Un esordio in prosa e in lingua, che tuttavia preannunciava il tono della sua poesia in dialetto che prenderà avvio almeno un quinquennio più tardi. Nel 1973, infatti, in occasione dell'uscita della raccolta di Tonino Guerra I bu, si tenne a Santarcangelo un seminario sulla sua opera e sulla poesia dialettale romagnola. L'esperienza fu travolgente ed ebbe il merito di dare un impulso fortissimo alla nuova produzione in dialetto: è da questo momento che cominciano a scrivere in santarcangiolese anche Nino Pedretti, Gianni Fucci e Giuliana Rocchi, oltreché naturalmente Baldini. Un'esperienza assolutamente eccezionale che di fatto ha procurato alla cittadina una collocazione di tutto rilievo nell'ambito della geografia letteraria italiana.

Baldini esce a Imola da Galeati "a spese dell'autore", nel dicembre 1976, con una edizione nata lontana dalla pubblicità e dalla suggestione, come anche il titolo dichiara: E' solitèri. E il testo eponimo compendia le cifre più significative della sua poesia: la forma del monologo, per esempio, che ricalca il registro del parlato e le conferisce una teatralità naturale. Affidando il verso alla voce di personaggi di una umanità immersa in situazioni di povertà e alienazione, dove si fondono realtà e fantasia, storia e autobiografia, egli ci presenta figure di uomini bizzarri ed emarginati, quando non paranoici. E anche quando il protagonista risulta uno come tanti, apparentemente normale, nel privato poi paga - come dice Brevini - il suo tributo di fissazioni e di tic alla malattia. L'intento del poeta sembra quello di allegare una serie di documenti attraverso i quali esemplificare la condizione dell'uomo vinto dalla paura, umiliato dalla solitudine, tormentato dalla nevrosi: una vera e propria epica del fallimento. Non a caso, poi, l'azione si svolge in un bar: la famiglia di Baldini - si è già ricordato - gestiva il Caffè Trieste e quell'ambiente ha come svolto il ruolo di educazione sentimentale del giovane Lello. Questo è infatti lo scenario in cui si svolge quotidianamente la tragica satira paesana, dove egli ascolta e respira storie e chiacchiere, sbruffonerie e confessioni, ma soprattutto osserva i caratteri, memorizza i personaggi cogliendone idiosincrasie e manie, s'innamora della lingua della sua gente così carica di espressività.

In poesia, come in teatro - genere al quale inevitabilmente arriverà Baldini - risulta infatti singolare la combinazione fra la resa puntuale della circoscritta realtà linguistica e antropologica della comunità santarcangiolese e l'accoglimento di poetiche moderne puntate sullo straniamento, sull'ambiguità, sul vuoto esistenziale. Si sono evocati per questo Čechov, Kafka, ma anche il teatro di Beckett e Bernhard.

Ci ha subito viziato Baldini, con un avvio così intrigante (e il termine, sappiamo, non gli sarebbe piaciuto), ed eccezionalmente maturo, ma la straordinarietà del suo lavoro è legata anche alla coerenza del suo iter artistico: costante nella qualità degli esiti anche se non privo di alcune innovazioni e insistite riprese e revisioni dei testi. Gli siamo grati anche di questa fedeltà.

Fedeltà, anzitutto, a quella felice soluzione formale del monologo, scandita dal ritmo incalzante e affannoso, spezzato e incerto, che gli permette di cogliere con rara finezza psicologica il meccanismo per cui il personaggio, perseverando nella sua ostinazione razionalistica, finisce per scivolare in un vero e proprio delirio. Scelta che egli rivede solo per enfatizzarne quest'ultimo aspetto, con un progressivo abbandono di pause interpuntive, così che "l'ansia compulsiva della parola e del racconto produce misure testuali più lunghe" e a cascata, e di conseguenza anche più spezzate, rotte, sussultorie, come a scandire l'esitazione, l'irrisolutezza, l'incertezza del pensiero. E ancora: ne La nàiva (1982) e Furistìr (1988) la poesia va assumendo la misura del poemetto, la narrazione si distende oppure il flusso di coscienza produce un andamento circolare nei testi che descrivono la follia di quella lucida rimozione e surrealtà del quotidiano, paradossalmente proprio all'interno di una ricerca di verosimiglianza, di aderenza descrittiva e puntuale al microcosmo paesano.

