Rivista "IBC" XII, 2004, 2

territorio e beni architettonici-ambientali / immagini, interventi, pubblicazioni

I segni della guerra e della mutazione del nostro territorio, visti con gli occhi di un fotografo che sceglie di commemorare senza ammirare.
L'occhio, la memoria, la storia

Andrea Emiliani
[presidente dell'Accademia di belle arti di Bologna]

Questo testo è tratto dal volume fotografico di Corrado Fanti Novecento di guerra, edito nel 2003 dall'Istituto storico della Resistenza e dell'età contemporanea in Ravenna e provincia, con i tipi della bolognese Minerva Edizioni. Per maggiori dettagli sulle fotografie di Corrado Fanti e sulla mostra collegata al volume si veda la scheda pubblicata nella rubrica "Immagini" di questo numero. Ringraziamo per la cortese concessione l'autore del volume, l'autore del testo e l'editore.

 

Tra l'autunno del 1944 e la primavera del 1945, terminata la battaglia sulla Linea Gotica, la decisione di dar forza all'attacco di Normandia consigliò ai Comandi Alleati di arrestare in Italia la spinta ormai risolutiva della V e dell'VIII Armata, la prima attiva sul fronte appenninico e l'altra penetrata in Romagna dalla strettoia riminese, porta storica di tutte le guerre e di tutti gli eserciti. Nella pianura faentina e ravennate, dalla linea dettata dal fiume Senio fino alla campagna di Ravenna ed oltre, nelle valli comacchiesi e del delta del Po, fu allora bloccata la corsa delle formazioni miste del Commonwealth, guidate dal generale Alexander.

Il corpo di liberazione polacco, quello canadese, le formazioni indiane, malesi, australiane, raggruppate naturalmente nello stesso esercito britannico, da mesi alla ricerca di porre fine al sanguinoso conflitto, furono costrette agli ordini di Churchill a sostare nel ghiaccio e nella nebbia. Gli argini dei fiumi, ingrossati dalla pioggia, divennero una trincea a ridosso della quale si attestarono centinaia, migliaia di mezzi corazzati, in attesa di uscire da queste frontiere naturali segnate a pettine nella pianura e di riprendere il passo scavalcando gli argini stessi aggangiati dai ponti Bailey. Il conflitto divenne in tal modo guerra di posizione e tale dovette rimanere allargandosi in uno spazio assai vasto segnato dallo stillicidio dell'attività dei mortai e dei cannoni dalle retrovie. I rari civili superstiti nella zona sopravvivevano come i militari, stanchissimi, nascosti tra le macerie e gli improvvisati baraccamenti. Si intensificò in quei mesi ansiosi e sterili la vicenda eroica delle azioni partigiane, dei giovani ammazzati per l'ultima sfida ai nazisti, delle silenziose infiltrazioni delle libere armate nel delta padano. A sud del fiume Senio, linea di battaglia, si raccolsero masse di materiali bellici trasportati e depositati nelle campagne. Erano frequenti cumuli di munizioni, autocarri Dodge e Chevrolet accostati nel fango, carri armati e tanks d'assalto coperti da teli mimetici. Sotto questa occupazione d'ogni genere di mezzi meccanici, scomparivano nel pantano le ultime viti legate all'olmo, le scoline, i fossi e le tornature. Nella bassa, Arrigo Boldrini si infiltrava con i suoi dove l'acqua era più alta e più scura, mentre il commando del colonnello Popski aspettava di riprendere il cammino dedicandosi ad azioni di sabotaggio.

Allorché l'armata riprese il cammino verso il nord, si lasciò così alle spalle un paesaggio di campagne segnate dall'enorme transito di ogni genere di semovente e di autotrasporto, gli argini squarciati dai grandi mezzi corazzati e dalle ruspe. Incominciò la lunga stagione dello sminamento, e anche del recupero d'ogni sordida ricchezza ingegneresca abbandonata dagli eserciti. Lustri bossoli di munizioni e bombe, motori e carcasse di autocarri, tende, teloni e grate in acciaio, e mille altre cose ancora, bottiglie e lattine di birra comprese, divennero preziosa materia per chi non aveva più niente. Il paesaggio era segnato dal contrappunto delle mura superstiti, in piedi o smozzicate, segnate e incise con violenza dallo spruzzo letale di un infinito numero di colpi di mortaio. Tristi graffiti, ferite incise nelle murature di rosso mattone, le più dure a scomparire, diagrammi di fragori sinistri, lancinanti sibili a segnare il punto di impatto e della distruzione. Della scomparsa di case e di fienili.

