Rivista "IBC" XI, 2003, 4

territorio e beni architettonici-ambientali / inchieste e interviste

Dal concetto unitario di regione alla proposta di separazione della Romagna, dal federalismo di Cattaneo alla devolution di Bossi, dall'agiografia alla storiografia del Risorgimento: la parola a uno storico dell'Italia moderna.
L'unità del Paese.

Leonardo Quaquarelli
[docente di Codicologia all'Università di Bologna]

Nato a Pieve di Cento (Bologna) nel 1916, Aldo Berselli ha insegnato Storia contemporanea per un trentennio, dal 1961 al 1991, nell'Università di Bologna, città in cui attualmente risiede. La sua lunga e feconda ricerca storiografica si è incentrata sulla questione fondamentale della costruzione della democrazia in Italia, partendo dall'analisi del Risorgimento per ricostruire nel suo farsi quotidiano lo sviluppo della coscienza civile, delle libertà, della partecipazione popolare e dell'economia. Una ricerca condotta su due linee: una nazionale, una regionale e locale. Nel primo caso l'esito principale è costituito dai due volumi più volte ristampati de La Destra storica dopo l'Unità (L'idea liberale e la Chiesa Cattolica; Italia legale e Italia reale).1 Dalla linea regionale, sintetizzata esemplarmente da una Storia dell'Emilia-Romagna,2 discende una serie numerosa di studi, che di volta in volta hanno preso in esame vicende generali (ad esempio, la storia della regione dalla rivoluzione francese al fascismo), personalità di rilievo (tra gli altri, Luigi Carlo Farini), determinate aree territoriali (Modena, Forlì, Faenza, Ravenna) o singole forze politiche (la sfera liberale, quella repubblicana, quella socialista).3 Un filone parallelo è rappresentato dagli studi promossi dal Comitato Emilia-Romagna per la storia del giornalismo, da lui stesso guidato a partire dal 1976 (numerosi i convegni organizzati, in collaborazione anche con l'Istituto regionale per i beni culturali). Abbiamo incontrato il professor Berselli nel suo studio.

 

Come si fa a scrivere una storia socioculturale di una regione come l'Emilia-Romagna? Qual è stata l'idea di partenza, come ha fatto a trovare le persone che avrebbero dovuto comporre questo quadro della storia della regione e quali sono state, se ci sono state, le difficoltà?


Sono passati ormai trent'anni e più da quando mi buttai nell'impresa, con un grande entusiasmo, e sottovalutandone le difficoltà. In quegli anni nella società emiliana emergeva una diffusa volontà di affrontare i problemi che i nuovi tempi ponevano. La regione faceva i primi passi. Sul piano economico e sociale erano diffusi un bisogno di cambiamento, di decongestione del vecchio Stato, una tensione ideale che rispondeva alla necessità di potenziare le energie e le vocazioni locali. Sul piano economico e del mondo del lavoro si apriva, nell'autunno del 1969, un periodo di tensioni sociali che caratterizzarono un difficile decennio. L'imprenditoria, dal suo canto, affrontava il tema centrale dell'innovazione che postulava l'abbandono di vecchie mentalità e del modo tradizionale di concepire l'impresa. Nelle università i giovani contestavano l'istituzione, chiedevano innovazione, modernizzazione e spazio alla creatività. Nell'insieme, dunque, fermenti e progetti che erano il segno di un nuovo clima generale che investiva la società emiliana tutta intera.

Anche la letteratura "tecnica" sul "concetto" e sulla "definizione" della regione veniva ampliandosi e moltiplicandosi in una pluralità di correnti teoriche. Entravano in campo geografi, studiosi del territorio, economisti, sociologi, urbanisti, e così via. Incominciarono anche a farsi vive programmazioni relative alla "storia" della regione, sollecitate e suscitate dalla necessità di chiarire il contesto culturale nel quale i nostri Costituenti avevano elaborato gli articoli dell'ordinamento delle regioni, e in particolare anche della nostra, identificata territorialmente nel vecchio compartimento statistico, quale era uscito dall'età napoleonica e dal Risorgimento. Ovviamente, affidata agli storici, la storia della regione assumeva una sua intrinseca necessità, che era quella di prendere a punto di partenza l'età preromana.

