Rivista "IBC" XIII, 2005, 2

musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali, biblioteche e archivi / editoriali

Una lingua grigia, piattamente amministrativa, non può convenire all'universo luminoso della cultura e delle sue creazioni: ecco perché continuiamo a dare voce ai poeti e agli scrittori. Nella loro officina la lingua, anche quando resta fedele alle proprie radici, continua a vivere e a crescere.
Anche la lingua

Ezio Raimondi
[italianista, presidente dell'IBC]

Di solito, quando ragioniamo di beni culturali, non si pensa che anche la lingua è un bene culturale, come diceva il nostro Calvino un capitale tesaurizzabile, di cui siamo in qualche modo responsabili e custodi. Perciò una saggia politica dei beni culturali vuole anche una cura intelligente della lingua, cioè una tutela della sua forza di comunicazione e di invenzione espressiva, che ha nella letteratura e nella pagina degli scrittori il suo centro dinamico di irradiazione tra passato e presente. Diceva Valéry, e lo ripeteva anche Roberto Longhi, che tutte le arti vivono di parole: e anche i beni culturali, nella loro varietà di forme e di pratiche materiali, richiedono una parola che sappia iscriverli nella nostra memoria con una evidenza che sia insieme energia, vibrazione di un'occhio interiore in dialogo con le cose e i loro simulacri. Un ricordo è tanto più vivo quanto più si traduce in immagine verbale, in comunicazione attenta e commossa, e questo richiede una lingua mobile e pronta, ricca e flessibile, che anche nel tempo della globalizzazione e del suo codice unificante conservi le virtù profonde della propria storia, il nucleo vitale della propria tradizione, la singolarità e la complessità della propria vocazione espressiva.

Una lingua grigia e, per così dire, piattamente amministrativa non può convenire all'universo luminoso della cultura e delle sue creazioni. Così si spiega anche perché la nostra rivista continui a dare voce ai poeti e agli scrittori: nella loro officina la lingua, nel momento stesso in cui resta fedele alle proprie radici, continua a vivere e a crescere, magari ricuperando l'acutezza eccentrica e polifonica del dialetto (che non è più evasione o rinunzia, ma volontà di conoscenza), come accade negli umanissimi scenari verbali di Raffaello Baldini, nel profondo di una visione quotidiana che diviene alla fine sorprendente rivelazione antropologica di questo nostro presente postindustriale e multiculturale in una Romagna-mondo: non per nulla la sua ultima raccolta si intitolava Intercity. E bisogna aggiungere che la versione italiana che il poeta in dialetto affianca al suo parlato lirico e drammatico è a sua volta un'invenzione che immette nella nostra lingua una nuova tensione, un fermento di asprezza e insieme di tenerezza, quasi un rapporto più intimo e aggressivo con il mondo della vita e dei suoi rituali. Non possiamo dimenticarlo. Anche mentre guardiamo e ricordiamo, viviamo nella lingua così come la lingua vive in noi, nella nostra voce e nel nostro gesto.

 

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