Rivista "IBC" X, 2002, 1
musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali, biblioteche e archivi / inchieste e interviste, leggi e politiche
La Regione Emilia-Romagna è attualmente impegnata in un'opera complessa di riordino degli enti e delle società che ad essa fanno capo. Anche l'Istituto per i beni culturali è coinvolto direttamente in questo processo di revisione e ripensamento di funzioni, ruoli, relazioni. Per questo abbiamo pensato di organizzare sulle pagine della rivista una sorta di forum virtuale a cui abbiamo invitato alcune fra le numerose personalità (intellettuali, amministratori, politici) che in tempi e modi diversi hanno incrociato la loro attività con quella dell'Istituto. Pensiamo che la loro esperienza e le loro idee possano rappresentare un contributo utile al dibattito in corso. Apriamo il nostro forum, che proseguiremo nei prossimi numeri della rivista, con gli interventi di Andrea Emiliani (già vicepresidente e consigliere dell'IBC), Guido Fanti (primo presidente della Giunta della Regione Emilia-Romagna ed ex parlamentare europeo), Lucio Gambi (già presidente e tuttora consulente scientifico dell'IBC), Giuseppe Gherpelli (già presidente dell'IBC), Natalino Guerra (già presidente del Consiglio della Regione Emilia-Romagna e consigliere dell'IBC).
Come ricorda la sua esperienza rispetto alla storia dell'IBC?
Andrea Emiliani
Ho vissuto interamente la prima fase ideativa dell'IBC, nonché alcune annate di attività iniziali. Del momento inventivo, parallelo alla costruzione che Giovanni Spadolini conduceva per il nuovo, inedito Ministero per i beni culturali e ambientali (1974), non posso che avere un ricordo molto marcato e riconoscente, sia sotto il profilo delle origini politiche e cioè ideologiche (e soprattutto di metodo critico storico). Mi ricordo del fervore inventivo di strumenti del sociale che animava allora la presidenza della Regione, tenuta per tutta la sua fase costituente da Guido Fanti.
Sono convinto che l'IBC sia nato inizialmente da due esperienze pratiche consciamente ispirate all'affascinante cultura mossa da storici come Marc Bloch e Lucien Febvre. In seno ad una consistente e documentabile stagione di cultura di opposizione gestita dagli enti locali, si mossero dopo la notevole impresa di Italia '60 (Torino, creata da Ernesto Ragionieri, da Mario Soldati ecc.) alcune iniziative fortemente ispirate alla dimensione spazio-temporale dei siti ambientali e dei sedimenti antropologici. La geografia storica e insomma la storia degli spazi organizzati, come ci insegnava Lucio Gambi, comprendeva anche la vita delle forme e dunque l'intera fenomenologia degli stili di queste.
Le due iniziative furono le cosiddette campagne di rilevamento dell'Appennino (la montagna di allora correva in quegli anni il rischio evidente dello spopolamento e del degrado) che organizzammo tra il 1968 ed il 1971; e la redazione di un Piano urbanistico per il centro storico, condotto da Pier Luigi Cervellati. Paolo Monti fu l'occhio di ambedue le "campagne" e di un consistente field-work. Si intuisce facilmente come le due dimensioni di lavoro portassero esperienza concreta alla fondazione dell'IBC.
