Rivista "IBC" IX, 2001, 1
biblioteche e archivi / pubblicazioni, storie e personaggi
"Ci accontentiamo di poche righe"
La crescente proliferazione di archivi letterari (o, in senso lato, culturali), la possibilità di accedere in maniera agevole e diretta a decine e decine di biblioteche speciali e di memorie specifiche, la consacrazione al dominio pubblico di materiali bibliografici fino a ieri riservati alla discrezione della comunicazione privata, mentre continuano a sollecitare fra gli addetti ai lavori un vivace dibattito di ordine metodologico e procedurale, hanno anche concorso ad alimentare quella rigogliosa, pressoché inarrestabile fioritura di pubblicazioni di epistolari e carteggi novecenteschi alla quale assistiamo da alcuni decenni a questa parte (talora, invero, non senza perplessità): un fenomeno, questo, destinato comunque ad incidere in misura sempre più considerevole sullo stesso orientamento degli studi e che ha finalmente cominciato ad essere oggetto di specifiche riflessioni critiche.
Chi volesse con qualche vantaggio fare la storia della questione dovrebbe forse risalire agli ultimi decenni del secolo scorso e soffermarsi, magari, sul clamore e sulle polemiche suscitati dalla pubblicazione di un non esiguo volume di lettere di Aleardo Aleardi procurata da Gaetano Trezza nel 1879, ad un anno appena di distanza dalla scomparsa dello scrittore veronese: edizione che è tuttavia da annoverare fra le prime testimonianze, in Italia, di raccolte in qualche modo organiche di lettere dichiaratamente private di uno scrittore moderno, selezionate e ordinate per una stampa postuma non finalizzata a ragioni di manualistica retorica. S'intende che la natura privata del documento epistolare moderno, ancorché bene spesso trascurata da tanti frascosi e frettolosi manipolatori di carte e improvvisati frequentatori di archivi di scrittori contemporanei, implica una distinzione fondamentale e sempre valida, dalla quale non può procedere qualsivoglia approccio storico, filologico e critico ai carteggi novecenteschi.
Il fenomeno di cui si discorre non è, del resto, privo di qualche risvolto paradossale, ove si pensi, per esempio, alla stravaganza di un mercato editoriale (sia pure, nella fattispecie, generalmente tutelato e protetto), che continua a proporre con ritmo incessante carteggi inediti di quegli stessi autori, anche di riconosciuto prestigio o di accertato valore, i cui testi più significativi sono però quasi tutti spariti da tempo dalla circolazione e dalla pratica della lettura. È il caso, precisamente, di Manara Valgimigli e di Marino Moretti, la cui recente o recentissima vicenda editoriale appare contrassegnata da una parte dalla pubblicazione felicemente in corso di alcuni cospicui carteggi (si citino, per tutti, quelli fra Valgimigli e Baldini, fra Baldini e Moretti, e fra Moretti e Palazzeschi), dall'altra dalla quasi assoluta latitanza di testi, per non dire di edizioni critiche o commentate.
Mentre le fitte pagine del dialogo epistolare che vede ora la luce, illustrato con bravura e competenza - ma anche con lodevole misura - da due esperti cultori di cose valgimigliane e morettiane quali Roberto Greggi e Simonetta Santucci, partendo dalle testimonianze quasi quotidiane di un'amicizia eccezionalmente schietta e solidale, di una lunghissima vita letteraria trascorsa la più parte al tavolo, anzi al tavolino da lavoro, con o senza cassetto (di Marino, Manara: "Ma c'è un Marino annidato in quel nido, tra quel tavolino minuscolo e il canale, e su quello cade il nostro occhio, dico di noi romagnoli [...] e su quello rimane il nostro vecchio cuore"; e di se stesso: "Il mio tavolino, le quattro gambe di legno, un pezzo di carta, solo così posso vivacchiare ancora, alla meglio"), sollecitano l'interesse e la curiosità del lettore non soltanto sul versante biografico, ma anche su quello delle opere, rimandando di continuo alla trama dei testi per precisarne di volta in volta la genesi sentimentale, l'occasione pratica, le vicende compositive, l'elaborazione formale, non esclusa qualche forma di collaborazione (così per esempio Valgimigli, affidando a Moretti la revisione di Del tradurre e altri scritti, lo invita senz'altro ad adoperare "forbici e magari la manèra, e l'accetta e il pennato; tu guarisci, non ferisci! Vedi che bel motto d'annunziano").
