Rivista "IBC" VIII, 2000, 3

musei e beni culturali / pubblicazioni, storie e personaggi

Le parole della gatta

Mario Turci
[direttore del Museo degli usi e costumi delle genti di Romagna di Santarcangelo (Rimini)]

Più che descrivere e raccontare le scatole che ho raccolto nel museo mi son lasciato andare a correrci dietro, come quelli che corrono dietro alla macchina degli sposi a cui gli amici, per uno scherzo di antica tradizione, hanno attaccato cianfrusaglie, barattoli e lattine. E con questa macchina da scrivere credo di averla fatta anch'io la mia parte.

Ettore Guatelli, La coda della gatta


Pioveva a dirotto quando decisi di entrare nella piccola hall del Museo nazionale di archeologia. Mi trovavo a Madrid e avevo finalmente trovato il tempo per una di quelle "immersioni" che ogni tanto mi concedo scegliendo il museo e il pomeriggio giusto.

Portavo con me La coda della gatta, recente pubblicazione che l'Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna ha curato raccogliendo le narrazioni di Ettore Guatelli scritte fra il 1948 e il 1999. Nelle "immersioni", quando il viaggio nel museo giunge a quel comune stordimento della mente che spinge alla fuga o alla sosta, cerco un luogo appartato dove organizzare una pausa in compagnia di una lettura scelta, come apparentemente dissonante rispetto a quel museo e al suo contenuto, come era avvenuto recentemente al D'Orsay nel quale mi ero impegnato in una lunga pausa-lettura dedicata a Specchio della tauromachia di Michel Leiris.

L'esperienza, che mi permetto di consigliare, ha lo scopo di fornire alla percezione il "controcanto" utile a quell'"orizzonte d'attesa" che Robert Jauss (1921-1997) dice capace di svegliare ricordi, alimentare attese per ciò che segue e per la conclusione, suggerire un preciso atteggiamento emozionale "ed in questo modo fornire preliminarmente un orizzonte generale per la comprensione". A Madrid La coda della gatta, sarebbe servita a questo scopo.

Già dai primi capitoli Vecchio petrolio e Ricordi di Vallezza incontrare Guatelli a Madrid, fra gli spazi austeri e ben ordinati del Museo archeologico, si stava rivelando capace di lanciare una sfida all'incontro fra ragione etnografica e ragione espositiva. Una sfida che l'opera museale di Guatelli sta lanciando da diversi anni nel campo della ricerca di una unità fra scrittura etnografica e impresa museale. La coda della gatta, catalogo di narrativa museale, mi stava invitando a riflettere su quel rapporto fra opera museale, avventura narrativa e scrittura che negli ultimi tempi stava appassionando il dibattito sulla museografia demoetnoantropologica italiana. Inoltre vi trovavo precisati quei percorsi che nella danza delle contaminazioni fra ragione etnografica e ragione espositiva portano a riflettere sull'etica della responsabilità quando questa riguarda l'accordo, concreto o virtuale, fra raccoglitore e museografo, fra conservazione delle testimonianze di civiltà e "restituzione" sociale.

Ero giunto a La corna e decisi di sottolineare a matita:


Si parte con l'entusiasmo dello sprovveduto, per accorgersi poi che ciò che ci sarebbe da sapere è fuori dalle proprie possibilità, specialmente se per natura si volge più al letterario che allo scientifico, anche se dallo scientifico si è attratti: sono più curioso che metodico, anche se sognerei di poter dare notizie fondamentali, precise. Io credo che tutti si sogni ciò che più ci manca. Le mie narrazioni, o descrizioni, si prendano come sprazzi per dare un'idea, per far sentire un po' d'atmosfera, e anche per far sorridere. Provengono da diverse fonti, spesso da visitatori arrivati da ogni dove o anche da vicino, ma originari di altri posti. Ci si possono trovare punti comuni a tanti, ma a volte anche contraddittori. Il canone non è sempre il meglio. È un modello codificato, tramandato acriticamente e assunto come il migliore da trasmettere ai successivi apprendisti, che riterranno quello appreso come l'unico modo di fare, di usare l'attrezzo, da tramandare a propria volta com'è successo sempre. Ho provato piacere oltre che interesse a sentire racconti dalla gente e quindi a scrivere di quanto possa far dire un oggetto. Raramente sono andato metodicamente a cercare: ho più frequentemente atteso che mi capitasse l'occasione.


Stavo ritrovando ne La coda della gatta l'espressione di quella unità narrativa che vede, di volta in volta, un Guatelli prestato all'etnografia, alla letteratura, alla museografia, alla didattica, in una unità poetica che fa di ogni sua espressione un invito a mantenere nella ricerca e nella vita una disponibilità allo stupore e all'avventura. L'unità narrativa di Ettore Guatelli nasce dalla scelta della centralità della parola e la narrazione si fa scrittura quando la parola rintraccia, nel piano dell'espressione, la spazialità, fisica o letteraria, che ne permette la traduzione in testi. Allora l'oggetto diviene parola e la parola oggetto.

