Rivista "IBC" IX, 2001, 4

linguaggi, media

Il testo moltiplicato

Federico Pellizzi
[docente di letteratura e informatica presso il Dipartimento di italianistica dell'Università di Bologna]

Lo studioso di comunicazioni Neil Postman avvertiva, quasi un decennio fa, commentando la querelle degli anni Cinquanta e Sessanta sulle "due culture" (la scientifica e l'umanistica), che in realtà "la disputa non è tra umanisti e scienziati ma tra la tecnologia e chiunque altro". Uno dei protagonisti di quella disputa, Charles P. Snow - scienziato, politico e romanziere inglese - nella sua celebre conferenza The Two Cultures and the Scientific Revolution più che la frattura tra scienze e lettere mise in evidenza le difficoltà della cultura contemporanea ad investirsi del problema antropologico dell'uso, della conoscenza e della valutazione delle cose. L'incapacità di comprendere le "cose", in epoca moderna, sembra aver riguardato più la cultura degli ultimi due secoli che dei due precedenti. È un problema relativamente recente, che forse si presenta ogni volta che le "cose" occupano uno spazio considerevole dell'ambiente vitale del genere umano. Aumenta a dismisura la catena tecnologica di oggetti che si pongono tra lo strumento e l'effetto, e diminuisce proporzionalmente la possibilità per un individuo mediamente colto di comprenderne anche solo qualche minimo tratto.

Pochi "scienziati" contemporanei sanno, per dire, come (cioè attraverso quali "cose") si amministra il complesso delle acque che beviamo, o come si rilega un libro, o come si produce un bottone - per fare un esempio caro a Snow. Forse in effetti si rompe l'equilibrio tra il compito della tecnologia - nascondere - e il compito della cultura - mostrare. La tecnologia prende gaiamente a mostrare, mansione che non le compete, certi orrori, in simbiosi quasi perfetta con il mondo dei media; la cultura comincia a scollarsi, a nascondere quello che non sa, affidandosi al disprezzo o al vaniloquio. Sembra che le due vocazioni del sapere, conoscere e riconoscere, si divarichino irrimediabilmente. Il quadro delineato da Snow, di là dagli intimismi, dai moralismi, dallo scientismo sottostante, dalle incongruenze e dalle sfumature apocalittiche che gli sono stati spesso imputati, sembra ancora per certi versi riconoscibile: persiste lo schema educativo della separazione tra il mondo delle cose e il mondo delle idee. Il primo, che potrebbe essere il luogo dove l'intelligenza prende corpo e società, è disprezzato o assume i caratteri di un sapere esoterico; il secondo, a sua volta, diviene una forma particolare di "tecnologia" intellettuale, altrettanto disprezzata o esoterica. Le cose appaiono cieche e le idee vuote come nel famoso enunciato kantiano.

Negli stessi anni della denuncia di Snow, sempre partendo dalla apparente distanza tra saperi scientifici e saperi umanistici, e con l'intento di colmarla, Jerome Bruner, in The Process of Education, voleva mettere in rapporto, nel processo di apprendimento, i due emisferi cerebrali, quello intuitivo-olistico e quello logico-discreto. Tuttavia anche questa prospettiva può sembrarci ora come un tentativo, in fondo, di volere sposare due tecnologie intellettuali, artistico-letteraria e logico-matematica. Ne rimanevano fuori, o rimanevano preculturali, il corpo e la collettività, ovvero i corpi, i sensi, le appartenenze e le identità. La beffa, ovvero la vendetta delle "cose", è che proprio grazie a ciò che oggi si designa con la parola "tecnologia", ovvero il mondo digitale, pare possibile recuperare al sapere anche queste modalità escluse, investendo di senso - di riconoscimento - le scritture e gli oggetti, gli usi e le pratiche. Gli stessi studiosi, scienziati o umanisti, stanno cambiando di fatto il loro modo di fare ricerca, di comunicare tra loro, e di insegnare, ritrovando la necessità di condividere credenze e al tempo stesso di interrogarsi sulle ragioni di tale condivisione. Ma altri esempi che mettono in luce il bisogno di comunità si possono trovare in ogni campo. Quello della musica è forse un caso esemplare: un fruitore che preleva e condivide file musicali con altri attraverso la rete non è mai stato più vicino contemporaneamente al "come si fa" musica - forse apparentemente, ma è la percezione che conta - e all'aspetto comunitario del perché e del come la si sceglie, la si assembla, la si ascolta e la si valuta. Anche la distanza tra chi produce musica e chi la ascolta - effetto dell'ultima modernità, quella di Benjamin e di Adorno - sembra ridursi. In rete fioriscono i premi per la composizione di brani e di opere, e sono rivolti a tutti, come nel caso del "Mp3 Contest 2001", all'insegna del "creare e diffondere musica in modo libero". Tuttavia la strada da percorrere affinché le cose perdano un po' della loro cosalità, e rientrino in circolo, nel circolo della cultura, è in realtà lunga e faticosa.