Non fu difficile trovare i collaboratori. Qualificati docenti della nostra Università e di quelle di Parma e Ferrara sentirono che non potevano rimanere assenti da una iniziativa che si proponeva di illuminare il processo storico della nuova zona indispensabile tra la Nazione e i Comuni, non per celebrare i fasti della "piccola patria", ma per far conoscere la consistenza, l'originalità, i valori spirituali e materiali che in questo "paese triangolare" gli uomini avevano creato con il loro lavoro, l'operosità, la capacità creativa e innovativa, l'anelito sociale, le forme di produzione, ma anche le idee e le aggregazioni politiche, la vita religiosa, e così via. Difficoltà incontrate? Tante, soprattutto per taluni processi, anche rilevanti, la assenza di ricerche erudite e dell'apparato documentario. Ma non ci siamo arrestati.

 

Se dovesse rifare oggi la sua Storia dell'Emilia-Romagna, che cosa cambierebbe?


Sono consapevole che siamo a una svolta sociale e culturale che è cominciata negli anni Novanta, e che anche sul piano politico non dà segnali di attenuarsi. Per quanto riguarda la storia moderna, questi ultimi trent'anni hanno visto nuovi approcci di studiosi ed una più approfondita analisi del rapporto tra Settecento e Ottocento. Mi chiedo ora se ancora sia valida la diffusa periodizzazione che prolunga l'età cosiddetta moderna fino alla Rivoluzione francese. Si tratta di una periodizzazione schematica che va ripensata e superata. E comunque, per quanto riguarda la storia contemporanea, penso che sarebbero necessarie una maggiore attenzione e una nuova prospettiva, anche alla luce della sociologia nei suoi rapporti con le altre scienze sociali, e intesa come visione dinamica e pluralistica dei processi sociali. Riterrei indispensabile anche un riferimento preciso ai lavori relativi al problema del regionalismo della Commissione appositamente costituita per formulare un progetto di ordinamento regionale.

 

Oggi si parla di Romagna regione. Secondo lei ha senso considerarla una realtà a sé stante, anche dal punto di vista storiografico? Si potrebbe fare una storia della Romagna, o una storia dell'Emilia senza la Romagna?


Achille Mansuelli, nel suo Profilo geografico e culturale, scrive: "L'unità geografica della regione è un fatto scontato entro il triangolo che si delinea fra il corso e la foce del Po, l'Adriatico, e il crinale appenninico fino al promontorio di Gabicce". Giancarlo Susini precisa: "Fin dal tempo dei Galli, la Gallia Cispadana comprendeva l'Emilia e Romagna. Più tardi, ai tempi di Augusto, incominciò a diffondersi il nome di Aemilia che derivava dalla strada rettilinea di raccordo tra i centri di fondovalle. Il nome di Emilia divenne poi ufficiale come circoscrizione regionale nell'età imperiale più avanzata, e per designare in linea di massima e come oggi la parte occidentale della Regione".

Nell'VIII secolo, scrive Gina Fasoli, quando la nostra regione venne tagliata in due lungo la linea dello Scoltenna (l'attuale fiume Panaro), divenuta durevole confine politico tra la Longobardia e la Ròmania, la divisione politica non segnò la frattura dell'antica unità culturale, come dimostra tutta la storia ulteriore. Era una unità fondata sull'omogeneità della struttura geografica, sull'organicità del sistema delle comunicazioni, assicurato dalla Via Emilia con tutte le sue diramazioni e dal Po con tutti i suoi affluenti, a quei tempi in parte navigabili. Era una unità culturale radicata nella comune tradizione culturale latina e cristiana.

Nel 1859, entrato il Piemonte in guerra contro l'Austria, le insurrezioni scoppiarono da Parma a Rimini, e si conclusero con l'annessione al Regno di Sardegna, dopo i trionfali plebisciti. Per quanto riguarda la "storia", Luigi Carlo Farini, dittatore di Romagna ed Emilia, aveva fondato nel 1860 le tre Deputazioni di Romagna, Modena e Parma, istituzioni che si diffusero dopo l'Unità in altre città della regione. Esiste oggi una Società di Studi Romagnoli, prestigiosa, affermata e molto attiva. Certo, si può fare la storia soltanto della Romagna, la quale comunque non può prescindere dai suoi secolari rapporti con l'Emilia.

