Rivista "IBC" VIII, 2000, 3
corrispondenze, inchieste e interviste
Gli Istituti di cultura italiana, in quanto organi statali dipendenti dal Ministero degli affari esteri, sono chiamati a rappresentare il nostro paese all'estero in una poliedrica gamma di settori, dalla letteratura, alla lingua, al cinema, alle arti visive, all'architettura e al design, alla moda e alla cucina. La loro distribuzione in diverse località geografiche del globo varia notevolmente adeguandosi anche, nelle proprie offerte culturali, alle caratteristiche delle regioni ospitanti. In un periodo storico in cui gli scambi, ma anche gli scontri, culturali si fanno sempre più frequenti e veloci, accompagnati da quella rivoluzione epocale che si definisce globalizzazione, occorre forse considerare con maggiore attenzione il ruolo di queste istituzioni di rappresentanza, a cominciare dai paesi che hanno una maggiore influenza a livello internazionale. Negli Stati Uniti ne esistono cinque, due sulla East Coast, a New York e Washington, uno nel Midwest, a Chicago, e due sulla West Coast, a San Francisco e Los Angeles.
Dal 1999 Guido Fink, noto americanista di adozione emiliana, nonché critico cinematografico molto apprezzato, dirige con entusiasmo l'Istituto di cultura italiana di Los Angeles, attivo già dal 1986. Vista la rilevanza dell'industria cinematografica in questa regione, la presenza del professor Fink a Los Angeles è particolarmente in linea con i suoi interessi professionali. Recentemente lo abbiamo incontrato al Westwood Village, dove l'IIC (Italian Institute of Culture) ha la propria sede in un edificio in stile angelino degli anni Cinquanta, e gli abbiamo chiesto di parlarci di questo incarico, delle iniziative a cui ha contribuito sin dal proprio arrivo, dell'utenza dell'istituto e più in generale di come le culture americana ed emiliana si intersecano e si influenzano a vicenda.
Cosa rappresenta questo ruolo nella sua carriera? Cosa
si aspettava da questo incarico?
La mia carriera è stata sempre all'insegna della schizofrenia. Da una parte c'era l'amore per il cinema che mi portava in una direzione molto diversa da quella di insegnante, mentre dall'altra c'era la carriera accademica che ho intrapreso prima come anglista poi come americanista. All'epoca non si insegnava cinema nelle scuole e tanto meno all'università. Mi ricordo che ogni anno il professor Carlo Izzo, con cui mi ero laureato, mi diceva che avrei dovuto scegliere, ma io non mi decidevo mai. Non mi dispiace però che sia accaduto così. A me piace avere interessi diversi in molti campi.
Un ulteriore argomento di complicazione nella mia carriera è stata proprio l'America, dove ero venuto varie volte in gioventù. Siccome allora non c'erano tante borse di studio per americanisti, io ci venivo come italianista, venivo cioè ad insegnare l'italiano. Qui dovevo saper molto dell'Italia, mentre in Italia ero americanista ed ero interpellato come tale. Ho insegnato sette anni in questo paese, anche qui a Los Angeles, quindi sono sempre stato abituato a guardare al di là dello steccato. Ma questo lavoro è stato del tutto inatteso. Un carissimo amico mi ha segnalato la disponibilità di questo posto, cercavano qualcuno che sapesse qualcosa di cinema e sapesse decentemente l'inglese. Ho fatto l'esame al Ministero degli esteri e mi hanno selezionato. Cosa mi aspettavo da questo incarico? Un'altra esperienza, un cambiamento, e anche un ritorno in questa città dov'ero stato da ragazzo e di cui avevo dei bei ricordi.
Quali sono le iniziative più rilevanti che ha
intrapreso da quando è arrivato a Los Angeles? Qual è il segno distintivo
della sua direzione? Penso alla posizione particolare che questo istituto
italiano occupa negli Stati Uniti. Dire Los Angeles è pensare ad Hollywood...
Mi sembra di avere presentato finora iniziative un po' diverse da quelle dei miei predecessori. Fino a pochi anni fa questo istituto era molto più frequentato dalle comunità italiane e quasi da nessun americano: io ho cercato di agganciare una clientela americana, e mi pare di esserci relativamente riuscito. Grazie al cinema, ma non solo. Chi mi ha dato questo incarico si aspettava che io lavorassi sul cinema, senza trascurare concerti e mostre ovviamente. Ma il cinema è uno dei campi che conosco meglio. Siamo fortunati ad avere una nostra saletta, la Sala Rossellini, dove possiamo proiettare i film che vogliamo e che possiamo avere. Recentemente abbiamo portato con molto successo una serie di film di giovani registi italiani come Giacomo Campiotti, Gianluca Tavarelli, Ligabue ed altri. Una delle nostre manifestazioni più importanti sul cinema è "Venezia a Hollywood", che facciamo in collaborazione con Renzo Rossellini. Per questa iniziativa, che esisteva già prima del mio arrivo, scegliamo tra i film italiani presentati alla Biennale quelli che ci sembrano più interessanti e li portiamo qua, in genere con successo.