Guido Fanti
Eletti nel 1970 a dirigere la Regione, non avevamo in mano nulla, né una sede né un ufficio. Eravamo ospiti dell'Amministrazione provinciale. Avevamo però ben chiaro cosa dovevamo fare: impiantare dal nulla una istituzione nuova che doveva assumersi la responsabilità di governo del territorio regionale. E la scelta nostra fu immediata: creare due pilastri attorno ai quali articolare il modo nuovo di governare. Innanzitutto sostituimmo gli interventi a pioggia con una programmazione economica rispondente alle esigenze di una economia in crescita tumultuosa quale era quella emiliano-romagnola (e prezioso fu il contributo ricevuto dal comitato tecnico-scientifico che istituimmo affidandone la presidenza a Romano Prodi). Ed insieme avvertimmo l'esigenza di creare uno strumento che, facendo tesoro dell'esperienza già sviluppata dagli enti locali, potesse arricchire l'insieme degli interventi sul territorio (dall'agricoltura all'industria, dall'urbanistica alla difesa dell'ambiente) con una conoscenza e rivalutazione del ricco patrimonio culturale, artistico e naturale di cui era dotata la regione, di un passato attraverso il quale conoscere il presente come garanzia per costruire bene, come volevamo, un futuro rispondente alle esigenze nuove. Fu così che, con l'aiuto determinante di uomini come Andrea Emiliani, Pier Luigi Cervellati, Lucio Gambi e l'assessore Angelo Pescarini, fummo in grado di presentare la legge regionale per la costituzione dell'Istituto regionale per i beni artistici culturali e naturali dell'Emilia-Romagna [la legge 26 agosto 1974, n. 46, ndr].
Fu un'esperienza esaltante, che arricchì la vita della Regione in un fecondo rapporto con Comuni e Province e rappresentò un punto di riferimento non solo nazionale. Tanto che non ebbi difficoltà nel proporre al Parlamento europeo, agli inizi degli anni Ottanta, un collegamento stabile tra l'Emilia-Romagna e il suo Istituto con la città di Lovanio: anche lì, sulla base di un piano urbanistico di salvaguardia del centro storico, si sentiva l'esigenza di contribuire a creare un rapporto tra le diverse esperienze per la salvaguardia delle città storiche in Europa e nell'area mediterranea. E proprio con questo titolo nel novembre del 1983 si tenne a Bologna un importante convegno patrocinato dal Parlamento europeo e dalla Commissione della Comunità, convegno che ebbe un notevole successo ma non altrettanto seguito.
Lucio Gambi
La mia esperienza all'IBC è stata breve, fra il giugno 1975 ed il maggio 1976: periodo in cui sostanzialmente ho avuto modo solo di tracciare lo schema di un programma di lavoro scientifico e di coordinare il consiglio di amministrazione nella elaborazione, alquanto faticosa, di un regolamento interno (come richiedeva l'articolo 6, punto "e" della legge regionale 26 agosto 1974, n. 46).
Fu precisamente nel corso di questa elaborazione che mi resi conto che l'Istituto - a parte l'erogazione regionale per il suo funzionamento amministrativo (articolo 15, punto "a" della legge predetta) - non godeva di una effettiva autonomia finanziaria per l'organizzazione del suo lavoro scientifico (articolo 15, punto "b"), e che due basilari organi dell'Istituto (articolo 5: il consiglio di amministrazione, di trenta persone; articolo 10: il comitato consultivo per i beni artistici, culturali e naturali, di novanta persone) creavano elementi di pesante macchinosità. Una volta preso atto che la struttura gestionale dell'Istituto non poteva divenire più flessibile e funzionale, e che io non avevo la minima capacità di guidare entro quei binari, mi dimisi dall'incarico di presidente.
Giuseppe Gherpelli
La creazione dell'Istituto fu un atto consapevole di coraggiosa politica culturale. La decisione di provare a dimostrare che era possibile ricondurre alla collettività locale la responsabilità delle azioni di tutela e di valorizzazione del patrimonio culturale ed ambientale fu assunta grazie alla felice coincidenza di nette volontà politiche, peraltro espressioni di quasi tutti i partiti, e di approfondite analisi scientifiche. Le linee di lavoro elaborate attorno all'Istituto negli anni Settanta conservano una straordinaria attualità. La sfida di quegli anni era duplice: si trattava di fare crescere la coscienza del valore dei beni culturali ed ambientali, e di testimoniare, con concretezza e senza presunzione, la capacità di sperimentare un modello possibile di ricerca e di lavoro su una gamma di discipline allora ancora spesso allo stato embrionale.