Nessuna naïveté, tuttavia, nessuna ingenuità, la poesia di Baldini è una poesia colta, che non concede indugio al lirismo, all'elegia, alla nostalgia pura: i cui fondamenti vanno ricercati negli indirizzi razionali e colti della poesia contemporanea italiana. I maestri sono molti, ma di recente ce ne segnalava uno su tutti. Forse anche per quel debito alla provincia del ravennate che nella figura di Ivano Marescotti aveva reso notissimo il suo lavoro, Lello ci indicava Guerrini, colui che "ha affinato la satira in un humour sapiente, in una sapida ironia" toccando momenti felici di verità. E sono le ragioni stesse del suo scrivere in dialetto che egli condivide col ravennate, a partire anzitutto dal legame con il tessuto basso della società da cui viene desunto il ritmo del parlato, e in conseguenza di questo anche l'impasto plurilinguistico che questo tessuto utilizza. Ma Baldini è stato dichiarato "dialettale per necessità" e lui stesso ha più volte ribadito di scrivere in dialetto perché è nel dialetto che accadono le cose che lui descrive. Non gli interessa l'intento documentale. Il dialetto di Baldini è, sì, filologicamente puntuale, ineccepibile (quante telefonate per conferme agli amici rimasti nel paese!, a Gianni Fucci e a Giaele Pedretti, sorella del sodale Nino, prima di stampare una raccolta), ma il poeta ha soprattutto desiderio di raccontare storie e descrivere personaggi che, poi, esemplificano situazioni e sentimenti universali, mettendone in risalto i paradossi, le contraddizioni, in una galleria di figure che inizialmente l'hanno fatto accostare al Lee Master dell'Antologia di Spoon River.

Per questo abbiamo osservato come la necessità del dialetto, attraverso le varie edizioni, da Ad nòta (1995) a Ciacri (2000), ma soprattutto a Intercity (2003), si sia fatta progressivamente necessità di lingua polifonica: com'è nelle chiacchiere del nostro paese, il parlato dialettale ospita sempre più spesso sintagmi italiani, idiomi e stereotipi linguistici della televisione e della pubblicità, termini stranieri. Una innovazione stilistica a cui fa da contrappunto anche una più frequente e accentuata mescolanza di registri. Pur con risvolti comici e grotteschi, il tema dell'estraneità, del disagio e della solitudine e, in fine, della malattia, della senilità e della morte si fanno più svelati. Pian piano inclina verso quella parte della sua tastiera poetica più malinconica e pessimista, più segreta e riservata. Ce le aveva già prefigurate le sue paure, Lello, ma con misuratissimo pudore appunto. Progressivamente sembra non temere di farsi esplicito (per quanto l'aggettivo non sia adeguato): la sua poesia infatti non svela mai apertamente un senso; allude, suggerisce, crea un dubbio, lascia supporre, semmai, sfuma via... come in una dissolvenza.

Magistrale escamotage, per un congedo. La tecnica è stata usata frequentemente nei testi: così le sue corse affannate, le sconclusionate file, i viaggi in treno, avevano improvvisamente smarrito la meta, i luoghi avevano assunto una fisionomia irriconoscibile e senza tempo, si erano assordati i rumori di fondo, mentre rimaneva solo la voce interiore del protagonista che perdeva d'affanno, si placava, rimaneva sospeso magari in una ultima domanda... Cos'altro è la vita?

Ma così è sceso il silenzio anche per il poeta e per l'uomo. Ed è una lezione quella che Lello ci lascia: in questo mondo colmo di parole e lacunoso di significati, un mondo di recite e simulazioni, i tentativi di vera comunicazione sono spesso fallimentari, e comunque pieni di equivoci. Le parole non possono riempire il vuoto della solitudine che ci affligge? Forse sì però, se, come nel caso di Lello, quelle Ciacri diventano poesia. Potremo consolarci un poco con Tonino Guerra che l'ha salutato con noi: "un poeta non muore, rimane la sua poesia", ma a noi mancherà comunque la sua voce.

È mancato Lello, improvvisamente e silenziosamente, come un altro grande santarcangiolese, Augusto Campana (quest'anno sono già dieci anni). E come i grandi, Lello, come Nino, ha lasciato per ognuno di coloro che l'hanno conosciuto e frequentato un motivo di ricordo e di gratitudine personale. Per tutti, davvero una grande poesia.

 

A Santarcangelo lo avevamo festeggiato, per il suo ottantesimo compleanno, insieme all'amico Flavio Nicolini, nel novembre scorso. A salutarlo, tra gli altri, con i sodali Tonino Guerra, Rina Macrelli e Gianni Fucci, alcuni dei più attenti conoscitori della sua poesia: Gian Luigi Beccaria, Dante Isella, Pier Vincenzo Mengaldo, Franco Brevini, Clelia Martignoni, Renzo Cremante, Giuseppe Bellosi. A tutti aveva regalato la sua ultima poesia, che di seguito pubblichiamo:

 