Fino a non moltissimo tempo fa una buona parte dei cultori delle lettere, soprattutto nel mondo accademico, riteneva che il mondo delle reti, e le nuove tecnologie digitali in generale, fossero un fenomeno appena più profondo del karaoke. Forse molti ancora oggi vorrebbero poterlo credere: sta di fatto che c'è voluto l'investimento dell'economia per convincere quasi tutti che ci troviamo di fronte a un processo irreversibile, anche se nessuno sa dove esso ci condurrà e in che modo. In un certo senso questo dove e come è ciò che gli umanisti potrebbero contribuire a inventare, se banalmente si mettessero a lavorare con questi strumenti senza cambiare il proprio mestiere. Se un poeta orale si mette a scrivere, non è detto che diventi meno poeta: sicuramente sarà un poeta diverso. Così se un maggior numero di critici, di filologi o di scrittori applicasse la propria competenza a nuove forme di scrittura, indipendentemente dall'atteggiamento - spietatamente critico, prudente, entusiasta, ma comunque più consapevole - è indubbio che la qualità media delle produzioni digitali e il livello di comprensione generale di ciò che sta accadendo si eleverebbe (probabilmente con qualche mutazione di prospettiva, ma non necessariamente di mestiere, da parte degli stessi umanisti partecipanti). Troppa fiducia nei critici, nei filologi o negli scrittori?

Il fatto è che l'apparente facilità di questo mezzo può far credere che tutti possano essere all'improvviso critici, filologi, scrittori, e perfino opinionisti, imprenditori, seduttori, capi di stato e terroristi. Mentre è chiaro che le vie per acquisire conoscenza e capacità, nel mondo "reale" e nel mondo "digitale", sono simili, e l'aspirante umanista digitale deve fare il suo apprendistato impegnativo, deve fare esperienza e operare le sue scelte, deve acquisire le competenze attive e passive che gli permettano di muoversi in un certo ambiente e di far uso dei linguaggi adeguati. Per fare l'esempio più banale e limitato, mettiamo che qualcuno voglia trovare in rete elementi essenziali ai fini della ricerca che sta svolgendo: per trovare qualcosa di veramente utile e pertinente deve possedere la competenza culturale per farlo. Ovvero un misto di metodo, pathos e sensibilità applicata che attanaglia qualsiasi ricercatore. E questo atteggiamento gli viene da una frequentazione assidua che investe tanto l'oggetto quanto il mezzo, i contenuti e le forme anche occasionali che incontra e riconosce, come fossero le calligrafie di certe schede antiche, o gli odori dei libri. Non solo, ma la sua competenza deve essere anche maggiore, perché più differenziata: tutte le attività e le transazioni umane avvengono attraverso rituali convenzionali codificati, ma le reti digitali li moltiplicano. Le stesse macchine in rete comunicano tra loro attraverso molteplici protocolli, e gli umani devono aggiungere ai riti vecchi riti nuovi, alle forme vecchie forme nuove. Ma quello che forse è più difficile, è la mediazione tra differenti modalità percettive che, soprattutto in questa fase, convivono. In altre parole, qualsiasi cultura di transizione, come è la nostra, non può fare a meno di ibridarsi, produrre il nuovo attraverso il vecchio, e propinare il vecchio attraverso il nuovo, con buona pace di chi crede di poter rimanere fuori.

Esiste ormai una letteratura sterminata - ma congetturale - sulle trasformazioni mentali e percettive prodotte dalle nuove forme di scrittura e di comunicazione, e proviene tutta, più o meno, da una sorta di storiografia analogica, che prende a modello le trasformazioni provocate dalla scrittura sulle culture orali (Jack Goody, Eric Havelock, Walter Ong), e quelle provocate dall'invenzione della stampa (Lucien Febvre, Henri-Jean Martin, Elisabeth Eisenstein, Marshall McLuhan). McLuhan è stato forse il primo che ha insistito, con geniale rudezza, sull'intero tratto delle analogie e delle dislogie che ci conducono alle soglie dell'era elettrica. Tuttavia l'elemento più caduco della sua teoria non è stato forse l'intuizione fondamentale di una stretta correlazione tra tecnologie e sensorialità, comunicazione e pensiero, bensì proprio l'aver considerato elettricità ed elettronica sullo stesso piano. La seconda permette, a differenza della prima, anche un ritorno alla scrittura, una coesistenza di flusso e reversibilità che non si è mai verificato prima nella cultura umana. E ciò non può non influenzare profondamente anche le possibili letterature.