Il corpus del carteggio si segnala, innanzitutto, per l'assoluta imponenza quantitativa. I documenti superstiti - distribuiti fra l'Archivio di Casa Moretti e la Biblioteca Classense - assommano infatti a millenovantatre fra lettere, cartoline postali ed illustrate, biglietti e telegrammi (quattrocentottantaquattro dalla parte di Valgimigli, seicentonove da quella di Moretti); un numero imprecisato di missive - soprattutto, come sembrerebbe, di Valgimigli - è andato disperso. Ed è naturalmente la cartolina, anzi la "cartolinetta" postale lo strumento prediletto della comunicazione epistolare (in una proporzione che supera addirittura l'ottanta per cento del totale), in ossequio ad un costume generazionale di discrezione, di frugalità, di parsimonia che tuttavia nel nostro caso sembrerebbe quasi sottendere una comune dichiarazione di poetica: "Anche questa devozione alla cartolinetta onesta e modesta ci accomuna", confessa Valgimigli nel 1961; e Marino: "Ci accontentiamo di poche righe e della cartolina che sa di tabacco. Quella della cartolina è l'economia che mi piace di più".
Una poetica della misura, della "mediocrità", dell'antieloquenza (anche nei confronti della "bolsa e vuota e vinosa retorica romagnola"), sottolineata ogni momento, nella corrispondenza epistolare, dall'abuso del diminutivo o del vezzeggiativo, non soltanto, com'è lecito attendersi, da parte di Marino, ma anche dello stesso Manara (anzi Manarino, anzi Manarèn, come l'amico, pascoleggiando, ama spesso chiamarlo), talora sotto forma di divertita contraffazione, in chiave più scopertamente parodica: "Caro Marino vagabondo, sei tornato a Cesenatico, alla casina tua, alla sorellina tua e al termolino che mormora e non rugge?"; o ancora: "Se tu te ne starai quieto e bonino a casina tua, anche Manarino sarà premiato e avrà il regno dei cieli".
Ed ecco la "letterina", il "libriccino" o i "librettucci", il "volumetto" (dei volumi grossi Valgimigli dichiara senz'altro di aver paura), l'"edizioncina", l'"articoletto", la "paginetta", l'"elzeviretto" o l'"elzevirino" (Manara in una serie ancora una volta toscaneggiante: "ma io qui fermino e bonino a scrivere un elzevirino"), la "colonnina", gli "scrittarelli", l'"archivietto", la "raccoltina", la "relazioncina", il "finalino" (che nella colonna giornalistica di Manara può però diventare un "finalone", secondo il giudizio entusiastico del complice), la "chiacchieratina", i "discorsini", la "frasettina", il "periodino", il "salutino", le "paroline", i "numeretti", il "macchinino" (ed è naturalmente, il "topolino, o sorcetto", la leggendaria FIAT 500 di Manara), lo "studiolo" (della Biblioteca Classense), la "gitarella a Cesenatico", il "grazioso paesetto termale", il "viaggetto", la "visitina", la "fermatina", la "settimanetta" o "settimanina", il "soggiornino", la "passeggiatina", l'"escursioncella", l'"alberghino" o "alberghetto", la "camerina", l'"ascensorino", la "notiziola" (o addirittura la "notiziolinina"), lo "scrignetto", lo "studentino", la "scolarina", la "nuorina", la "pazienzina", il "premiettuccio", l'"impermeabiluccio", l'"imbroglietto", il "quartierino", la "festarella modesta e quieta", ecc.
Ma l'intonazione ironico-nostalgica della diminutio tocca anche alcuni luoghi deputati del paesaggio dell'anima, la "Padovina" e la "Lucchina" di Manara, la "Ravennina nostra" (nel significato precisato da Marino, per altro assai poco indulgente nei confronti dell'"orribile accento di Palserrato": "Nel tuo studio della Classense dove si può ancora sognare una Ravennina principio del secolo come l'hai vista tu da ragazzo e come l'ho vista io scolarino del ginnasio"), la "Romagnina amata ma feroce", come la qualifica il tosco-romagnolo Valgimigli (nostra "ma fino a un certo punto", aggiungerà a sua volta il corrispondente).
