Rivista "IBC" X, 2002, 4

Dossier: Ben(i) comunicati?

musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali, biblioteche e archivi, dossier /

Cominciò così

Fernando Ferrigno
[vicecaporedattore Cultura del TG3 della RAI]

Tutto è cominciato nei primi anni Settanta. C'era Giovanni Spadolini e un'Italia che riscopriva al meglio le ricchezze del "sapere" avvertiva che, dietro la polvere di depositi e di archivi, c'era la ricchezza di opere incredibili (quadri, sculture, libri, ecc. ) e che nel profondo del mare (fatto di aree archeologiche, di musei, di chiese con i loro arredi medievali, rinascimentali, barocchi, di castelli, di palazzi) c'erano tesori che nessuno conosceva; e che c'erano milioni e millenni di oggetti (vasi antichi, statue, tele, affreschi) che avrebbero fatto la gioia dei direttori dei più prestigiosi musei del mondo e che nessuno aveva mai catalogato, mai protetto. E fu allora che si decise di definire meglio "quella ricchezza", allo scopo di tutelarla e di valorizzarla. E fu così che nacque il Ministero dei beni culturali.

All'inizio fu un altro castello burocratico, fatto di circa trentamila dipendenti, con un organico squilibrato (pochi restauratori, architetti, storici dell'arte) e con attività vincolate al bilancio dello Stato e che erano, spesso, articolate male, dato che le competenze appartenevano non ad un unico soggetto ma ad una miriade di uffici ministeriali e di soprintendenze. Così chi restaurava un affresco lo faceva senza sapere che poi, su quella stessa parete, qualche altro sarebbe intervenuto per eliminare l'umidità e che lo avrebbe fatto quando già i colori sarebbero stati resi pallidi da nuove infiltrazioni e che, fra un lavoro e l'altro, si sarebbe dovuto aspettare mesi o anni prima di avere nuovi fondi, nuovi finanziamenti. E spesso al disastro si riuscì a porre rimedio, paradossalmente, grazie ad altri disastri: penso alla legge Biasini, che dopo il terremoto del 1979 diede la possibilità al soprintendente Adriano La Regina di restaurare le colonne e gli archi del Foro Romano, di comprare, per pochi miliardi, palazzo Altemps e palazzo Massimo, di realizzare i progetti per sistemare la Collezione Ludovisi, da anni abbandonata sotto teloni di plastica, e di mostrare gli affreschi meravigliosi delle ville patrizie nelle sale del nuovo Museo sorto accanto al prestigioso museo delle Terme di Diocleziano.

E fu così che si cominciò a parlare di "miracolo" e finalmente sui giornali e in televisione apparvero i ponteggi, e dietro le impalcature i rilievi e le storie di Traiano e di Marco Aurelio. E tutto divenne spettacolo e anche occasione per ricordare (talvolta con inchieste e con interventi di storici dell'arte, come Federico Zeri, Giulio Carlo Argan, Antonio Cederna) quanto ci fosse ancora da salvare e da tutelare, e come tutto dipendesse dai numeri, da quello 0,19 per cento del bilancio dello Stato che spariva, quasi tutto, per la normale gestione del Ministero. Allora si studiò come far quadrare i conti, come addirittura trarre profitto da quelli che un fantasioso ministro (Gianni De Michelis, ndr) definì "i nostri giacimenti culturali". La ricetta era semplice. Si apriva, o meglio si offriva al mercato il patrimonio pubblico più appetibile: le opere dei grandi (Raffaello, Michelangelo, ecc.); si affidavano a sponsor la faccia della Fornarina o della Venere di Botticelli, mentre le facciate dei palazzi storici venivano coperte (durante i lavori di restauro) da pannelli che legavano l'opera a questo o a quel prodotto o istituto bancario. E sull'esempio dei giapponesi, che per primi avevano fiutato l'affare con la Sistina, si legarono i diritti dell'uso dell'immagine all'impresa che finanziava i lavori.