Fu una vera battaglia, nella quale entrarono in campo forze vecchie e nuove. Lo schieramento conservatore, costituito dalla piccola ma potente pattuglia dei burocrati ministeriali e da taluni ambienti accademici, riuscì a negare spazio politico alle forze che si battevano per il decentramento. La nascita del Ministero per i beni culturali ed ambientali, salutata da tutti come un segnale di grande interesse, si rivelò ben presto portatrice di notevoli contraddizioni, fra nuove spinte ad un centralismo forsennato e incapacità di organizzare le proprie funzioni. Alcune Regioni (Emilia-Romagna, Toscana, Marche, Lombardia) reagirono dando impulso alle loro scelte, con maggiore o minore fortuna.
Mi pare si possa dire che l'Istituto, che era stata certamente la punta avanzata dell'esperimento che si voleva realizzare, seppe assorbire bene i contraccolpi di quella che fu una autentica sconfitta politica e culturale. Il mancato decentramento, la negazione delle deleghe alle Regioni, indussero la Regione Emilia-Romagna e gli organi dell'Istituto a procedere con rinnovato vigore sulla strada della conoscenza del territorio e delle sue sedimentazioni storiche, artistiche, architettoniche, naturalistiche. La produzione scientifica dell'Istituto è la fulgida testimonianza dell'imponente lavoro fatto. Non c'è istituzione italiana che in un quarto di secolo abbia indagato, studiato, catalogato, valorizzato il sistema dei beni culturali ed ambientali con tanto profitto.
Naturalmente, non tutto è sempre finito come si sarebbe voluto, e mancanze ed errori hanno anche contrassegnato il cammino dell'Istituto: è innegabile, però, che l'Istituto ha saputo resistere ad una stagione nella quale sembrava che le prerogative regionalistiche stessero per tramontare definitivamente, e, anche, a qualche tentativo non nobile di annetterlo a ragioni politiche fin troppo localistiche.
Natalino Guerra
La mia più che decennale esperienza di amministratore dell'IBC è, in certo modo, coronamento delle idee e dei valori che hanno ispirato l'azione mia e del mio gruppo nei confronti dell'IBC nelle prime tre legislature del Consiglio regionale (1970-1985). In Consiglio regionale, sebbene all'opposizione, per l'IBC, unico fra gli istituti regionali, votammo l'istituzione e, negli anni successivi, i presidenti e gli amministratori, i bilanci ed i programmi attuativi. Il nostro giudizio positivo ed il nostro voto favorevole si basarono su due motivi fondamentali: l'azione regionale e locale nel delicato campo culturale e per l'IBC l'autonomia giuridica, statutaria, scientifica ed organizzativa come strumento della programmazione regionale. Garanti di quei due motivi, sia in consiglio regionale sia nel consiglio dell'IBC, mi sono sempre apparsi, alla guida di una schiera di ottimi ed esperti funzionari, uomini autenticamente democratici e di profondo spessore umano e culturale come Gambi ed Emiliani, come Cervellati e Susini, come Biasini e Raimondi, che ho sempre votato con ammirazione e con i quali ho avuto l'onore di collaborare per lungo tempo.
Anche se il tempo sociale e politico ha imposto necessariamente revisioni statutarie per l'azione dell'IBC nella società emiliana, mai personalmente ho accettato una certa tendenza burocratica di alcuni assessorati regionali di mettere in discussione sia il ruolo che l'autonomia dell'Istituto. Tale tendenza fortunatamente è stata sempre respinta, anche dopo vivaci confronti, dalla giunta e dal consiglio regionale: in caso contrario l'IBC non avrebbe certamente conosciuto la sua stupenda fioritura scientifica e culturale di oltre venticinque anni.
Il modello culturale e gestionale dell'IBC le sembra ancora valido? Quali sono a suo parere i pregi ed i difetti?