La figura della sineddoche (per antitesi nei confronti di quella stereotipa e vulgata dell'iperbole), sembra, lo sappiamo, la più conveniente all'idea di Romagna condivisa pur con sfumature diverse sia da Valgimigli sia da Moretti, l'uno e l'altro assolutamente refrattari a qualsivoglia esaltazione retorica, passata e presente, della romagnolità. Valga la testimonianza di Moretti: "Che dirti dei tangheri nostri conterranei? Buona gente, ma sono insopportabili, specie quando poeti (in dialetto) e letterati, sempre se in funzione d'innamorati della loro terra, dovrebbe essere amata con un certo garbo, cioè con parsimonia, e ammirata cecamente mai" (ecco perché Beltramelli, per esempio, "non ha mai saputo scrivere, nemmeno nei momenti migliori. La 'romagnolità' glielo impediva").
Le dimensioni quantitative della documentazione, insieme a circoscritte ragioni di discrezione o all'eventuale scrupolo della riservatezza, giustificano pienamente la decisione dei curatori di operare una pur larghissima scelta, proponendo la trascrizione integrale di cinquecentoventotto unità epistolari (pari a quasi il sessantaquattro per cento del totale), mentre delle rimanenti si fornisce un utile, accurato regesto (ma più ampie, puntuali citazioni sono prodotte, ogniqualvolta se ne manifesti l'opportunità, nelle note a pie' delle missive).
La corrispondenza abbraccia un arco cronologico di oltre trent'anni: risale infatti al 5 gennaio 1935 la prima cartolina illustrata sottoscritta da Marino Moretti (il tono già confidenziale prelude all'imminente passaggio al tutoiement); mentre un telegramma di Giorgio Valgimigli il 28 agosto 1965 annuncia la morte del padre sopraggiunta a Vilminore di Scalve in quella medesima notte. Ma è bene precisare che più dell'ottanta per cento delle lettere risultano scambiate nello spazio del solo decennio 1954-1963, e ben seicentonove unità epistolari, pari a più del cinquantaquattro per cento del totale, appartengono al lustro 1955-1959.
Nel 1952 era morto Pancrazi, il più "quieto e serenante" (Valgimigli), "il più caro e il più saggio" (Moretti) degli amici, il solo rimasto, fra i critici, a "prediligere, in un quasi pudico riserbo, la parola semplice, arguta, chiara" (Moretti). Il 27 settembre 1955 le dimissioni di Valgimigli dall'incarico di direttore della Classense pongono fine a un settennio di assidue frequentazioni e di care consuetudini, di vicinanza "anche col pensiero, anche con l'animo", fra la casa del porto-canale e la solitudine e la tristezza del chiostro. Dalle "bestie velenose della jungla ravennate", dalla "triste e mediocre", "torpida", "brumosa" Ravenna (promossa a "diventare una città professorale universitaria, ne sarebbe degnissima", secondo il giudizio impietoso e sarcastico di un maestro che aveva però sempre rifuggito la noia del "professorame" e dell'accademia), quell'anomalo e provvisorio bibliotecario aveva continuato a guardare a Cesenatico come ad una sorta di appendice di Ravenna: "Il pensiero di te a Cesenatico, sul canale, è l'unico che dia consolazione al mio soggiorno ravennate".
L'amicizia letteraria illustrata dal presente carteggio riguarda dunque la senilità dei corrispondenti (Manara, classe 1876, è più anziano di quasi dieci anni), l'uno e l'altro sempre prossimi a comporre ma anche a continuamente procrastinare il proprio canto del cigno (ma "tu sei e sarai sempre un polledro a coda ritta", dichiara Valgimigli nel 1963 all'amico ritornato ancora una volta, a settantotto anni, a battere il "faticoso" lastrico parigino in compagnia di Aldo Palazzeschi, con lo spirito "sempre pronto a capire, a carpire, e l'orecchio sempre teso alle voci, specie della strada").
