Rivista "IBC" X, 2002, 4
Dossier: Ben(i) comunicati?
musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali, biblioteche e archivi, dossier /
So che, dovendo affrontare l'argomento del rapporto tra beni culturali e mezzi di comunicazione, il minimo che ci si può aspettare da me, che ho avuto l'ardire di creare (e difendere, che è sempre la parte più difficile) un canale satellitare (a pagamento, quindi) che si chiama RAISat Art, sia una dotta dissertazione sulle mille buone ragioni che mi hanno spinto a compiere una scelta che a posteriori si è rivelata non solo culturalmente valida ma anche di buon successo.
Non mi sottrarrò all'aspettativa (mi fa anche piacere parlarne). Ma, per cominciare, vorrei riandare al 1976, quando - giovane dirigente di una RAIDue appena uscita da una riforma che, vista a posteriori, assume sempre più nel tempo le caratteristiche di una irripetibile rivoluzione - si presentarono da me due bravi funzionari con alcuni lunghi elenchi da firmare. "Cos'è questa roba?" chiesi. "Sono gli elenchi dei nastri RVM da cancellare" (a quel tempo, larghi due pollici e quindi costosi): fu questa la risposta, nemmeno tanto reticente, visto che da tempo, ormai, l'usanza era in atto e il margine di scelta consentito a chi doveva decidere (in quel momento, io stesso) era se cancellare un concerto, un servizio culturale o uno "speciale" di seconda serata.
Confesso che mi sentii svenire: l'idea di dover decidere che un prodotto intellettuale - di qualunque genere, fosse stato anche il più infimo varietà - dovesse essere cancellato, sparire, perché qualcun altro, sulla base di criteri soggettivi, opinabili e comunque variabili nel tempo, aveva deciso che valesse meno del nastro magnetico su cui era stato memorizzato (era questa la giustificazione economica posta alla base di quella terribile decimazione), era per me insopportabile. Corsi dal mio bravo collega di RAIUno e con i rispettivi direttori di rete decidemmo che da quel giorno non si sarebbe cancellato più nulla. Qualche miliardo di costo in più - anche in questo venivamo considerati sovversivi - ma da allora in avanti tutto in videoteca, per la gioia e la disperazione di coloro che avrebbero poi dovuto classificare, conservare e valorizzare il materiale a loro affidato.
Perché questa (peraltro breve) premessa? Perché io penso che nel rapporto tra mezzi di comunicazione di massa e "beni culturali" il primo grande problema che si pone è quello della definizione di "bene culturale". Siamo tutti d'accordo che la "prima" del Teatro alla Scala produca un'opera definibile (quasi sempre_) come "bene culturale". Ma perché tale definizione non deve riguardare anche la Traviata di Svoboda messa in scena allo Sferisterio di Macerata, o l'ultimo poema sinfonico di Carlo Battistelli che recentemente ha inaugurato il rinnovato Teatro comunale di Treia (siamo sempre in provincia di Macerata)? E quanto vale, culturalmente, ma anche economicamente, la registrazione di "Televacca", il primo varietà televisivo di Roberto Benigni, che peraltro ebbe all'esordio, come tutte le cose veramente nuove, un grandissimo insuccesso?
Nei confronti di ciò che può essere definito come "bene culturale" un mezzo di comunicazione di massa (come nel nostro caso la televisione) si pone dunque in un duplice rapporto: da un lato ha la responsabilità (l'onere, l'opportunità, il privilegio) di poter documentare, riprodurre, riproporre un evento culturale, un'opera d'arte (tecnicamente riproducibile o meno che sia); dall'altro può essere esso stesso produttore di un programma classificabile come "bene culturale" (gli esempi non mancano: citerò per tutti la trasposizione televisiva del Mistero Buffo di Dario Fo, alcuni originali televisivi di Carmelo Bene, l'Orlando Furioso di Luca Ronconi ma, come si può capire, non voglio affatto escludere dal campo dei potenziali beni né i nonsense di Renzo Arbore, né le coreografie di Japino o di Boncompagni_).
E qui si aprirebbe lo spazio per una di quelle querelle senza soluzione che da anni appassionano politici, uomini di cultura, specialisti del settore, autori: se la televisione - mezzo prettamente commerciale - abbia, in quanto mezzo, responsabilità dirette nella produzione / documentazione / diffusione degli eventi culturali; se questa responsabilità non appartenga invece specificamente alla televisione pubblica che riceve all'uopo i soldi dei cittadini che pagano il canone; se, di fronte alla responsabilità di scegliere e definire i prodotti (o beni) culturali, l'unica soluzione non sia quella di creare flussi (i più ampi possibile) di materiali eterogenei attraverso la cui fruizione lo spettatore ("intelligente") possa acquisire sempre maggiori capacità percettive, intuire le connessioni, svelare le retoriche espositive eccetera eccetera.