 

Oggi si parla di federalismo, in un'accezione diversa: se lei fosse uno storico che lavora in una regione amministrata dalla Lega Nord, che cosa direbbe del federalismo e qual è la sua posizione rispetto ad argomenti come l'insegnamento del dialetto nelle scuole?


Il dialetto, inteso come strumento di comunicazione sociale, è un valore, va preservato ad opera dei Comuni; credo siano da istituire nelle università delle cattedre di dialettologia. Ma per una risposta più articolata sulla questione del federalismo mi pare opportuno riprendere in mano Cattaneo, che nel processo storico ritiene valori fondamentali e propulsivi la libertà e la democrazia, a cominciare dai piccoli comuni. Questi sono, precisava, una consociazione di conviventi nella quale il cittadino ha il diritto di vedere come viene gestita l'amministrazione del luogo dove alleva la sua famiglia; in essi i ceti popolari non possono essere esclusi dalla vita pubblica, dalla gestione degli interessi collettivi, dalle istituzioni di base. La loro esclusione toglie alla comunità importanti energie, arresta il processo di crescita dei più larghi settori della popolazione, priva di "valore sociale" la maggior parte dei membri della comunità, impedisce, in nome degli egoistici interessi di pochi, l'esercizio dei diritti di molti.

Cattaneo auspicava che in tutti gli Stati italiani si avviasse un processo liberale-rivoluzionario inteso ad approdare ad una Repubblica di Stati liberi, fondata su un patto federale, sul principio di associazione e su basi di concordia. Il federalismo, insisteva, costituisce l'unica forma politica nella quale possono essere realizzati nella loro pluralità i postulati della libertà. Si trattava di un processo a tempi lunghi e indefinibili.

Passiamo a Umberto Bossi. Nel 1991 Daniele Vimercati, curatore di un volume intitolato Carlo Cattaneo. Stati Uniti d'Europa. Il federalismo e le leghe, interpellò uomini politici allora sulla breccia, e fra essi Bossi. "Il liberalismo federalista di Cattaneo" - affermò Bossi - "è un utile insegnamento, ma non una Bibbia". Per accomunare nello Stato unitario popoli tanto diversi, precisò, "fu necessario instaurare un forte centralismo culturale e militare. Quello che noi della Lega vogliamo abbattere attraverso la rifondazione federalista dello Stato e la nascita delle tre repubbliche, del Nord, del Centro e del Sud [...] io sono convinto che le nuove sponde del movimento storico, i nuovi poli della dialettica ideologica siano il liberismo centralista e il liberismo federalista".4

Si trattava di un insieme di concetti dei quali era arduo prevedere gli sviluppi sul piano del concreto operare politico. In questi ultimi anni il programma ha assunto una nuova definizione, con il termine devolution, che fino a poco tempo fa ci ha lasciati curiosi e in attesa di una più precisa e dettagliata definizione del suo contenuto. Più recentemente sul prato di Pontida, il 23 luglio 2002, come ministro delle riforme Bossi ha ribadito di volere un Parlamento diviso in tre per il Nord, il Centro e il Sud, e per quanto riguarda la devolution preannunciava la dislocazione delle decisioni su basi territoriali e un Senato delle Regioni con Commissioni divise per macroaree.

La devolution è stata messa a fuoco nell'incontro dei "quattro saggi" in Cadore del 28 e 29 agosto di quest'anno. Si è tornato a parlare di una riforma federale, di passare ad un nuovo sistema parlamentare coerente con la chiara distinzione tra le funzioni legislative esclusive delle Regioni e dello Stato, e quelle concorrenti tra Stato e Regioni. In tale nuovo contesto istituzionale, hanno spiegato i "quattro saggi", il Senato federale (i cui componenti sono espressione dei rispettivi territori) si configura come il luogo istituzionale idoneo per armonizzare una compiuta riforma federale con l'interesse nazionale della Repubblica: un "bicameralismo asimmetrico" caratterizzato da un forte potere delle autonomie locali.

Se questo si avvererà, la nostra non sarà più una democrazia parlamentare classica, basata su un sistema bicamerale perfetto, e non sarà nemmeno una democrazia presidenziale. Qui ci fermiamo. Ho letto recentemente un saggio storico relativo al "modello Germania", scritto da un ricercatore e giornalista che lo considera oggi bloccato dalla malattia dell'immobilismo. Tra le cause: l'esistenza del Bundesrat (la Camera dei Rappresentanti delle regioni) che blocca il percorso parlamentare di importanti leggi di riforme, per cui taluni arrivano a proporne l'abolizione.