Cinquant'anni e passa se ne sono andati da allora, e anch'essi, insieme con la mutazione delle coltivazioni, hanno spianato una campagna di rare alberature e grandi spazi, garantiti all'economia dell'aratura meccanica. Si spalancò nel tempo un paesaggio rarefatto che finì per somigliare sempre più, ai nostri occhi - allenati alle più memorabili visioni fotografiche - alle immense terre del Tennessy così come furono memorizzate ad opera della Farm Security Administration negli anni del New Deal. Ogni fotografo conosce il lavoro sapiente, quasi presàgo di quelle, come anche di altre, future imprese industriali progettate dalla ricognizione visiva. Ma la pianificazione del Tennessy fu allora condotta da grandi interpreti come Diane Arbus oppure Walker Evans o Russell Lee. Da quell'opera potente che ci ha restituito un fondamentale metodo per una modellazione territoriale ed economica nacque un'interpretazione fotografica che, tra gli altri risultati, sembrò levare anche una voce critica davanti alla fine del mondo del vecchio lavoro agricolo, condotto ormai come se l'ambiente dell'uomo non potesse mai più essere lavorato dalla sua mano, disegnato dal segno inciso delle culture minori. Aveva avuto inizio davanti agli occhi del mondo la prima stagione dell'industrializzazione dell'agricoltura.

Anche il mezzo secolo che si è disteso, nelle campagne romagnole dove la guerra aveva sostato furente, densa di morte, tra le nebbie e i primi fiori, ha "umanizzato" in modo ormai diverso rispetto al passato il nostro paesaggio. Esso è molto mutato da allora. Poco espansivo, da queste parti, forse lo è sempre stato. Sempre un villaggio e sempre una campagna, è vero, e il cuore ride e piange ancora - stagione dietro stagione - tra le larghe slabbrate, corrose, i fiumi gonfi e le campagne denudate. Ma ancora oggi si sente che questi campi a ridosso degli argini che scendono verso il mare, delle strade quasi ovunque asfaltate, sono stati dapprima lavorati e a un tempo stesso - avrebbe detto Leopardi - "artificiati" dalla macchina dell'ingegneria più cupa e insieme efficiente che mai si sia vista all'opera. E cioè quella della guerra. Poi, a questa sensazione si alleano moltre altre residue o solo allusive testimonianze della guerra.

Corrado Fanti ha anche lui negli occhi, fotografo sapiente, la pianificazione del Tennessy, un'impresa che negli anni Trenta ha fornito modelli indimenticabili all'arte di conoscere e di riprendere in immagine il paesaggio e il suolo, le loro quotidiane vicende elevate a potenti apparizioni. Dietro alle macchine e ai caterpillar è giunto fino a noi un altro paesaggio. Nella bassa romagnola Fanti legge altri mutamenti che agli occhi della memoria sono egualmente radicali. Qui, la prima protagonista della cancellazione della pianura ornata di filari e di piantate della nostra infanzia è stata la lentissima morte segnata da una guerra mostruosa che si è venuta ormai restringendo in una memoria fatta di segni appena sensibili, silenziosi e tuttavia presenti. Come ad esempio i cippi ornati di foto maiolicate simili ai monumenti d'ogni nostra piazza di paese, poveri contadini e operai mandati a morire nel '15-'18 e offerti alla memoria di chi ormai non sa più guardare, né tanto meno riconoscere. Poi, la ricognizione di Fanti ha raccolto mura ancora straziate sotto l'edera grama, monconi di pareti di qualche dimora rurale, cucina o stallatico. Altri brani di paesaggio sono drammatici in sé stessi. Dopo mezzo secolo, lo spaio di due generazioni, la loro è un'offerta di memoria che si allinea perfino a gesti più antichi, gli incendi delle scorrerie saracene, la distruzione delle camere del lavoro nel 1922, le repressioni austro-russe dopo l'invasione francese del 1796. Si sa, la polvere del tempo livella cose e memorie nell'intervallo di pochi decenni. Poi, le cose diventano eguali, si pareggiano come in un'archeologica compressa, indistinguibile. Siamo di fronte, direbbe qualcuno, al "modernariato della periodizzazione storica".