Problemi senza soluzione, forse: o con soluzioni meno semplicistiche di quanto sembrano credere tanto il ministro delle poste quanto lo stesso presidente della RAI, Baldassarre. Problemi ai quali sembra attagliarsi bene il buon senso di Umberto Eco, che già in Apocalittici e integrati invitava gli intellettuali ad accostarsi ai mezzi di comunicazione di massa con le loro vocazioni pedagogiche e i loro criteri di valore ma anche tenendo conto della impossibilità di forzare la natura "di massa", appunto, di questi mezzi. Pragmatismo, dunque, ed anche un po' di fiducia nel progresso, che a un certo punto è stato capace di rendere economica la diffusione satellitare, di trasformare la comunicazione televisiva da analogica a digitale, di offrire (tecnicamente, non economicamente), a chi vuole comunicare, centinaia di canali satellitari a costi tecnici progressivamente ridotti.
Da questo pragmatismo, da una di queste opportunità, tecnologica e imprenditoriale (un accordo strategico tra RAI e TELE+), è nata RAISat, una società a vocazione privatistica (abbiamo tra i soci il gruppo editoriale Rizzoli Corriere della Sera) ma che mantiene nel suo DNA le caratteristiche di una lunga tradizione di servizio pubblico, inteso nella sua accezione migliore di accuratezza di linguaggio, di attenzione alla società, di valorizzazione di quanto di nuovo e di stimolante si manifesta, dentro e fuori il nostro paese, nei campi dell'informazione, dell'intrattenimento, dello spettacolo, delle arti visive e musicali.
Va sottolineato qui il fatto che, nella impostazione e nella realizzazione dei nostri sette canali satellitari (tanti sono i canali RAISat che può vedere un abbonato di TELE+) abbiamo avuto nei dirigenti italiani della piattaforma pay TV collegata a Canal Plus degli interlocutori eccezionalmente comprensivi e liberali. Fatto sta che RAISat ha avuto la possibilità di creare e affermare un'offerta satellitare originale basata su una duplice idea: che un canale satellitare fosse maggiormente identificabile dal pubblico (dai pubblici) come proposta di uno "stile di vita" piuttosto che come offerta di uno specifico genere televisivo; che i consumi culturali costituiscano una parte importante del concetto di welfare, per larghe, crescenti fasce di popolazione (alcuni sociologi hanno chiamato questi nuovi soggetti "bo-bos", come abbreviazione di "borghesi-bohemien").
In un quadro di politica editoriale così definita, come sottrarsi allora alla tentazione di proporre, accanto a un canale di cultura cinematografica (RAISat Cinema) e a un canale dedicato a tutte le arti dello spettacolo (RAISat Show), anche un canale dedicato all'arte, intesa nella sua accezione più vasta di sperimentazione di nuove forme e linguaggi, di modernità e di gusto estetico? RAISat ART è nata così, come un canale aperto alla rappresentazione e alla documentazione di tutte le forme di espressione visive o materiali: dalla esposizione museale all'architettura, dalla fotografia al restauro, dall'intervento paesaggistico (in particolare i giardini) all'urbanistica. E poi, per inevitabile connessione, la sistemazione della casa, gli oggetti di design, le stoffe, i fumetti, i gioielli: sempre senza la pretesa di far la lezione a qualcuno, senza privilegiare una forma rispetto all'altra, con un intento documentativo e conservativo che vorrebbe poter dedicare attenzione a quanto di nuovo, di stimolante, di funzionale, di bello si produce nel nostro tempo e si è accumulato negli anni e nei secoli che ci hanno preceduto.
Con che criterio, domanderete voi? Col criterio della maggiore larghezza possibile, rispondiamo noi, dovendo per forza ricorrere al nostro gusto, alla rappresentatività massima della rosa dei nostri collaboratori, alla apertura e alla sperimentazione dei giovani artisti, dei giovani registi. Abbiamo una fortuna eccezionale, quella di dover proporre agli spettatori ogni anno ottocento/mille ore di prodotto originale per ciascuno dei nostri canali: la sola limitazione che abbiamo è di tipo economico, perché ogni ora di trasmissione satellitare "vale", sul mercato della TV, cinquanta o cento volte meno di un'ora di Fiorello, e ancora meno di un'ora di partita della Nazionale di calcio.