Per quanto concerne l'attività letteraria dei due scrittori, sono anni, questi, ancora straordinariamente felici, contrassegnati dall'opportunità che ad entrambi ora si presenta di poter scrivere, finalmente, in proprio: "Scrivere in proprio, che bella cosa! In certi momenti penso ancora a 73 anni, che nulla c'è di più bello", cartolineggia Moretti nel 1958. Per Valgimigli essi coincidono, almeno in parte, con una più libera pratica della scrittura elzeviristica ("Tengo molto alla medaglia d'oro di eroismo elzeviristico di cui mi pregiavi", confessa all'amico nel 1958), col rinnovato abbandono ad una "segreta eleganza d'artista", vale a dire ad una "eleganza morale", per usare le parole del sodale, alla sapienza, maturata attraverso la lezione dei classici greci e l'insuperato esercizio del traduttore, "di dir tanto, in poesia, con così poche parole, nell'apparenza, con sì scarsi mezzi", al segreto della parole "modeste" ("Bisognerebbe lodare te non per un aggettivo o altra parola che fosse scesa col tuo inchiostro, ma per tutte quelle che non hai neppure avuto bisogno di scrivere"); mentre il corregionale non ha neppure varcato la soglia pubblica di quella che si viene però già delineando come un'estrema, prodigiosa stagione di rinnovata creatività poetica.
Se di tramonto volessimo allora parlare dovremmo riferirci, caso mai, al mutato contesto di una società letteraria e di un'industria culturale dalle quali i due amici si sentono sempre più distanti, per non dire emarginati. Ormai i giornali, scrive Moretti il 18 ottobre 1856, "col loro inchiostraccio, con la loro cartaccia, coi loro fattacci e la loro robaccia, guastano tutto. Una cosa letteraria bella è sempre delicatissima e non si può leggere che in volume o in una rivista a modino". Di qualche interesse potranno risultare sicuramente le testimonianze relative alla cessata collaborazione di Valgimigli al "Corriere della Sera" e ai contrastati rapporti con quello "squacciarello della più bell'acqua" di Mario Missiroli, secondo la definizione di Moretti. "Quello è un matto. Come se scrivere fosse fare la pipì". Lo spettacolo quasi quotidiano di tante "cose alquanto bruttarelle, cose d'oggi", di gente "stupida e maligna" che "ha perduto ogni pudore", accomuna i due corrispondenti nella convinzione di essere rimasti, di brava gente, "pochi pochini", "sempre più pochi"; al punto che Moretti sente il bisogno di sottolineare con enfasi, in una lettera del 1958: "Nessuno è come noi. Noi siamo soli in tutta Italia, perbene, quasi perfetti... Bada, scherzo, ma non tanto. Per il solo fatto che siamo diversi da tutti gli altri (e metti i nomi che vuoi) noi siamo rispettabili come quasi nessuno".
Una solidarietà e una confidenza vieppiù rinsaldate dal "sacro fuoco [...] per la fedeltà letteraria", dalla comune devozione alla religione delle lettere (che al pari di ogni altra religione è in primo luogo "tradizione e rispetto di ciò che sentirono e fecero i padri e gli avi"), da un sentimento acutissimo, dunque, della tradizione, in particolare di quell'eredità ottocentesca carducciano-pascoliana - e per Moretti anche dannunziana - che la scena contemporanea della letteratura militante aveva già da tempo finito di liquidare, come sembrano confermare le quasi concomitanti celebrazioni del cinquantenario della morte di Carducci e del centenario della nascita di Pascoli alle quali, pur con responsabilità e ruoli diversi, partecipano attivamente sia Valgimigli, sia Moretti (fra gli aspetti meno noti del pascolismo morettiano, si segnala la parte da lui avuta nella revisione del "mariulesco malloppo" del volume Lungo la vita di Giovanni Pascoli). In verità il loro cuore, per citare ancora una volta Moretti, continua a rimanere "di là", nel vituperato Ottocento, come accadeva per Pancrazi, come accadeva "per chi scriveva prima dell'ultima guerra", quando, osserva sempre Valgimigli in una lettera del 1953, "lo stacco fra Ottocento e Novecento, nonostante i molti speculatori in vedetta, non era così palese e scoperto come si è rivelato o è divenuto dopo; ora è abisso e voragine, non so che di rapina e furore". E se il sampierano può rallegrarsi di essere "critico necrologico", di occuparsi cioè "di poeti morti, non di poeti vivi; e da quanti più secoli morti meglio è", Moretti per parte sua non perde occasione per esprimere le proprie riserve nei confronti della "vantata grandezza" e della "sottile industria" dei lirici nuovi, di Quasimodo traduttore dei lirici greci, di Auden premiato dall'Accademia dei Lincei, di Montale, soprattutto, il cui antipascolismo "sarebbe più genuino se avesse origini meno... antipatiche. È questo insomma un suo modo di reagire a coloro che credono, non so con quanta ragione, la poesia moderna influenzata o almeno preannunziata dal Pascoli" (ma lo stesso Cecchi appare a Valgimigli come "il pontefice massimo e disumano della letteratura vile delle capitali: io sono di San Piero in Bagno e tu di Cesenatico; io da ragazzo ho vissuto coi boscaioli e tu coi pescatori").