Un ziréin

Pòrca! u s'è smórt, a l'éva 'péna zàis,

l'è ch'u i è un vént, pu si ziréin, t'è voia,

mo ò sno i ziréin,

ch'u t végna un azidént,

l'era l'éultum, la scatla, sint, la è svéita,

adès, aquè, at sté schéur, ch' l'è pin 'd piscòlli,

l'à gelè, u s sguélla,

èmènch d'avdài, éun, dò ch'e' mètt i pi,

che s'a casch, pièn, no, spétta, fam sintéi

tla bascòza, s'u i nu n fóss un èlt, òrca,

l'è què, no, gnént, l'è un pèz ad sticadént,

quèst' l'è una caramèla,

no, mo va là, u n gn'è gnénca la sménta,

 

ch'u i amènca piò póch,

a m'e' sint dréinta, a so guèsi rivat,

e u s' avrébb da sintì 'nca un pó 'd malàn,

da st'òura i sarà bèla rivat tótt,

sno ch' sa sté frèdd, pórti, finestri céusi,

pr' un ziréin, vut ch'e' séa?

a n dmand 'na pila, e gnénca una candàila,

un ziréin, sno un ziréin, chi è ch' l'à un ziréin?

rógg pò, l'arspònd Stuchìn,

 

ch' a l'éva détt: fémma tla Sèla Eden,

mèi ch' nè tla Sèla? mo lòu, no, in campagna,

ch' u n gn'è la léuna, l'è nuvléd, u i vrébb,

quèst' l'è un'aria da nàiva, che s'e' taca,

zà ch' l'è tèrd, che or' èll? sè, guèrda l'arlózz,

ch' a n mu n vèggh gnénca al mèni,

e l'è tott un crusèri, aquè s' a sbai,

u n s pò sbaiè, se t sbai,

piò t vé 'vènti, piò ta t sluntèn, ta t pérd,

mo vè ch' roba, e un s sint gnént, ch'i n'è dalòngh,

e l'è un pèz, lòu, ch' i fa baraca, i sòuna,

i chénta, i bala, i magna,

mo d'ogni tènt, mè a déggh, csa stév alè

at cla fumira, 'arvéi, par cambiè l'aria,

una mèza finestra, una fiséura,

ch'u s sintirébb qualquèl, da orizontès,

 

che préima a vléva tóla,

préima, mez' òura fa,

'n'èlta scatla ad ziréin, parchè a i sintéva,

te sbat, i è póch,

a séra alè, própia davènti e' spazi,

mo aveva préssia d'avnì què, a pas dòp,

e a m so freghè,

mè, u n'è la préima vólta ch'u m suzéd,

sémpra a l'éultum mumént, l'è una cundana,

a so 'lè 'lè ch'a stagh par arivé,

a déggh: la è fata,

e invìci,

par dal robi da gnént,

cmè 'dès, par un ziréin, e a n'aréiv mai.

 

Un cerino

Porca! s'è spento, l'avevo appena acceso, / è che c'è un vento, poi coi cerini, hai voglia, / ma ho solo i cerini - ti pigli un accidente, / era l'ultimo, la scatola, senti, è vuota, / adesso, qui, in questo buio, che è pieno di pozzanghere, / ha gelato, si scivola, / almeno vedere, uno, dove mette i piedi, / che se cado, piano, no, aspetta, fammi sentire / in tasca, se ce ne fosse un altro, orca, / è qui, no, niente, è un pezzo di stuzzicadenti, / questa è una caramella, / no, ma va' là, non c'è nemmeno l'ombra, // che manca più poco, / me lo sento dentro, sono quasi arrivato, / e si dovrebbe sentire anche un po' di rumore, / a quest'ora saranno ormai arrivati tutti, / solo che con questo freddo, porte, finestre chiuse, / per un cerino, vuoi che sia? / non domando una pila, e neanche una candela, / un cerino, solo un cerino, chi è che ha un cerino? / urla pure, risponde Stuchìn, // che l'avevo detto: facciamo nella Sala Eden / meglio che nella Sala? ma loro, no, in campagna, / che non c'è la luna, è nuvolo, ci vorrebbe, / questa è un'aria da neve, se comincia, / già che è tardi, che ore sono? sì, guarda l'orologio, / che non mi vedo neanche le mani, / ed è tutto un crocevia, qui se sbaglio, / non si può sbagliare, se sbagli, / più vai avanti, più ti allontani, ti perdi, / ma ve' che roba, e non si sente niente, che non sono lontani, / ed è un pezzo, loro, che fanno bisboccia, suonano / cantano, ballano, mangiano / ma ogni tanto, io dico, cosa state lì, / in quella fumiera, aprite, per cambiare l'aria, / una mezza finestra, una fessura, / che si sentirebbe qualcosa, da orientarsi, // che prima volevo prenderla, / prima, mezz'ora fa, / un'altra scatola di cerini, perché li sentivo, / nello sbattere, sono pochi, / ero lì, proprio davanti allo spaccio, / ma avevo fretta di venire qui, passo dopo, / e mi sono fregato, / io, non è la prima volta che mi succede, / sempre all'ultimo momento, è una condanna, / sono lì lì che sto per arrivare, / dico: è fatta, e invece / per delle cose da niente, / come adesso, per un cerino, e non arrivo mai.

Raffaello Baldini

 

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