Mutò persino il linguaggio corrente e molti termini scientifici presi dalla chimica e dalla fisica (come "decoeso", solfatazione, ecc.) entrarono, con forza, nei servizi giornalistici; si cominciò a conoscere, nei particolari, come il marmo, aggredito dagli acidi dispersi nell'atmosfera, diventasse gesso e si passò dal recupero alla filosofia della conservazione, a capire di più la fragilità di ciò che la storia ci aveva lasciato e a comprendere quanto non fosse più sufficiente quello 0,19 per cento del bilancio nazionale. Ma intanto c'erano altre battaglie da portare avanti: prima fra tutte quella della sensibilizzazione dell'opinione pubblica sulla conservazione e sulla tutela. I furti, il mercato clandestino delle opere d'arte, i terremoti (come l'ultimo che ha devastato l'Umbria e le Marche), le bombe di mafia a Roma (contro San Giovanni e San Giorgio al Velabro) e a Firenze (contro gli Uffizi e la Torre de' Pulci): sono stati eventi che hanno trovato spazio sulla stampa. Ricordo gli effetti, le emozioni che produssero trasmissioni come quelle di Vittorio Emiliani sulle nostre città nei primi anni Novanta e i viaggi nel disastro di Federico Zeri ad Assisi e dintorni dopo il sisma.

Ma per informare e per far crescere, nell'opinione pubblica, l'amore verso "il bello", occorrevano spazi maggiori, soprattutto nella TV di Stato. Occorreva un rapporto maggiore fra curatori di programmi e il Ministero dei beni culturali con l'Università, una sorta di tentativo per creare un palinsesto tutto particolare, su temi e argomenti che affascinassero il pubblico senza l'assillo dell'audience e dei rientri pubblicitari (ad esempio, un viaggio all'interno del Colosseo prendendo spunto dal film Il Gladiatore, o all'interno della Domus Aurea per ricostruire la figura di Nerone, oppure tentando la strada degli sceneggiati sui personaggi che hanno fatto il nostro Rinascimento). E sono sicuro che, affidate a registi sensibili (Taviani, Olmi, ecc.), la vita di Raffaello o di Bernini avrebbero avuto un impatto incredibile sui giovani e annullato la distanza che separa un'opera d'arte dai nostri tempi.

E invece nulla di tutto questo e solo ciò che è notizia (nel bene e nel male) passa nei sommari dei TG. Eppure (questo è dimostrato) i beni culturali creano lavoro. Lo confermano le tante imprese e cooperative che, grazie anche ai soldi del lotto, operano in aree archeologiche e in cantieri sparsi in tutta Italia e che rappresentano un punto di forza, un esempio a livello internazionale. Ma questo mondo fatto di esperti e di scienziati che recuperano affreschi e palazzi (penso a ciò che si sta facendo ad Assisi, sotto la direzione dell'Istituto centrale del restauro) è stato trascurato dai mass-media. Anche la questione dei diritti televisivi (un retaggio della legge Ronchey), rende più difficile l'attuazione di progetti che non abbiano alle spalle coperture economiche di enti e di sponsor. E allora si naviga a vista, in un mare fatto di calma piatta e di brevi tempeste (e meno male che vi sono naviganti come Piero e Alberto Angela, a divulgare, ad affascinare, chi ascolta).

Una merce pregiata, certo, ma pur sempre merce, i beni culturali. Ne abbiamo tanta di questa merce. Talmente tanta che non riusciamo più a contarla, a proteggerla. E così è spuntata l'ultima proposta (che per la verità è stata sempre dietro l'angolo): quella di alienare o vendere parte del patrimonio artistico (sempre meglio affidarlo ai privati che perderlo, dicono alcuni). Ed ecco spuntare le due società: quella sul "patrimonio" e quella sulle "infrastrutture". Il gioco è semplice. Parte dalla premessa che lo Stato non ha più soldi per proteggere, per recuperare tutto. Anzi, dismettendo, affidando ai privati un palazzo del Seicento o un castello diroccato, si salvano e si recuperano fondi da destinare ad altri luoghi storici e magari al risanamento del bilancio dello Stato. E così torna l'idea dei "giacimenti culturali", tanto criticata dagli spiriti sensibili, ma che affascina chi è abituato ai conti, al senso degli affari. Si dice: tutto è garantito, nessuno ha in mente di vendere il Colosseo o la Fontana di Trevi. Ed è vero, ma il pericolo c'è ed è nella seconda società, quella delle "infrastrutture". È quest'ultima, infatti, che interviene economicamente, anticipando allo Stato i soldi per opere importanti (autostrade, ponte sullo Stretto e così via) ed avrà, come garanzia, i proventi della prima società, quella patrimoniale. E se il meccanismo del dare e dell'avere dovesse incepparsi, allora ecco che potrebbe apparire il fantasma della vendita e dell'alienazione.

