Rivista "IBC" VIII, 2000, 4

biblioteche e archivi / media, interventi

Accesso vietato / Accesso allargato

Michele Santoro
[presidente della Sezione Emilia-Romagna dell'Associazione italiana biblioteche]
Si parla ormai - senza più bisogno di usare le virgolette - di rivoluzione digitale per indicare le conseguenze prodotte dalle nuove tecnologie su tutti i settori della società e della cultura contemporanea. Come in ogni rivoluzione i cambiamenti sono sotto gli occhi di tutti, talmente evidenti e riconoscibili da non destare quasi più sensazione: pensiamo a fenomeni quali l'e-commerce o il trading on line, come ormai si chiamano con gli inevitabili anglicismi; ma pensiamo anche, in una prospettiva più specificamente documentaria, al mutamento intervenuto nei supporti dell'informazione, cosa che sta trasformando in modo radicale il nostro approccio nei confronti della comunicazione scritta e della sua organizzazione in biblioteca.
Ed è proprio la biblioteca il luogo - non solo fisico o istituzionale ma propriamente logico-concettuale - in cui sono messi a reagire una serie di componenti che oggi, in quanto bibliotecari, riconosciamo e accettiamo non come esoteriche novità ma come aspetti concretamente legati alla nostra attività di professionisti dell'informazione. Da almeno un decennio infatti ci siamo esercitati su concetti quali biblioteca senza pareti, biblioteca elettronica, biblioteca virtuale, biblioteca digitale, biblioteca ibrida e finanche metabiblioteca, esplorandone i confini, sviscerandone le tematiche, sondandone le profondità; e se certo non siamo riusciti a pervenire a definizioni univoche, ne abbiamo comunque tratto la consapevolezza che ci stavamo muovendo su percorsi realmente diversi, che stavamo affrontando problematiche decisamente innovative, che stavamo maneggiando strumenti originali e complessi, che andavano addomesticati e resi familiari per poterli utilizzare a vantaggio degli utenti.
Abbiamo tremato al pensiero di non riuscire a mantenere le nostre specifiche professionalità e la nostra stessa funzione di bibliotecari nel momento in cui lo spettro della disintermediazione - ossia la perdita del ruolo di intermediari fra i documenti e l'utenza, dovuta all'incalzare alle nuove tecnologie - si aggirava inquietante sulle nostre grandi e piccole biblioteche.
Abbiamo affrontato le contrapposte tempeste psicologiche scatenate da un lato dal nostro sentirci inadeguati nei confronti delle innovazioni tecniche (ciò che, con l'immancabile anglicismo, è stato definito technostress), dall'altro da quel senso di onnipotenza e beatitudine che le forme digitali riuscivano a produrre in alcuni di noi (e che, allo stesso modo, è stato chiamato technolust).
Abbiamo insomma ricevuto la netta sensazione di trovarci di fronte ad una svolta, non sappiamo quanto epocale ma tuttavia notevolissima nelle sue proporzioni e conseguenze. E così la riflessione si è accentrata su alcuni nuclei tematici che in misura crescente hanno informato il nostro "fare" biblioteca ed il nostro "essere" bibliotecari: le strategie dell'accesso, e dunque l'utilizzo sempre più ampio delle risorse remote; i processi di digitalizzazione, ossia la traduzione in veste elettronica delle forme documentarie le più diverse, dai preziosissimi codici miniati medievali ai poverissimi quotidiani stampati su carta acida dell'Ottocento. E poi, last but not least, l'impiego "dinamico" dei nuovi supporti dell'informazione, primi fra tutti i periodici elettronici, capaci di catturare l'attenzione delle diverse fasce sociali (se è vero che la loro proliferazione sulla rete non conosce soste) e in grado di modificare sensibilmente gli approcci percettuali e conoscitivi ai testi ed ai loro contenuti.
In tale contesto non è ozioso interrogarsi su quale ruolo vada oggi riconosciuto a quelle biblioteche che sono istituzionalmente legate a un territorio, o per meglio dire che fanno del territorio la loro radice costitutiva, la loro identità prima: insomma tutte quelle biblioteche che, a rigore, dobbiamo definire "pubbliche".