Emiliani
La cultura della conoscenza artistica ha subito flessioni visibili nel corso degli ultimi due decenni. La prima, d'ordine sociale, mostra evidente la scomparsa dello stato sociale o almeno della sua forma riconoscibile e cioè storica: l'arte non ha più vantaggi educativi, scolastici, scientifici e di comunità. Essa è divenuta quasi sempre protagonismo spettacolare ed estetizzante, esibizione, mostra, corpo ludico. In questa nuova dimensione, avvalorata dallo sviluppo delle comunicazioni, il museo ha prevalso sulla nozione di città e di territorio. Esso è divenuto una scatola nella quale si accumulano ovvietà estetiche destinate allo sbalordimento e tangenzialmente ad un'idea sibaritica d'arte, il che vuol dire di ricchezza.
Ciò conduce ad un'altra flessione: da forma storica, leggibile nel quadro di un'intelligenza di metodo storico, l'arte (per lo più in scatola) ha scatenato con la sua presenza una preoccupante visione economica. Anzi, una sopraffazione economica, talora anche inconsapevole (come è nel caso di numerosi vari scienziati che ne fanno oggetto di ricerca disciplinare senza occuparsi affatto della sua sostanza artistica e appunto storica). In questi anni l'economia dell'arte ha assunto una reale dimensione surrealistica. Ci si occupa dell'economia generata e generabile dall'arte (tickets, libri, immagini, fotografie e poi servizi aggiuntivi, fino al ristorante) con una sorta di convulsa attenzione totalizzante. Si direbbe - come afferma Ezio Raimondi saggiamente - che si venga trattando di un'economia da risucchiare dall'arte piuttosto che di un'economia da generare virtuosamente "per l'arte".
Mi sembra ovvio che un istituto di ricerca tecnico-scientifica, interamente poggiato sulle identità storiche e artistiche connesse ai luoghi e ai modi, come vere e proprie intersezioni spazio-temporali, tracciate in una reciprocità molto densa, abbia perduto una parte notevole del proprio orizzonte programmatico: come hanno fatto del resto altri istituti di tutela, come le soprintendenze ai beni artistici (non parlo di quelle ai beni architettonici per il fatto che esse sembrano da molti decenni addette a flessioni economicistiche da curare al di fuori della storia, ma unicamente con visioni avvocatesche, bene che vada).
L'incidente più grave mi sembra l'avvenuto abbandono della conoscenza del paesaggio rurale, ultimo vero capolavoro dell'uomo in questa pianura padana come anche nelle alture appenniniche. La scomparsa radicale della piantata ha ridotto le aree emiliano-romagnole in luoghi di desertificazione progressiva, di disastro idrogeologico, di inespressività paesaggistica, di demolizione del paesaggio come umanità e come storia. Non è un bel risultato per molti enti locali, a cominciare dalla Regione, che si sono segnati per anni e anni nel nome sacro di Emilio Sereni.
Fanti
La lontananza da Bologna non mi ha consentito di seguire la vita dell'Istituto. In occasione del ventennale della sua nascita Ezio Raimondi mi ha chiesto un contributo. In quella occasione espressi l'esigenza di una riflessione su come si erano potuti avvertire anche nella vita dell'Istituto i riflessi di quella involuzione che il sistema regionale nel suo complesso aveva subìto per il riaffermarsi dello spirito centralistico nella vita politica italiana. Le Regioni sempre più ridotte ad una gestione amministrativa di un bilancio deciso per il novanta per cento dalle scelte e decisioni governative. Mi pare di capire che anche per l'Istituto si sia fatta sentire questa involuzione, come indica anche la nuova legge regionale nel 1995 [la legge 10 aprile 1995, n. 29, ndr].
Gambi
Come "modello" culturale e gestionale da evocare per l'IBC - sia pure a scala diversa - io vedo il Consiglio nazionale delle ricerche, che è un organo dello Stato con personalità giuridica e con piena autonomia finanziaria per ciò che riguarda la propria operosità scientifica. In questa prospettiva - quando siano rapportati a singoli ambiti della pianificazione regionale - sono anche oggi totalmente condivisibili i compiti indicati venticinque anni fa nella legge 26 agosto 1974, n. 46 (articolo 2), e ribaditi l'ultima volta dalla legge di riordino dell'Istituto, la legge 10 aprile 1995, n. 29 (articolo 2). Alla ricchezza e alla validità di questi compiti fa da contraltare un solo rischio che aleggia sull'Istituto fino dalle sue origini (come ha aleggiato sul CNR): ed è la burocratizzazione, che a volte può giungere ad un passo dal feudalismo partitico.