Eppure i due compagni di penna sono entrambi ben consapevoli che la loro vecchiezza, come è di "buona gamba", così "non è quella degli occhi lucidi"; che la loro amicizia si regge anche sull'allegria, è cresciuta "sotto le grandi ali iridate dell'arguzia (in una terra che arguta non è)", come Moretti sente più volte il bisogno di ribadire: "Io fui tacciato un giorno di lacrimoso: forse a torto, e ti son grato, Manara mio, che tu mi renda oggi giustizia affermando con la tua autorità che io rido, non piango".
Mentre celebra gli ottant'anni dell'amico con un elzeviro intitolato Allegria per Manara, lo scrittore di Cesenatico - titolare, insieme alla sorella Ines, della dedica al Carducci allegro - sulla scia de I grilli di Pazzo Pazzi inaugura il suo "terzo tempo" letterario all'insegna della "carnevalizzazione", dello stile comico, del contrappunto epigrammatico, del divertimento, dello scherzo: "Tento il tono di scherzo [...] perché io non so scrivere ormai che così e mi pare impossibile prendere sul serio le cose, certe cose", egli scrive in una lettera del 2 marzo 1956. In un'altra lettera dichiara di non comprendere "come si debba sempre pensare a lettori seri, molto seri, troppo seri", oppure annuncia: "Ma sai che è divertente non saper più scrivere? Almeno è una cosa nuova!", essendo fortemente convinto che "quando si lavora, bisogna anche divertirsi".
L'ottantasettenne Manara, da parte sua, consegna ad una lettera del 13 gennaio 1963 questo divertito ritratto di sé: "Io qui da Padova posso allineare le dita delle due mani col pollice di una su la punta del naso e suonare il piffero". Non aveva iniziato, o quasi, la sua carriera letteraria - come lo stesso Marino ricorda in una delle sue prime lettere - collaborando ad una rivistina partenopea che mutuava da Annibal Caro gli umori faceti ed il titolo di "Mattaccini"?
Ancora per poco l'arguzia e l'allegria riusciranno a contrastare la disperata realtà della "turpis senectus", del cui procedere inesorabile l'ultima sezione dell'epistolario offre testimonianze malinconiche ed eloquenti. Le ragioni anagrafiche, s'intende, non ne distribuiscono egualmente il peso sulle spalle dei due corrispondenti. La malinconia di Moretti può assomigliare, magari, a una sorta di "incimurrimento", quella di Valgimigli assume ben presto i caratteri di una "malinconia mortale", diventa, a tratti, disperata e feroce; persino le pur "così belle" sere estive trascorse nella quiete operosa della casa padovana, "con intorno queste corone di pinnacoli rossi", diventano ora per lui "così tremendamente buie di silenzio e di solitudine". Già nel 1955 egli si accorge che "chi ha la disavventura di vivere oltre il giusto, non solo si vede morire intorno persone care, ma anche se stesso nelle proprie cose e nel proprio lavoro" (nel 1957 muore Concetto Marchesi, che "era, oltre tutto, un uomo" come suona, in lingua romagnola, l'encomio lapidario di Moretti).
Sopraggiunge anche l'ora dell'addio ai monti: "Stamattina all'alba, in una rottura di nubi che coprivano il Pèz, il Pèz mi s'è mostrato su una parete della cima, rosso di sole. E ci siamo salutati. E abbiamo discorso di anni per me assai lontani e diversi, per lui né lontani né diversi". L'invecchiare, confessa Valgimigli nel 1960, "a certi momenti è come di uno che, scendendo, fa più scalini a precipizio; poi si ferma e riprende il normale andare, ma al punto di prima non risale più". Non può più bastare il compenso di "stare bene", di "non avere niente", perché "in questo niente c'è il vuoto e il nulla", perché c'è una morte che "precede la vera e consolatrice morte, e come questa sarà placida e bella, tra il nulla e nel silenzioso nulla, altrettanto fastidiosa è quella". Immutata, fino alla fine, rimane la fedeltà alla disciplina del lavoro e dell'amicizia.
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