Non è nostra intenzione in questa sede dare risposta ad una problematica così impegnativa e complessa; vorremmo invece richiamare un paio di episodi decisamente minori ma che, nella loro marginalità, possono darci un quadro assai più nitido e vivace di quanto riescano a farlo approfondite analisi e verbose teorizzazioni.
Per far ciò, dobbiamo ritornare un po' indietro nel tempo e precisamente alla metà dell'Ottocento, quando negli Stati Uniti e parallelamente in Gran Bretagna nasce la biblioteca pubblica nel senso moderno del termine, intesa cioè come una sorta di agenzia, aperta a tutti i cittadini senza distinzione di età, sesso, grado di istruzione e condizione sociale, finanziata con fondi pubblici e finalizzata all'acquisto di raccolte librarie in grado di soddisfare i bisogni di un'utenza vasta ed eterogenea.
Fra gli eventi che hanno caratterizzato la vita delle public libraries un forte rilievo rivestono le donazioni di Andrew Carnegie, il quale fra il 1874 al 1919 contribuisce con oltre quaranta milioni di dollari alla costruzione di circa duemila biblioteche negli Stati Uniti e in altri paesi. Di recente anche Bill Gates, presidente della Microsoft, ha annunciato due programmi di donazioni in favore delle biblioteche pubbliche: uno di duecento milioni di dollari dai fondi della Microsoft Corporation e l'altro di analogo importo dal proprio patrimonio personale, allo scopo di fornire le tecnologie digitali e l'accesso ad Internet per quelle biblioteche che ancora ne fossero prive.
Naturalmente negli Stati Uniti questo annuncio è stato accolto da alcuni con notevole scetticismo ("un'operazione volta a legare le biblioteche pubbliche alla Microsoft"), da altri con aperta ostilità ("un pagamento per l'acquisto delle biblioteche pubbliche"). Ora, per quanto è presumibile che Bill Gates non sia altrettanto disinteressato di Andrew Carnegie nella elargizione di tali somme, possiamo tuttavia credere alla sua buona fede quando sostiene che le tecnologie digitali rappresentano un rilevante elemento di sviluppo per le biblioteche; in ogni caso è interessante che l'uomo più ricco del mondo abbia scelto proprio le biblioteche pubbliche come oggetto della propria attività filantropica, specie in un'epoca di cambiamenti così profondi nel mondo dell'informazione e della comunicazione.
Ma, per tornare all'origine delle public libraries, sappiamo che in Gran Bretagna esse nascono in seguito alla presentazione di una proposta di legge che concede ai comuni la possibilità di riscuotere un'imposta pari ad un penny per ogni sterlina effettivamente tassabile, da destinarsi alla costruzione di biblioteche pubbliche; così nel 1850 viene approvato il Public Library Act, che sancisce il principio del finanziamento pubblico delle biblioteche, della loro gestione da parte delle autorità municipali e della loro disponibilità per tutti i cittadini. In seguito all'applicazione della "tassa del penny", tra il 1897 e il 1913 sono ben duecentoventicinque le biblioteche in funzione in Inghilterra e nel Galles. Oggi il governo americano, per favorire l'estensione delle reti telematiche e delle risorse digitali, sta lanciando una serie di programmi su scala nazionale e fra questi la "tassa del bit", ovvero il versamento di un centesimo di dollaro per ogni cento messaggi di posta elettronica praticati, al fine di agevolare tutte quelle strutture - e fra queste le biblioteche pubbliche - che ancora non sono dotate di un adeguato equipaggiamento tecnologico.
Questi piccoli esempi in realtà ci dicono dell'interesse che le biblioteche pubbliche suscitano nel rinnovato contesto digitale; è opinione di molti osservatori peraltro che le tecnologie elettroniche e le reti telematiche siano in grado di ampliare le prospettive delle biblioteche pubbliche, ridefinendone la missione in termini di un accesso quanto mai vasto, senza preclusioni di sorta, a qualsiasi tipo d'informazione disponibile su qualsiasi supporto.