Sempre parlando di cinema si può dire che qui le occasioni non manchino. La speranza dei nostri registi è arrivare qui, non tanto all'Oscar ma almeno, e non è facile, alla distribuzione nelle sale. Noi non abbiamo nessuna difficoltà ad inserire i nostri film nei festival, o nella programmazione delle cineteche e dei musei, oppure nelle iniziative dell'American Film Institute. Al LACMA, il Los Angeles County Museum of Art, abbiamo fatto una retrospettiva su Germi riempiendo la sala di seicento posti con dodici dei suoi film. Adesso faremo Pasolini, poi Visconti in collaborazione con UCLA, e poi ancora Nanni Moretti. Per quanto riguarda la circolazione nelle sale, invece, purtroppo non c'è nulla da fare: a livello di distribuzione cinematografica il film straniero non va; secondo le statistiche attira solo il cinque per cento di spettatori. Però devo dire che nel campo dei circuiti specializzati in film stranieri il nostro cinema occupa una posizione di rilievo. In una recente statistica dei venti migliori film stranieri presentati nella catena dei Landmark Theaters i primi tre erano italiani: La vita è bella, Nuovo Cinema Paradiso e Il postino.
Quale ruolo occupa la cultura regionale nella vostra
programmazione? E quali sono state secondo lei le influenze statunitensi sulla
cultura emiliano-romagnola nel campo del cinema, della letteratura e della
musica?
La cultura italiana è ovviamente anche una cultura regionale, e quindi quest'ultima riveste un ruolo importantissimo per noi. L'Emilia-Romagna secondo me è la più americana, la più californiana delle nostre regioni. Si è americanizzata in maniera rapidissima ed è stata la prima a farlo, pensiamo agli ipermercati con negozi, banche e fastfood. Poi c'è la via Emilia che, come ha ricordato Roberto Barbolini in una conferenza tenutasi presso il nostro istituto proprio su questo tema, rappresenta l'emblema della mobilità emiliana e del mito on the road che si ritrova in molti narratori emiliani, da Guccini a Tondelli, e in rockers come Vasco Rossi e Ligabue. In questi autori si nota la tendenza a colmare la distanza tra la realtà della piccola città e il mito della fuga per poi ritornare alle proprie radici. Tanto che Barbolini parlava appunto paradossalmente di radici saldamente piantate nell'acqua, per fare un riferimento alla costituzione geologica stessa dell'Emilia.
Questo si vede anche nel cinema, anche senza che si parli propriamente dell'America: lasciare Rimini ed andare a Roma per Fellini, lasciare Ferrara ed andare a Roma, Parigi o Londra per Antonioni. C'è sempre questo bisogno di tornare a rivisitare la propria regione d'origine con una specie di cannocchiale rovesciato, da lontano. Fellini che non gira mai a Rimini. Antonioni, che viene con tutto il suo bagaglio ben preciso e guarda sempre da lontano. In America Antonioni è stato amatissimo o odiatissimo. Una cosa che non gli hanno perdonato negli anni Settanta è di venire a girare Zabriskie Point, un film estremamente critico nei confronti dell'America. In realtà non hanno capito che Antonioni, da sempre considerato uomo freddo e intellettuale, si era innamorato dell'America e della California, del mito della gioventù, in maniera persino ingenua. E invece, se la sono presa. Questo è avvenuto allora. Adesso in parte è cambiato. All'ultimo convegno su Antonioni a cui sono stato negli anni '90 c'era tutta una rivalutazione di questo film. Per quanto riguarda Federico poi, un'altra figura importantissima, uno dei progetti per i quali vorrei coinvolgere il Comune di Rimini si chiamerà "Felliniana". Non vogliamo proporre l'ennesimo festival dei suoi film: ci saranno naturalmente le proiezioni di copie restaurate ma il nucleo centrale saranno le testimonianze di tutti i registi che siano stati influenzati da Fellini. È un'idea di Paolo Fabbri e mi sembra bellissima.
Qual è la vostra utenza e chi partecipa alle vostre iniziative? Mi interessa
in particolare distinguere e discutere di tre gruppi: gli italiani residenti all'estero,
le comunità italo-americane, fatte di persone che politicamente sono americane
ma che culturalmente sono legate all'Italia, e il resto del pubblico locale.
Tutti e tre questi gruppi hanno esigenze diverse e immagino si pongano in
maniera diversa nei confronti di ciò che viene loro proposto, viste le
differenze di provenienza (Nord/Sud), classe sociale, educazione e sesso.
Come dicevo all'inizio, forse negli ultimi tempi abbiamo guadagnato un po' di americani e perduto un po' di italoamericani. Gli italiani residenti all'estero, soprattutto i professori che insegnano nei dipartimenti di cinema o di italiano, e gli studenti (anche americani) sono la nostra forza, il nostro bacino di utenza normale.