 

Io sono un italianista e alcuni aspetti del suo lavoro mi hanno incuriosito: lei anni fa scrisse sulla storia dei Promessi Sposi: che cosa vi aveva visto?


Nel romanzo si incontrano due capitoli, il XXXI e il XXXII, nei quali Manzoni ricostruisce le vicende della pestilenza: sono pagine di pura storia, frutto di ricerca rigorosa, condotta sulle fonti e sui documenti del tempo. Storiche sono le gride relative ai bravi, storiche le figure del Borromeo, di Virginia de Leyva, la Monaca di Monza, di Bernardino Visconti, l'Innominato, del Gran Cancelliere Ferrer, e del Governatore don Gonzalo Fernàndez.

 

Si può dire che Manzoni scrive da storico più che da romanziere?


Non vi è dubbio. Come scrisse al Fauriel da Brusasco, Manzoni intendeva il romanzo storico come "la rappresentazione di un determinato stato della società, per mezzo di fatti e di caratteri così simili alla realtà, da poter essere creduta una storia vera appena scoperta". Da questo punto di vista trovo che lo scrittore sia il più bravo degli storici suoi contemporanei, pur nel contesto del suo provvidenzialismo. Descrive concretamente un determinato momento e stato della società, nella pluralità delle sue componenti, dei ceti e delle classi; analizza la condotta, l'opera dei potenti, i quali, privati delle ragioni dello Stato e della politica, appaiono in tutta la loro arroganza, malvagità, perfidia, scelleratezza; racconta la situazione delle classi subalterne, le sofferenze e la sopportazione e, infine, i tumulti, la ribellione all'oppressione.

 

Un altro suo studio incrocia la letteratura: negli atti di un convegno dedicato a Leopardi e Bologna, lei si è occupato della vita politica bolognese nel periodo in cui Leopardi è qui. Che cosa si può dire a questo proposito?


Nei primi anni dopo la restaurazione Bologna godeva la fama di metropoli tranquilla, tollerante, vivace ed operosa, dove si tornava e si veniva da tutte le parti. Favorita dalla sua posizione geografica, diventava di gran lunga la città più importante dello Stato pontificio, dopo la capitale. Aveva un tessuto politico-sociale e culturale poliedrico, eterogeneo, con gradazioni e sfumature che sono la risultante di un lungo processo storico, le cui radici affondano nel Comune medievale. Nei Diari ecclesiastici la popolazione della città (poco più di 66.000 anime) appare suddivisa in cinque classi: nobili (3%), benestanti (5%), mediocri (19,5%), operai (29%), bisognosi (44%). Con "mediocri" si fa riferimento a coloro che, con utile e laboriosa attività, scienze, arti, industrie, si procurano una decorosa sussistenza. I bisognosi, circa 29.000, sono la parte più povera della popolazione: rivelano l'esistenza di un pauperismo assai diffuso, caratteristico delle popolazioni dello Stato pontificio, non avvertito da nessuno, in quegli anni, come una incivile piaga sociale.

A partire dagli anni Venti dell'Ottocento incomincia a farsi strada il valore delle posizioni economiche e della capacità produttiva: sono in nuce manifestazioni di comportamenti che hanno un tratto nuovo, moderno e laico, anche se appaiono difficoltà nel mondo produttivo, industriale e commerciale. Il Governo ecclesiastico locale presenta aspetti di disorganizzazione e rilassatezza: in altre parole, un'economia illegale e sommersa enorme, che offre occasione di arricchimento e conseguenti aspirazioni e conquiste sul piano sociale e mondano, che permettono al terzo stato bolognese più avanzato di prepararsi ad abbattere le barriere che lo dividono ancora dalla nobiltà.