Ciò che distingue i nuovi media (elettronici) dai vecchi media (elettrici) è che i primi permettono di creare contesti (mentre i media elettrici, quando non digitalizzati - e sono sulla via di esserlo presto tutti - creano situazioni). Tali contesti sono scritture, a tutti gli effetti, perché condividono della scrittura alcuni elementi fondamentali, come la reversibilità, la separazione tra momento della produzione e momento della fruizione, il possibile distacco dal contesto d'origine, la riproducibilità, la distanza tra l'autore e l'opera, ecc. Tali scritture sono, come ha scritto efficacemente Roberto Maragliano, "confederazioni di elementi testuali", cioè strutturazioni stabilite (a dispetto dei cantori della fluidità) di componenti simbolici. Una scrittura ipertestuale cioè, anche solo per ciò che concerne il suo primo livello della scrittura manifesta, di superficie, permette di configurare un'interfaccia (comporre), creare finestre (delimitare, incorniciare), creare collegamenti (strutturare elementi simbolici), costruire livelli (gerarchizzare, organizzare elementi simbolici), e reinterpretare oggetti (simulare). Ci sono diversi gradi di "simulazione", dalla digitalità nella sua essenza (il testo stesso è la simulazione di un testo) a modelli matematici e grafici molto complessi. E tuttavia questa possibilità, nella sua vasta gamma di sfumature, è uno degli elementi caratterizzanti della scrittura digitale.

Ciò che distingue in prima istanza la scrittura digitale dalla scrittura lineare alfabetica, che conosciamo e pratichiamo ancora in maniera preponderante, è che la prima si avvale costitutivamente di tecniche pittoriche (comporre e delimitare), architettoniche (strutturare e gerarchizzare) e drammatiche (simulare). Vengono spesso indicate alcune altre caratteristiche, che sono abbastanza indicative ma molto generiche, e alla fine non rivelano gli aspetti fondamentali della scrittura digitale. Esse sono, secondo le interpretazioni, per esempio, di George Landow e David Bolter, la virtualità, la riproducibilità, la modificabilità, l'incompiutezza, l'essere pubblico del testo digitale contrapposte alla fisicità, non riproducibilità, immodificabilità, compiutezza, e privatezza del testo tipografico. Si tratta in realtà di elementi che dicono poco sul tipo di testualità introdotto dalle scritture ipertestuali, e che richiederebbero inoltre qualche precisazione, per sottrarli alle incrostazioni semantiche che già vi sono applicate.

Virtuale, per esempio, significa semplicemente, in questo contesto, "separabile dal supporto". Tuttavia, limitandosi a tale elenco di caratteri, si rischia di saltare da una sorta di ontologia del bit alla sociologia delle comunicazioni, trascurando la morfologia, i modi di funzionamento, i modelli culturali implicati nelle nuove forme di discorso introdotte dalla rivoluzione digitale. Anche solo sul piano di una descrizione esterna, andrebbe aggiunto che il testo digitale è attivo, inclusivo, stratificato e molteplice. Ovvero è gremito di dispositivi, i pragmemi, che ne permettono la manipolazione e la frequentazione. Ha la facoltà di includere qualsiasi oggetto dentro il discorso. È stratificato perché consiste in un vero palinsesto di scritture e codifiche nascoste, se si vuole, dal codice binario del linguaggio macchina alla codifica dei linguaggi di marcatura, fino alla testualità visibile. Ogni strato influenza il successivo, e anche tale sovrapposizione rende la testualità digitale unica nel suo genere. Per finire, è molteplice, perché è multimodale, cioè plurisensoriale, termine alla fine molto più rigoroso di "multimediale", laddove quest'ultima definizione, benché sia la più diffusa, crea una sostanziale ambiguità non facendo comprendere se la molteplicità riguardi i linguaggi, i codici, i mezzi di trasmissione o di ricezione. Il testo digitale può usare diverse modalità sensoriali: visive, auditive (e si sta pensando anche agli altri sensi), statiche e dinamiche, e inoltre si può avvalere di processi comunicativi differenziati, che si inseriscono nella testualità e convivono con essa (come ad esempio la chat, i mud, ma anche solo la posta elettronica e i moduli, per non parlare dei testi dinamici a richiesta e delle famiglie di linguaggi XML).