Ho l'impressione che le comunità italiane, questi gruppi di emigrazione italiana così eterogenei, siano veramente molto diversi, e non comunichino molto fra di loro. La vecchia emigrazione, quella che ha dovuto subire più pregiudizi, non si sente sufficientemente riconosciuta da quella più recente, che è una emigrazione intellettuale, ricca, o perlomeno di diverso tipo. E viceversa: magari l'emigrato intellettuale di un certo livello sociale, culturale ed economico non si sente vicino all'esperienza degli italoamericani. Esistono molte associazioni italo-americane, ma è difficile amalgamarle con gli italiani residenti all'estero. Entrambe le parti si mescolano con gli americani, ma tra di loro lo fanno molto meno, senza contare che anche all'interno degli stessi gruppi ci sono delle tensioni. Una regione contro l'altra, oppure un gruppo politico contro un altro: purtroppo è così.
La vecchia emigrazione ha un commuovente amore per l'Italia e l'italianità, ma a questo non sempre corrisponde una conoscenza autentica. Forse non vogliono neanche sapere come è diventata l'Italia oggi, probabilmente non la conoscono. Se tornano in Italia dopo tanti anni sono delusi vedendola cambiata, americanizzata. C'è poi la questione dello stereotipo. Gli italiani dell'emigrazione di inizio secolo hanno dovuto subire dei pregiudizi, come gli ebrei e gli irlandesi. Pensiamo alle prime comiche del tempo del muto, dove ci sono gli ebrei avari che contano i centesimi, i neri stupidi che scivolano sulle bucce di banane, gli irlandesi che bevono, violenti e pugilatori. In questa giostra delle caricature l'italiano era il mafioso. Molti naturalmente ne hanno sofferto, e questo si può capire. Quello che vorrei che gli italiani di qui capissero, però, è che Scorsese o Coppola, De Niro o Pacino, non sono dei traditori dell'italianità perché interpretano o dirigono film sulla mafia. Essi invece lo sentono come un doloroso allinearsi ai pregiudizi delle maggioranze e questa è una posizione che ci divide. Capisco questa loro paura, ma vorrei che venisse superata. Un'altra minoranza che io sento egualmente mia, cioè la minoranza ebraica, secondo me tutto sommato ha saputo superare queste paure del ridicolo e dello stereotipo. Dal momento in cui ha imparato a ridere di sé stessa, vedi Woody Allen e Mel Brooks, ha conquistato di più il pubblico americano, e quello occidentale in genere. Forse bisogna aspettare un'altra generazione perché questa paura dello stereotipo e del razzismo venga superata.
Vivendo all'estero si acquista una visione diversa,
per certi versi distorta e per altri più chiara del proprio paese e della
propria cultura: come si rivedono valori e pregi della propria cultura e della
produzione culturale del proprio paese da un'altra angolazione?
Per la mia esperienza personale questo cambiamento di prospettiva è stato importante. Come dicevo, io sono sempre stato abituato a guardare al di là dello steccato, cioè all'America vista dall'Italia e all'Italia vista dall'America. Inoltre io stesso ho scoperto, insegnando qui, la grandezza di certi nostri autori che magari al liceo avevo studiato senza troppa passione. Lo stesso vale per il cinema. Da americanista in Italia, trascuravo un po' il cinema italiano. Poi i registi italiani che avevo tanto amato erano morti, come De Sica e Visconti, o inattivi come Antonioni e Fellini. Sì c'erano registi che mi piacevano molto come i due Bertolucci, Piccioni, Soldini, Moretti e Benigni, ma non sempre seguivo il nostro cinema con sufficiente attenzione. Qui ho cominciato a prestare più attenzione al nostro nuovo cinema. Per esempio Un amore di Tavarelli è molto bello, i film di Campiotti sono interessanti. In questo senso la distanza aiuta. C'è anche da dire che gli americani sono più nazionalisti di noi. Questo è un paese dove l'orgoglio nazionale è più forte che da noi e forse per reazione me ne sento contagiato.
Il compito degli istituti di cultura è quello di
rappresentare la cultura italiana all'estero ed ha spesso connotazioni
celebrative più che di autoriflessione. In Italia ed in Emilia-Romagna sono
state proposte negli ultimi anni una serie di mostre che documentano a fondo
certe ideologie circolanti soprattutto, ma non solo, in epoca fascista: mostre
come "La menzogna della razza" o "L'Africa in giardino".
Cosa pensa della circolazione di queste mostre anche all'estero? Quale
contributo potrebbero portare?
Personalmente, anche per questioni autobiografiche, sarei molto felice di portare qui mostre come "La menzogna della razza" e "L'Africa in giardino." Sarebbe giusto combattere questo mito degli italiani "brava gente", perché purtroppo sappiamo che non corrisponde al vero. Farlo all'estero diventa, se possibile, un po' più doloroso. A questo proposito intendiamo sviluppare molte iniziative con il Museo della tolleranza. Avevamo un progetto per portare qui una mostra sugli ebrei in Emilia-Romagna che so interessa molto. Ovviamente ci terrei che non fosse solo un pretesto per l'autoglorificazione.
Per quel che riguarda il discorso dell'immigrazione in Italia e della produzione culturale che sta emergendo da questa esperienza, sarebbe giusto e importante aggiungerla alla programmazione degli istituti per aggiornarsi e per aprirsi anche a quei contributi che più sfidano o contraddicono la nostra visione del mondo.
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