Dico questo senza alcuna recriminazione e senza alcun moralismo: anche perché se non ci fossero Fiorello e la Nazionale di calcio non ci sarebbero probabilmente né la televisione satellitare né RAISat: lo sottolineo per spiegare che la diversificazione dei media consentita dalla tecnologia e dal mercato assegna ormai, a media diversi, obiettivi differenziati. E che quindi è irrealistico intrattenersi sulla natura ludica (deficiente?) della TV generalista, senza dedicare poi - come tuttora avviene in gran parte della stampa a grande tiratura - un minimo di attenzione a quanto vanno proponendo i nuovi canali satellitari. Un problema reale riguarda il fatto che un canale come RAISat Art si trovi su un bouquet a pagamento e non - come in Gran Bretagna per la BBC - tra l'offerta in chiaro della RAI: da questo punto di vista il grado di analisi e di prospettiva strategica del nuovo consiglio di amministrazione della RAI appare al momento insufficiente o in ritardo.
Ma torniamo, concludendo, a RAISat Art e agli altri canali che un po' genericamente possiamo considerare dedicati ai beni culturali. C'è da osservare - ed è un problema che noi stessi non abbiamo ancora risolto - che un prodotto culturale (mi si perdonerà questa definizione un po' mercantile?) non basta però produrlo, o documentarlo: bisogna conservarlo, classificarlo e poi, soprattutto, conoscerne l'esistenza e riutilizzarlo!
Uno dei problemi che si trova di fronte RAISat, con la sua produzione di sei-settemila ore all'anno, è quello di una utile classificazione e di una agevole consultazione dei programmi prodotti e poi archiviati. Purtroppo le immagini audiovisive non sono come i testi letterari, classificabili con le "parole chiave": le inquadrature, le sequenze di montaggio, i ritmi, le atmosfere, le assonanze o le dissonanze, o le si conosce o si rischia di annullarle con la propria incapacità percettiva. Personalmente mi accorgo, avendo partecipato alla costruzione dei palinsesti di alcune annate televisive della RAI, che ho una conoscenza specifica dei "giacimenti" relativi a quegli anni, conoscenza che condivido con pochissime persone.
Accanto al problema della produzione e della documentazione dei prodotti culturali c'è dunque, fin dalla loro nascita, il problema di una loro classificazione "intelligente", che li renda disponibili per tutti i significati e le potenzialità culturali che essi contengono. Capisco che una estremizzazione di questo concetto contiene il rischio della famosa carta topografica dell'imperatore della Cina, che a forza di pretendere particolari poteva essere soddisfatto solo da una carta grande come la Cina stessa; ma, allo stato, devo constatare che la conoscenza delle grandi teche - come ad esempio quella della RAI (parlo della conoscenza degli utilizzatori, non di quella degli specialisti) - assomiglia più a una piramide (poche cose stracitate, molte cose dimenticate) che non a una ordinata biblioteca (di Babele?) totalmente esplorabile e percorribile lungo una molteplicità di linee di ricerca o di scale di valore.
Ed infine, per concludere veramente, c'è un urgente bisogno di risolvere la stridente contraddizione (pratica, non teorica) tra "bene culturale" e "merce". Perché, per parlare di RAISat, se intendessi fare una rassegna dei film americani della RKO, dovrei rimettermi all'imperscrutabile giudizio di chi ne possiede in perpetuo i diritti (nel caso specifico la Fininvest, alla quale va comunque riconosciuta la lungimiranza di averli acquistati, pensate un po', dalla RAI)? E perché, se ho registrato nel 1976 dalla Scala di Milano una delle più belle edizioni mai realizzate dell'Otello verdiano (Kleiber, Domingo, Freni), mi trovo ora nell'impossibilità di utilizzarla per la difficoltà di ricontrattare la riproduzione con tutti gli aventi diritto (e spesso i loro eredi)?
Non si tratta qui di non voler riconoscere il valore commerciale di un prodotto culturale: si tratta di riconoscere a tutti, pagando in misura proporzionale al valore di mercato, il diritto della sua fruizione, della sua citazione, della sua esposizione in rassegne, esposizioni ecc. E non si creda che i casi che ho citato siano, nella loro eccezionalità, il sintomo di una rarità del problema: molte riprese delle regie strehleriane dal Piccolo Teatro corrono lo stesso rischio di inutilizzabilità. Personalmente aggiungo che la lodevolissima iniziativa conosciuta come "legge Ronchey" - che ha stabilito una volta per tutte il corrispettivo da pagare per le riprese audiovisive delle opere d'arte di proprietà pubblica - sta creando molte difficoltà a televisioni dotate di pubblici settoriali (e quindi di ridotte risorse economiche) come le TV satellitari. Per cui: o si ricorre alla fantasia collaborativa di soprintendenti illuminati (succede abbastanza spesso) e dello stesso Ministero per i beni e le attività culturali, oppure si compera il materiale da grandi televisioni pubbliche (spesso la BBC) tra la sorpresa dei venditori che non si capacitano delle eterne contraddizioni del nostro Bel Paese!
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