Ed ecco le polemiche, tuttora accese, su una legge che si profila all'orizzonte, carica di pericoli. Ma c'è sempre una via intermedia per evitarli. Ho visto tempo fa a Rocca Bianca, un paesino della Bassa parmense, alcune opere di Ettore Ximenes, il grande scultore e architetto del Liberty, raccolte in un ex cinema. Come erano finite lì e da dove provenivano quelle dodici sculture, tutte belle e ognuna con il suo piedistallo, con tanto di nome a illustrare il personaggio (Aida, Rigoletto, Otello)? Avevano fatto parte, quelle statue, di un grande monumento a Verdi (che per decenni era stato nella piazza della stazione di Parma). Danneggiato dalle bombe dell'ultima guerra, il monumento era stato lasciato - udite, udite - alla mercè di tutti. Chi avesse voluto avrebbe potuto, grazie a una ordinanza del Comune di Parma, portarsi via le sculture, disperderle o destinarle a una propria villa o giardino (e meno male che Parma è la città verdiana per eccellenza). Per fortuna un privato, innamorato della musica di Verdi, recuperò le opere di Ettore Ximenes e le collocò, salvandole, nel suo cinema-auditorium a disposizione di tutti. Non le ha affidate al mercato, rinunciando a un affare di miliardi_ e poteva farlo.

È un esempio, un esempio in positivo dell'azione dei privati. Anche se non mancano altri esempi, repellenti: quello di chi ha trasformato una tomba del IV secolo d.C. (quella di Annia Regilla, a Roma, nei pressi della via Appia) nella dépendance di una villa, e quello di chi, sempre nella stessa zona, è andato ben oltre, riducendo una tomba repubblicana a gabinetto di un ristorante. Tutto detto, tutto denunciato in una serie di servizi televisivi, per il TG3 e per "Bellitalia", la rubrica che ho diretto per anni. Ma nulla si è mosso e nessuno si è commosso. Come nessuno si era commosso quando più di vent'anni fa era sparito a Roma addirittura un museo, quello di Torlonia, in via della Lungara, annullato, trasformato in un residence con novantanove miniappartamenti. Ed ora le statue (seicento e più sculture importantissime) giacciono accatastate in una cantina dell'ex museo, fuori dalla portata di chi farebbe di tutto per ammirarle.

"Non ci meritiamo nulla" mi ripeteva spesso Federico Zeri quando lavoravamo insieme a "Bellitalia". E invocava - polemico, paradossale come era - l'arrivo di distruttori, per punirci. Ma era un modo per stimolarci maggiormente all'amore delle cose belle. Ed ora, mentre si preparano leggi e si studia il modo per reperire nuovi fondi per la conservazione? Lo scenario (lo abbiamo accennato) si apre ai privati e anche ai Comuni e alle Regioni, che hanno sempre più deleghe in materia di beni culturali. Ma vi sono già le prime critiche, a mano a mano che si assiste, nella indifferenza più assoluta, alla costruzione di capannoni industriali accanto a templi e ad aree archeologiche. Ed è questo un aspetto negativo. L'altro, positivo, è più generale e fa pensare che si respiri un'aria diversa, meno polverosa, meno stagnante, rispetto al passato. Sarà sufficiente per garantire la conservazione e la valorizzazione dell'immenso, unico, tesoro d'arte che possediamo? È presto per dirlo, dato che siamo all'inizio, solo all'inizio. E le novità potrebbero essere esaltanti e sconvolgenti.

 

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