Rivista "IBC" XI, 2003, 3

musei e beni culturali / pubblicazioni, storie e personaggi

F. Dallasta, C. Cecchinelli, Bartolomeo Schedoni a Parma (1607-1615). Pittura e Controriforma alla Corte di Ranuccio I Farnese, Colorno (Parma), Casa editrice La Colornese, 2002.
Alla corte di Ranuccio I

Sandro Campanini
[Centro studi Valli del Termina (Parma)]

Perché il Duca Ranuccio I Farnese chiamò nel 1607 a Parma il pittore modenese Bartolomeo Schedoni e lo nominò suo primo pittore di corte? La risposta è stata avanzata da Federica Dallasta e Cristina Cecchinelli, che studiando l'atteggiamento, le propensioni religiose e i gusti del committente hanno proposto una rilettura coerente e significativa della produzione dell'artista, una volta arrivato nella capitale farnesiana dalla patria: Modena. Le due studiose avevano già dedicato nel 1999 uno studio all'opera completa dello Schedoni, ripresa ora privilegiando le letture iconografiche dei dipinti e approfondendo i rapporti del duca con i Borromeo a Milano, con i sovrani pontefici (in particolare Clemente VIII Aldobrandini, zio della sposa di Ranuccio I) e con vari ordini religiosi (gli oratoriani di San Filippo Neri, i Gesuiti e i Cappuccini). Ne emerge l'immagine di un principe che, attraverso l'arte, vuole veicolare di sé una figura di fedele alleato del Papa, di filantropo e di benefattore per il popolo, fondando e sostenendo le istituzioni assistenziali della città e affidando al linguaggio artistico la memoria idealizzata delle proprie iniziative politico-sociali in risposta all'eresia protestante.

Nel volume si vuole anche contestualizzare l'operato dello Schedoni e del suo mecenate, analizzando in una tabella sintetica i vari episodi della pittura di soggetto religioso realizzati a Parma dal 1586 (epoca dell'arrivo dei Carracci) al 1630 (data della peste che segna una svolta epocale). Numerosi i documenti archivistici, talvolta inediti, portati a supporto delle varie tesi interpretative: se ne segnalano in particolare due riguardanti lo Schedoni, uno il pittore Luigi Amidano, un altro Lionello Spada. Vengono inoltre avanzate nuove attribuzioni a questi e ad altri artisti e si propone un aggiornamento bibliografico sulle tematiche trattate nella monografia: dalla pittura alla storia della Chiesa, dal concetto di corte all'iconografia cristiana.

È proprio attraverso l'analisi delle iconografie, che si coglie una specifica finalità catechetica e apologetica nelle pale d'altare di Schedoni, in risposta ad alcuni pronunciamenti dei Riformati: è infatti la lotta all'eresia protestante ad ispirare il soggetto di questi "sermoni figurati", mediante i quali il principe cristiano dichiara esplicitamente la propria ortodossia. Il dipinto pubblicato in copertina è il più significativo in questo senso: riguarda la teoria dell'Immacolata concezione della Vergine, tema che fu al centro di un lungo dibattito che vide schierate diverse famiglie religiose ora in sostegno, ora in contrasto nei confronti di quello che solo nel 1854 venne dichiarato dogma. La pala d'altare di Schedoni illustra l'episodio dell'Immacolata Concezione seguendo quanto narrato da Jacopo da Varagine nella Legenda Aurea, testo tratto dai vangeli apocrifi, per cui Maria sarebbe stata concepita con un bacio dei suoi genitori Gioacchino e Anna che si erano incontrati presso la porta Aurea di Gerusalemme. Il racconto principale è però accompagnato da una scena di elemosina in primo piano a sinistra, che si riferisce alle offerte che Gioacchino era solito compiere per ottenere la grazia di un figlio.

Questo è il primo livello di comprensione, che per i fedeli del tempo era facilmente decifrabile; ma altri insegnamenti emergono analizzando la metafora della porta, giacché era chiamata "aurea" o "santa" anche la porta della Basilica di San Pietro a Roma, che all'inizio di ogni Giubileo veniva aperta dal pontefice per inaugurare l'anno santo, dopo essere stata murata alla conclusione del giubileo precedente. A fronte delle accuse luterane, la bolla papale del 1599 riproponeva Roma come città santa: "qui quel tesoro inesausto di sacre indulgenze della Chiesa di cui custode e dispensatore è il romano pontefice". In occasione dei giubilei accorrevano a Roma anche "molti poveri venuti da tutte le parti d'Italia per fare alcun guadagno con l'elemosina della gente divota", si legge in un testo pubblicato da Riera in occasione dell'anno santo del 1575. Nel volume l'autore mette in evidenza come molti eretici, venuti a Roma per le più disparate ragioni, vedendo tante opere di carità, si fossero convertiti. Le opere di misericordia, in questo manifesto teologico dipinto su tela, vengono pertanto presentate come indispensabili per l'accesso alla vita eterna, in risposta alle tesi luterane sulla salvezza per la sola fede.

Altri tre dipinti, tra i molti analizzati nel volume, presentano soggetti collegabili fra loro sul piano del contenuto e inducono a ipotizzare l'esistenza di un ciclo, verosimilmente non concluso, di opere raffiguranti in modo allegorico le istituzioni assistenziali (gli ospedali) presenti in città, economicamente aiutate e in parte dirette dal Duca. San Sebastiano curato da Santa Irene, tradizionale protettore contro la peste, allude all'ospedale degli appestati (l'ospedale di San Lazzaro); il "Precetto del Faraone" richiama lo Spedale gli Esposti, cioè dei bambini abbandonati, poiché Mosè subì la stessa sorte di essere "esposto" a causa dell'ordine del Faraone d'Egitto di gettare nel Nilo ogni figlio maschio nato dagli Ebrei (Esodo, 1,22); infine il terzo dipinto illustra un grande esempio di umiltà: la Carità di Santa Elisabetta d'Ungheria, una santa a cui, a Parma, era dedicata una chiesa con annesso un ospedale per l'assistenza degli ammalati più poveri, gestito dalle Terziarie francescane. Infatti, nel dipinto la figura femminile si rivolge a tre personaggi che simboleggiano le categorie dei bisognosi: l'ammalato (cieco), il povero questuante che tende il cappello e il bambino in primo piano che rappresenta l'orfano, probabile richiamo alla Pia Casa dei Mendicanti fondata nel 1596.

Rispondeva infine alla pietà popolare del tempo il culto di San Francesco d'Assisi, che nella produzione schedoniana ricorre sia come figura isolata, sia all'interno di grandi composizioni. La profonda devozione di Ranuccio verso l'ordine francescano, il ramo cappuccino in particolare, spiega la predilezione verso questo santo, sposo della Povertà, significativamente raffigurato con la veste cappuccina, in ginocchio, con le stimmate e in posizione estatica. Furono i Cappuccini a riproporre con forza l'esempio della vita del santo assisiate come modello di pauperismo estremo, abbracciato da San Carlo Borromeo e condiviso dallo stesso duca Ranuccio, che nel suo testamento del 1620 dichiarò di voler "fare opere pie per salute dell'anima sua, per esaltazione della Religione Cristiana, e per sovvenimento dei poveri, e dispensate in perpetuo, anco dopo sua morte, molte elemosine".

 

F. Dallasta, C. Cecchinelli, Bartolomeo Schedoni a Parma (1607-1615). Pittura e Controriforma alla Corte di Ranuccio I Farnese, Colorno (Parma), Casa editrice La Colornese, 2002, 300 p., Ç 30.

 

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