Rivista "IBC" XI, 2003, 4
progetti e realizzazioni, restauri
Dal I gennaio 2004 l'Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna ha una nuova sede, sempre nel centro storico di Bologna: palazzo Bonasoni, in via Galliera 21 (CAP 40121). Chiudono dunque, e si spostano nella nuova sede, gli uffici che erano in via Farini 17 (la Presidenza, la Direzione con l'Amministrazione e l'Ufficio stampa e editoria, il Servizio musei e beni culturali) e in via Farini 28 (il Servizio soprintendenza per i beni librari e documentari). Rimangono invece nella sede di via Santo Stefano 28 (CAP 40125) il Servizio beni architettonici e ambientali, la Biblioteca "Giuseppe Guglielmi" e la Fototeca. Nella nuova sede di palazzo Bonasoni rimangono invariati i numeri telefonici: per maggiori dettagli si può consultare il sito web www.ibc.regione.emilia-romagna.it.
Dimora storica di via Galliera, palazzo Bonasoni sorge sulle antiche case dei Caccianemici dall'Orso, importante famiglia cittadina ricordata nel toponimo della strada contigua. Nel 1399 il blocco edilizio fu venduto ai Villanova, che nel secolo successivo aggiunsero un portico su via dell'Orso, chiuso nel 1454, con perizia di Aristotele Fioravanti, da Nicolò e Domenico Scardovi. Il nuovo muro, allineato alla torre del Duecento, arretrò lateralmente il cantiere sul fronte della strada, rendendo necessario l'acquisto di due case confinanti. Prendeva consistenza in questo modo il lotto già Caccianemici, adeguato al decoro dei palazzi del Cinquecento. Un periodo decisivo e di intenso fervore edilizio, nel quale si rifletteva la politica della legazione. È in questo secolo che si consolidano le fortune delle grandi famiglie bolognesi grazie all'investimento dei capitali accumulati con la mercatura, l'attività bancaria, l'industria tessile e lo studio. Dalla nobiltà di toga proveniva Galeazzo Bonasoni, che alla metà del XVI secolo acquistava l'edificio dai Dina.
Originari di San Giovanni in Persiceto e di Castel d'Argile, ma con un ramo a Carpi, i Bonasoni conseguirono la cittadinanza nel 1472, distinguendosi con Giovanni di Antonio, docente di diritto canonico all'università, e con i figli. Soprattutto Galeazzo, insignito nel 1544 da Carlo V del titolo di cavaliere e conte palatino. Il testamento, del 1556, menziona sia l'acquisto che i lavori per il "palazzo ornato" di via Galliera, riferiti dalla critica all'autore dell'Archiginnasio, Antonio Morandi detto il Terribilia, per affinità con il prospetto di palazzo Orsi, eseguito nel 1560. Qualche irregolarità si legge nell'asimmetria del portico sopraelevato, riconducibile a preesistenze quattrocentesche. Una particolarità diffusa, nei palazzi di Bologna, dove si usava "mettere in moderno" le facciate salvaguardando le strutture più antiche nel rispetto dei colonnati. "Ristoramenti di cose vecchie", come osservava Serlio, sembrano infatti i collarini a metà fusto delle colonne Bonasoni, simili a quelle, quattrocentesche, del Baraccano. Al portico, risalente al cantiere Scardovi o a quello Dina, si sarebbero poi sovrapposte le decorazioni dei capitelli, ispirati ai disegni romani dell'Aspertini (Santucci) e considerati tra gli esempi più pregevoli nel repertorio della scultura urbana bolognese.
Al piano nobile del palazzo la decorazione testimonia i numerosi passaggi di proprietà. Dal 1609 al 1615 i Tanari; fino al 1704 i Ranuzzi, committenti di una prospettiva del Mitelli, perduta, di fronte alla loggia d'ingresso; quindi i Volta (1739), confluiti nei Grati, per i quali Bigari dipinse un'alcova "con puttini", ora non più esistente ma ricordata da Oretti. Nel 1804 subentrò il marchese Francesco Scarani, quindi la famiglia Zucchini e i Bevilacqua; dal 1931 gli Zerbini, i Pellegrini-Quarantotti e infine i Gamberini. Al cantiere Bonasoni risaliva un affresco con la Guerra di Troia, successivo di poco alla metà del XVI secolo, e oggi non più visibile in quanto controsoffittato. Del ciclo, ricondotto da Oretti, contraddittoriamente, sia a Giovanni Francesco Bezzi detto il Nosadella che a Pellegrino Tibaldi, sopravvive un fregio scialbato e di difficile lettura, dove si scorgono allegorie e paesaggi eseguiti, forse, dall'équipe al seguito delle maestranze principali e riconducibili più in generale alla cultura di Niccolò dell'Abate. Quella stessa civiltà figurativa mediata da Giulio Bonasone quando incideva le Symbolicae quaestiones per Achille Bocchi (1555), repertorio alchemico di aquile, chimere, delfini, mascheroni, scolpiti sui portali in pietra del palazzo e comunque veicolati dalla civiltà delle grottesche, che si potrebbero ritrovare nelle pitture della volta coperta.
Meno problematico il riconoscimento dei soffitti delle sale ottocentesche (committenti i marchesi Scarani?), dove le Muse, inquadrate insieme ai Putti da ornamentazioni neorocaille, si attribuiscono in questa sede a Girolamo Dalpane, autore degli affreschi nei palazzi Spada (1846) e Malvezzi dè Medici (1854). Da ultimo, merita segnalazione la Venere in marmo adagiata - da quali committenti? - in una nicchia aperta sul cortile. L'opera troverebbe riferimenti stilistici nell'ambito di Cincinnato Baruzzi, come pensa Claudia Collina, e si daterebbe all'ottavo decennio dell'Ottocento, come inducono a ritenere stilemi classicisti volti a una definizione in senso verista che si coglie soprattutto nei dettagli.
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