Gherpelli
Non sono in grado di esprimere una valutazione al riguardo, non frequentando più l'Istituto da molti anni. Posso solo dire che l'esperienza dell'Istituto è ancora vista come un miraggio in molte parti d'Italia e del mondo. Aggiungo che il dibattito in corso sul federalismo potrebbe aprire nuovi spazi di sperimentazione all'Istituto.
Guerra
La risposta non può che essere duplice.
Il modello culturale voluto da Fanti e dal Consiglio regionale nel 1974 non ha conosciuto cambiamenti fondamentali fino ai nostri giorni. Non è certamente una fortuita coincidenza se, come afferma Emiliani, "la necessità di conoscere, valutare ed organizzare il patrimonio artistico, culturale e naturale" fece nascere allora in Emilia-Romagna l'Istituto per i beni culturali ed in Italia il Ministero per i beni culturali, ed oggi li mette ambedue in discussione, a Bologna come a Roma. Oggi una preoccupante tendenza neocentralistica ne minaccia la duplice soppressione in nome di una cosiddetta efficienza operativa. Allora, come ora, è in discussione non l'efficacia dell'azione, ma la libertà della cultura nella sua autonomia istituzionale.
Il modello gestionale, nelle sue diverse strutture, dal 1974 ad oggi ha presentato invece diversi strumenti di amministrazione e di attuazione. Si è, via via, ridotto e semplificato il consiglio di amministrazione, si sono articolati e divisi in diverso modo i servizi, si sono distribuiti e contrassegnati con diverse tonalità compiti e funzioni. L'evoluzione razionalizzatrice certamente non è compiuta, mentre rimangono al fondo ancora insoddisfacenti negli organi dell'IBC i rapporti fra Istituto, Regione ed enti locali. Un buon cammino è stato percorso, ma la meta ottimale sembra ancora lontana, nonostante una generale volontà convergente in tutte le componenti.
È in atto un processo di revisione e ripensamento del ruolo e delle funzioni dell'IBC. Quali suggerimenti potrebbe dare?
Emiliani
Anche l'intero processo di decentramento - coltivato per molto tempo sotto il profilo ottocentesco della riappropriazione - non ha fatto passi avanti sulla strada di un chiarimento dei rapporti tra centro e periferia, totalmente mutati, come neppure sulla strada d'una cultura di valore antropologico, a trecentosessanta gradi, nella quale ogni evento formale è un brano dei processi di umanizzazione, di "incivilimento" degli spazi e delle comunità. Un nuovo IBC dovrebbe scendere sul campo e lavorare sul campo, forse per modelli di sondaggio, più che per generalità (a queste deve pensare il Ministero per i beni culturali, tutore della legge, almeno finché dura). Ho sempre pensato che quella dell'IBC sia necessariamente un'attività di sperimentazione. E in questo senso credo che quasi tutto sia da riprendere e da tentare.
Fanti
Ben vengano quindi una revisione e un ripensamento sul ruolo e sulle funzioni dell'IBC. Ma, attenzione: a condizione che quelli siano rivolti ad una conferma e ad un rilancio di questi, con grande impegno e rinnovata volontà di assicurare alla Regione una presenza altrettanto valida e necessaria quale l'Istituto ha saputo assicurare nel suo periodo d'oro. Anzi questo rinnovamento va certamente posto in relazione con i profondi mutamenti che sono avvenuti nel corpo sociale, economico e culturale della Regione, e soprattutto con le nuove potenzialità che la riforma federalista della Costituzione rende possibili e necessarie. Per questo propongo che si apra un dibattito che faccia uscire dal chiuso delle stanze delle sedi istituzionali una riflessione seria e completa su di un tema così delicato e importante.