Non si sa se tutto ciò possa produrre una forma espressiva più ricca dal punto di vista informativo, creativo e culturale. Questo lo potrà dire soltanto la pratica di scrittura, le opere. Si possono fare tuttavia ancora alcune riflessioni:

1) il regime separativo che si è imposto con la stampa (la divisione tra il testo e la glossa, tra testo e indice, tra testo e illustrazione, tra commento e commento) con l'ipertestualità si dissolve: l'interfaccia tende a riassumere tutte queste funzioni in un solo spazio non euclideo;

2) la modalità di lettura cambia profondamente, perché fa coesistere concretamente, tangibilmente (ossia mediante momenti, simboli, processi differenti) una dimensione riflessiva e una dimensione esperienziale. Se vogliamo la prima è la più vicina alla testualità di tipo tradizionale, e ai generi critici e narrativi, la seconda è più vicina ai generi lirici e drammatici ed è propria della realtà virtuale, ma anche predominante nella maggior parte dei videogiochi. La coesistenza di questi due aspetti, colta sotto diversi nomi da studiosi come Norman, Laurel, Anceschi, Bolter & Grusin, rende l'esperienza estetica di un ipertesto creativo assolutamente unica.

3) la testualità si carica di elementi archivistici. Innanzitutto perché un testo codificato diventa metainformazione, metadato di sé stesso; ma poi perché si dispone ad essere conservato insieme ad altri documenti accessibili, richiedibili secondo criteri che sempre più si stanno specializzando. Questo elemento riguarda anche gli ipertesti creativi, da Hypertext Hotel di Robert Coover a Patchwork Girl di Shelley Jackson, che divengono grandi costruzioni infinite di successive acquisizioni, o repertori di generi letterari, microteatri della memoria.

Tutto ciò fa pensare che si apra un grande spazio per una forma estetica del tutto nuova, che poggia su trasformazioni della discorsività nel suo complesso.

Nel mondo della testualità digitale l'autore è chiamato a farsi editore e lettore di sé stesso, perché deve dedicarsi a scelte e a mansioni che nella divisione del lavoro stabilizzata dell'editoria tipografica erano affidate ad altri. Deve pensare al paratesto senza avere modelli pregressi sufficientemente autorevoli o risolutivi; deve prendere familiarità con le macchine e con le tecniche che permettono di trattare il testo digitale; deve porsi il problema dell'accessibilità al testo medesimo, della sua destinazione e del suo uso con minori certezze e al tempo stesso con maggiore apertura di quanto non avvenga per i canali consueti; deve conoscere gli usi della rete per essere in grado di far leggere agevolmente il proprio lavoro non solo ai lettori umani, ma anche - condizione essenziale e alla fine, se ci si pensa, per nulla inquietante - alle macchine. La stessa editoria tradizionale è ormai completamente digitalizzata, e coinvolge l'autore nella preparazione del testo.

La scrittura digitale, si può dire tranquillamente, ha preso il sopravvento, perché è la modalità di composizione più diffusa, anche se la destinazione finale è la stampa. Sembra che la scrittura sia a portata di tutti. Questa situazione provoca immediatamente due riflessioni che riguardano non soltanto la letteratura, la sua diffusione e il suo mercato, ma la questione dell'accessibilità effettiva della rete in generale, della sua consistenza e della possibilità che divenga davvero un luogo di produzione di cultura (e di quale cultura).

Da una parte va rilevato un carattere della scrittura digitale che viene sempre dimenticato: ossia che essa, per essere fruita, ha bisogno di energia elettrica e di macchinari. Questo va ricordato a chi si illude sulla effettiva democraticità della rete: metà della popolazione mondiale non dispone di energia elettrica. Certamente la rete permette l'accesso al sapere a un numero maggiore di individui rispetto alla costosa carta, e ciò va tenuto in considerazione. Inoltre la tecnologia troverà nuove forme ancora più economiche e veloci: il computer di oggi è in realtà ancora ingombrante e fastidioso. Il nostro personal sembrerà ai nostri nipoti come a noi appare l'ENIAC dalle molte tonnellate e dalle molte stanze: un oggetto dal difficile utilizzo e diffusione. Tuttavia non ci si può non chiedere ad esempio che letteratura sarà quella che si dichiara fin da oggi mondiale e sembra invece soltanto globale. Lo sviluppo della rete è socioculturalmente sproporzionato, e Internet rischia l'implosione se non esisterà una folta schiera di mediatori culturali, di comunità di esperti, di siti prestigiosi che riescano a raccogliere consuetudini di lettura e progetti di valore, e a battere la loro strada indipendentemente dai grossi e piccoli e diffusi o banali potentati politici e commerciali.

Dall'altra parte questa nuova autorialità tuttofare non può che far saltare all'occhio che la rete, com'è ora, è un ammasso di produzioni caotiche con molte belle cose e molte cose ridondanti, inutili e vuote. Per questo c'è un terribile bisogno di mediatori culturali. Chi sceglie, chi valuta, chi discerne nell'infinito oceano delle produzioni autoriali? I motori soltanto? Questo è uno dei più urgenti problemi della rete. E con ciò si torna all'inizio di questo articolo: gli umanisti avrebbero una certa responsabilità.

 

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