Se ciò è vero la conseguenza è che in misura crescente le biblioteche pubbliche dovrebbero configurarsi come una rete di protezione per tutti coloro che sono privi di informazione ovvero, come ormai si usa dire, per l'intera fascia degli information have-nots: una categoria che può apparire paradossale in una società che definiamo dell'informazione, ma che invece risulta sempre più ampia e diffusa. Difatti anche nelle situazioni più avanzate tecnologicamente, sono molte le realtà che rimangono prive di informazione: non a caso si parla della great digital divide, la grande barriera digitale, ossia il solco che separa chi ha il computer da chi non ce l'ha, chi sa usare le nuove tecnologie e chi non ne è capace o non è messo in grado di farlo.
Della barriera digitale si sono occupati di recente due rapporti, uno delle Nazioni Unite e uno del Dipartimento del commercio americano, che descrivono il divario fra information-haves ed information have-nots: il numero dei computer è in crescita esponenziale ed aumentano sempre più le connessioni ad Internet, ma cresce anche la distanza fra i "privilegiati del progresso tecnologico" e la massa di persone che la rivoluzione digitale sta trasformando in una nuova categoria di emarginati. Da questi rapporti si evince che il tipico utente della rete è maschio, ha meno di trentacinque anni, ha una laurea, un reddito elevato e una buona conoscenza della lingua inglese: ovviamente un'esigua minoranza della popolazione mondiale.
Allora come fare per "recuperare all'informazione" la grande massa di persone che pure ne avrebbero diritto? A questo interrogativo le biblioteche pubbliche, anche nel nostro paese, possono fornire una precisa risposta. Difatti, se è vero che in Italia le biblioteche locali scontano un ritardo tecnologico piuttosto grave se misurato con quanto avviene in altri paesi, è anche vero che esse hanno tutti i requisiti per farsi garanti della diffusione dell'informazione fra tutti quei cittadini che oggi ne sono privi.
Ciò, a nostro avviso, può avvenire su due piani fra loro strettamente correlati: da un lato accentuando sempre più la dimensione sistemica propria di strutture che hanno il loro fondamento sul territorio, e dunque incrementando forme di cooperazione interbibliotecaria a livello organizzativo, finanziario e gestionale; dall'altro lato familiarizzandosi con gli strumenti dell'information technology, facendoli propri, incorporandoli nella compagine operativa al fine di sfruttarne i vantaggi in termini di celerità e di completezza dell'informazione e rispondere così alle necessità di tutte le fasce di utenza, reale e potenziale, locale e remota.
I vantaggi di un accesso il più possibile ampio alla rete appaiono infatti evidenti e si possono indicare, come è stato fatto di recente, nella quantità di documenti utili presenti su Internet in rapporto alla non elevata disponibilità di materiali che di norma sono posseduti dalle biblioteche; o nel fatto che le informazioni gratuitamente reperibili sulla rete siano per buona parte adatte ai bisogni di una biblioteca pubblica; o alla possibilità per il bibliotecario "di base" di sentirsi parte di una comunità "virtuale" con cui confrontarsi e discutere del proprio lavoro; o nell'opportunità di sperimentare forme di digitalizzazione e di pubblicazione su Internet di fondi e materiali d'interesse locale; per non parlare dei vantaggi che vengono dalla presenza di una buona pagina Web quale porta d'accesso alle risorse e ai servizi della biblioteca.
In realtà progressi non piccoli si stanno realizzando anche nel nostro paese, e segnatamente nel nostro territorio regionale; fra i più significativi indichiamo la rinnovata consapevolezza "sistemica" dei circuiti bibliotecari locali, e dunque la necessità di un reale approccio cooperativo e di una adeguata valutazione dei servizi; la presenza di una nuova legge regionale per le biblioteche (la 18/2000); la piena operatività dei poli SBN, a cui oggi si affianca la creazione di infrastrutture provinciali di rete al servizio delle realtà bibliotecarie locali: una serie insomma di punti e di nodi strategici che valgono a consolidare quel ruolo di "servizio agli altri" che, anche nell'era digitale, è la vera ragion d'essere di una biblioteca.

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