Gambi
Nei processi di revisione in corso vedo alcuni gravi rischi. In primo luogo quello di un'assimilazione - o più propriamente fagocitazione - dell'Istituto da parte degli organi governativi della Regione, sotto forma di agenzia. Il secondo rischio è la scomparsa del consiglio di amministrazione investito di compiti scientifici, e la istituzione in sua vece di un anodino comitato tecnico-scientifico, privo di poteri decisionali. Ho accennato, nella risposta alla prima domanda, all'esperienza non positiva dei pletorici e complicati consigli e comitati creati dalla legge 26 agosto 1974, n. 46; ma con energica convinzione devo sostenere che in un organo come l'Istituto per i beni culturali un comitato scientifico ristretto e selezionato (fra le cinque e le otto persone), costituito da esponenti autorevoli di campi disciplinari diversi, è indispensabile e inderogabile. I compiti dell'Istituto per i beni culturali non si possono lasciare nelle mani di un sistema puramente burocratico, soluzione questa che sostanzialmente si risolve in un centralismo governativo della Regione.
È giusta, invece, la ricerca di una migliore, più chiara e razionale definizione dei rapporti fra le funzioni di programmazione della Regione e le funzioni scientifiche dell'Istituto: migliore definizione che potrebbe consistere nel fatto di assegnare alla Regione la formulazione dei programmi-quadro per i grandi temi di natura economica, urbanistica, sociale, ambientale ecc., e di assegnare all'Istituto - naturalmente per i suoi campi di pertinenza - l'istruzione e la traduzione particolareggiata, a scala subregionale o locale, dei disegni programmatori. Con una soluzione di questo genere, precisa e discriminativa, vedo superato il timore di eventuali travalicamenti da parte dell'Istituto nel suo compito di supporto tecnico-scientifico a sostegno dell'azione di programmazione della Regione.
Gherpelli
I ripensamenti periodici sono parte integrante della vita di ogni istituzione. È giusto sottoporvisi con serenità. Senza potere entrare nel merito dell'attuale processo, che non conosco, posso solo augurarmi che l'Istituto operi in modo da non dare a nessuno il pretesto per ridurlo al rango di un problema da risolvere amministrativamente.
Guerra
Anche a me sono giunti segnali e voci di un processo di profondo ripensamento del ruolo e delle funzioni dell'IBC. Non conosco ancora nessun testo preciso, ma riesco ad intuire soltanto linee di una tendenza regionale apparentemente o realmente accentratrice, decisamente contraddittoria con lo stesso concetto di un certo "federalismo" decantato. Al di là di un dibattito interessante sulle funzioni, che in alcuni casi postulerebbero anche una revisione più quantitativa che qualitativa, sento di dover esprimere un'opinione decisamente contraria al ripensamento del ruolo. Dalle nubi che appaiono all'orizzonte si accentua un'inversione di tendenza, già tentata in precedenza.
Si pongono allora alcuni inquietanti interrogativi. La Regione, sulla base dei suoi indiscussi "indirizzi", vuole sviluppare diversamente le attività dell'IBC o non vuole perseguire invece il fine di gestire direttamente, ossia centralisticamente, il tutto da parte di un assessorato? In quest'ultimo caso è ancora gradito o sopportabile un IBC con "personalità giuridica" e con "autonomia statutaria ed organizzativa"? Non sarebbe forse soppressa l'autonomia di un IBC guidato unicamente da un direttore nominato dalla Giunta regionale, senza un autonomo presidente ed un autonomo consiglio direttivo nominati dal Consiglio regionale?
Questi interrogativi nascono dall'amaro stato d'animo di molti, che da sempre sono profondamente convinti che in Emilia-Romagna, e in Italia, la libertà della cultura passa anche attraverso l'autonomia di organi come l'IBC a Bologna ed il Ministero per i beni culturali a Roma. In caso contrario si mortificano libertà ed autonomia per moltiplicare gli uffici degli assessorati regionali e dei ministeri nazionali.
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