È certo che a Bologna Leopardi intrattenne, per la prima volta, rapporti sociali, lasciandosi attrarre nel giro di contesse, ma preferendo, in sostanza, la raffinatezza intellettuale di casa Tommasini. Deprecava "il mondo senza entusiasmo, senza magnanimità di pensieri, senza nobiltà di azioni", ma si figurava una nobiltà di azione e di entusiasmo. Carlo Pepoli ne era un esempio: nobile capace di sentimenti forti, convinzioni salde, valori etico-politici radicati, come, ad esempio, la resurrezione della nazione e il conseguimento di una italianità del pensare che avvenisse sulla base della favella. Ideali per i quali passa all'azione.

 

Un'ultima domanda: il Risorgimento è un discorso chiuso o bisogna ancora rifarsi a questo periodo della nostra storia, e perché? Se lei fosse il ministro dell'istruzione e dovesse riscrivere i programmi, questione sempre molto attuale, come imposterebbe l'insegnamento del Risorgimento?


Il Risorgimento ha le sue radici nell'affermarsi del principio di nazionalità, per cui ogni nazione ha diritto ad organizzarsi in Stato indipendente e sovrano, e nasce quando le nazioni acquistano coscienza della propria individualità. La coscienza nazionale si sviluppa in Italia a partire dal secolo XVIII, quando si afferma il "mito" di "rinascere", "risorgere" per recuperare quel posto centrale nello sviluppo della civiltà umana che il paese aveva avuto dopo il Mille, per uscire dallo stato di pura "espressione geografica", per riprendere il suo moto progressivo, conquistare l'indipendenza e l'unità della penisola.

Questi elementi mitologici, insiti nell'origine del termine "Risorgimento", furono assunti dalla tradizione politica e dalla storiografia posteriori all'unificazione nazionale: esse costruirono una immagine del Risorgimento finalizzata, nella sua conclusione, come opera della monarchia sabauda, sottolineando nella visione del processo storico le forze affermatesi come vincitrici. Nacque una interpretazione del Risorgimento come fenomeno fondamentalmente politico nazionale, che aveva in sé stesso le ragioni della propria affermazione, ed era da considerarsi la conclusione di un periodo eroico, di un'epopea. Nei primi decenni dopo l'unità, gli studi e la storia del Risorgimento ebbero un carattere oleografico, agiografico e apologetico, che esaltava gli artefici, i martiri, i patrioti, e il compimento con l'unità e la monarchia sabauda.

Si affermò anche un indirizzo filologico e si formava una schiera di risorgimentisti eruditi, e con essi inevitabilmente, prima o poi, si passò alle cattedre di Storia del Risorgimento. Solo nell'età giolittiana incominciarono nuovi orientamenti, intesi a una revisione dell'interpretazione tradizionale del Risorgimento, che avviavano ricerche su terreni nuovi relativi alle finanze, all'amministrazione, al mercato nazionale, alle lotte sociali, ai moti contadini, alle classi sociali, al ruolo e agli interessi materiali della borghesia, e così via. Nell'insieme, l'avvio di un rinnovamento profondo degli studi risorgimentali.

Nicolò Rodolico ha sostenuto nel 1941 che il Risorgimento non andava concepito come lo concepivano i "Risorgimentalisti", quasi staccati dalla tumultuosa vita di pensiero e di azione del secolo XIX, in cui il Risorgimento si inserisce. Anche noi abbiamo sempre pensato che il Risorgimento non debba essere considerato come "un compartimento stagno tra periodo e periodo della storia", e non risolto nella storia politica, e che occorra un allargamento dell'orizzonte, come per pagine metodologicamente corrette di storia moderna. Il quadro di questo dopoguerra è sotto gli occhi di tutti coloro che sono interessati a questo problema. Ma ho l'impressione che, salvo l'opera di un limitato gruppo di studiosi, il problema sia ancora vivo.

 

Note

(1) A. Berselli, La Destra storica dopo l'Unità, Bologna, il Mulino, 1963-1965, 2 volumi.

(2) Storia dell'Emilia-Romagna, a cura di A. Berselli, Imola, University Press Bologna, 1976-1980, 3 volumi.

(3) Per maggiori dettagli si veda la pubblicazione del Comune di Pieve di Cento Bibliografia degli scritti di Aldo Berselli, a cura di D. Vecchi, Bologna, Pàtron Editore, 2001.

(4) Carlo Cattaneo. Stati Uniti d'Europa. Il federalismo e le leghe, a cura di D. Vimercati, Milano, SugarCo Edizioni, 1991, pp. 231-232.

 

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