Fanti ha riassunto in sé numerose e differenti funzioni, che possiamo accorpare soltanto in parte nella qualità, nella virtù del guardare, che diciamo appartenere al fotografo. Mi sembra che egli abbia letto con attenzione studiosa e insieme con affetto, camminando solitario nei campi, una sorta di passato recente, non lontano ed anzi terribilmente vivo, e tuttavia già disteso e coperto da muffe, ossidazioni, muschio. La linea dell'orizzonte non è mutata, il profilo delle campagne è soltanto in breve parte ridente. Malinconia intride le strutture cadute e cadenti, abbandonate non sai più se per pericolo o per dimenticanza, per una fuga non più comprensibile e nascosta degli abitanti. Sul paesaggio cala la sera, quasi una cortina di impalpabile, crescente silenzio, come dopo un'esplosione.

Corrado Fanti non è un fotografo che possa essere interpretato su due fronti, quello dello specifico fotografico e l'altro della sua innegabile, generale cultura tecnica e umanistica. Più agevole da definire è naturalmente quest'ultima, di inflessione filosofica e storica e dunque attenta a riconoscere e a segnare in immagine i valori civili ed etici del percorso del tempo. Parlare di Fanti fotografo, una dimensione che egli per primo si è scelto, è invece assai più difficile: se non si afferma subito che l'espressione, la ricerca della forma e la sua marcatura chiaroscurale, l'incisione stessa degli orditi identificati, narrati e infine giudicati nella severa organizzazione dello stile, appartengono tutte ad un pensiero forte. Ad una volontà di stile che è tutt'insieme accensione di contenuti e ricerca delle strutture formali dove il pensiero possa rivelarsi. Ho sempre constatato come sia difficile indurre Fanti verso dimensioni arcadiche, compiaciute e almeno concessive. La dimensione dell'ethos vince sulla commozione, come è ancor più giusto che accada in un libro come questo che vive di una dimensione ideologica. Conosco bene, da decenni, la sua fermezza che è insieme stile e comportamento, tecnica e laboratorio critico, coscienza di storia e insegnamento dell'esperienza. La qualità dell'opera di Corrado Fanti appartiene da anni ai momenti alti del lavoro fotografico italiano.

La bellezza memore, ideologica e civile, di questo libro conscio e pensato, mi consente qualche considerazione che proprio a Fanti, nell'occasione, vorrei dedicare. Egli è nato alla fotografia e alla sua arte difficile, seguendo le linee più classiche di una ricognizione politica e di cultura del territorio: nel senso prevalente di una politica delle cose e dell'ambiente, delle città e delle case, delle murature, dei profili di orizzonte, degli interni di chiese grandiose, delle piazze e strade memorabili, consegnate alla nostra vita anche dal suo gesto irremovibile. Questo insegnamento itinerario si prendeva negli anni Sessanta da Paolo Monti come anche da una certa cultura indirizzata alla struttura del conoscere, insieme al silenzio attento del cammino dell'osservare. Naturalmente, insieme a Monti, Fanti veniva praticando le analisi sociali e antropologiche di Strand e di Berengo Gardin, di Reuter e di Jodice: e insomma della foto italiana impegnata tra il rilevamento dei processi di incivilimento e una riconquistata nozione di bene storico e spaziale. In quell'età le cose di un paese antico e bellissimo, l'Italia, che sembrava finalmente in cammino verso un ritratto necessario di ambiente tra tempo e spazio, prendevano il ruolo che toccava ai protagonisti.

Le immagini di queste campagne, che scendono dai sentieri e dalle strettoie fangose di un Appennino che ha sempre rispecchiato una lontana miseria, fitto di ferite e di fratture drammatiche nel suo stesso corpo, accendono in noi un'elegia politica, piuttosto che sollecitare la comprensione che l'ottimismo razionalista colloca accanto al progresso. Scendendo verso la pianura, il dramma della guerra e della mutazione si porta ancor più al di là delle parole: sono segni di distruzioni, di stragi, di dolori che si riflettono negli spiriti trapassati delle forme residue. Il muro della stalla, il relitto del campanile, l'argine che segue l'ansa del canale fino a quando l'orizzonte sbrina un grigio racconto di fantasmi ormai lontani. Si tratta di elegie senza parole, dove il suono non prevale, non erompe in evocazione. Gli eventi fisici qui hanno luogo solo lasciando all'occhio, il più fedele agente dei sensi e della memoria, il compito difficile di commemorare senza ammirare.

 

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