Il museo di Guatelli partecipa a quella museografia narrativa nella quale gli oggetti si dispongono ad assumere il valore di parola. Qui l'oggetto-parola è "giocato" (non fissato, dichiarato una volta per tutte, istituzionalizzato), dotato di motilità perché scambiato, in un gioco di voci narrative, fra raccoglitore, visitatore, informatore. In definitiva l'oggetto-parola, che trova espressione nel testo-museo di Ozzano Taro, lancia una sfida alle museologie e alle istituzionalizzazioni della comunicazione.

Stavo riflettendo sul fatto che l'opera di Guatelli forza ogni rigidità nella relazione fra scrittura, testimonianza e spazio, e che nella sua unità narrativa il rapporto fra identità e memoria trova espressione in quel cronotopo nel quale "gli indicatori spaziali e temporali sono fusi in una totalità concreta, pensata con estrema cura del dettaglio. [Qui] il tempo, per così dire, si ispessisce, prende corpo, si fa artisticamente visibile; parimenti lo spazio si carica dei movimento del tempo, dell'intreccio e della storia" (Bakthin). Avevo trovato la "dissonanza" e conseguentemente il controcanto che ogni volta cercavo nel rapporto fra lettura e museo visitato. Si trattava, in questo caso, di quell'incontro/scontro fra l'istituzionalizzazione della ricerca e dell'impresa museale ed il tessuto della comunicazione del museo e nel museo, in definitiva fra organizzazione e avventura.

Stavo cercando il bandolo per una più chiara definizione di museografia narrativa e l'ho trovato qui a Madrid, in un museo che per ora nulla concedeva all'emozione, richiamato sia dal ricordo di un breve testo di Tonino Guerra che, appena letto, mi aveva portato nella valle di Guatelli - "Spesso mi faccio lasciare in fondo ai calanchi dove ci sono casali abbandonati. Non è soltanto qualcosa di vecchio che vado cercando, ritrovo quegli odori umidi che lasciano i terreni con le orme delle zampe delle galline. E gli scricchiolii delle docce arrugginite. Siamo drogati d'infanzia, di quel tempo in cio ci sentivamo immortali" - sia dall'immagine de La firma in bianco (1965) di Magritte, della quale mi ha sempre colpito il rapporto ironico fra visibile e invisibile (lo stesso Magritte così ne descrive il contenuto: "Le cose visibili possono essere invisibili. Se qualcuno va a cavallo in un bosco, prima lo si vede, poi no, ma si sa che c'è. Nella Firma in bianco, la cavallerizza nasconde gli alberi e gli alberi la nascondono a loro volta. Tuttavia il nostro pensiero comprende tutti e due, il visibile e l'invisibile. E io utilizzo la pittura per rendere visibile il pensiero").

Ora Guerra, Magritte, ed il Museo arqueologico nacional partecipavano ad una definizione dell'opera di scrittura di Guatelli ricordandomi che il rapporto dialettico fra oggetto e testimonianza può esprimersi in un opera di decostruzione nella quale gli indicatori spaziali e temporali (Bakthin) si trovano a "galleggiare" fra visibile e invisibile, fra storia e storie, fra voci e memoria.

Mi aspettavano ancora le sezioni dalla 33 alla 37, quelle dedicate al Medioevo fra la Hispania Visigota e Mudéjar e sul fronte della lettura, terminato il capitolo La raganella, sarei dovuto passare ai successivi La falce, Latta, scatole e barattoli, sino alla fine.

Da amici avevo ricevuto il consiglio di non escludere dalla visita del museo il Medioevo. Avevo saputo, inoltre, che la sezione Gotico y Mudéjar era stata concepita secondo una museografia più attenta al rapporto fra documento, rappresentazione e unità sceniche. Avrei seguito il consiglio, ma non prima di dedicare ancora qualche minuto a Guatelli ed in modo particolare ritornando al capitolo Ho preso su tutto:


Le migliori esposizioni vengono determinate dal pubblico. Bisogna fare come fanno nei negozi, dove le merci che più si vendono sono le più a portata. È il visitatore che ti insegna. Ma anche noi possiamo capire e influenzare. Le cose che più amiamo e godiamo sono quelle che più riusciamo a far amare e godere. Salvo restando che anche cose basilari, scorbutiche, van fatte capire, van messe in modo che siano percepite di più. E l'atmosfera secondo me predispone. In un muro di sassi, con poco intonaco, mi è stato impossibile piantar chiodi. Ho dovuto rivestirli con lastre di truciolato. Con l'inconveniente che a piantarci i chiodi si scuote da far cadere gli oggetti già fissati. Penso si debba comunque mantenere un impatto emotivo. Poi documentare le attività. L'abbondanza di oggetti permette di farlo. Ma senza diventare schiavi di niente: né di estetica, né di funzionalità. Regolarsi con le reazioni del pubblico, verificarne i consensi e le freddezze. Sollecitarne i giudizi, conciliando il poetico con lo scientifico e sviluppandoli entrambi.


Nei musei che visito cerco l'anima e la firma del loro realizzatore, singolo o gruppo che sia. Passo da una sezione all'altra sperando di potervi riconoscere lo stile e l'intuizione espositiva che rende unitario il messaggio e armonico l'impianto. I musei che meglio ricordo sono quelli che mi hanno offerto una esperienza di conoscenza ed una emozione. Sono musei, questi, che leggo quali opere d'autore e nei quali testimonianze, installazioni, unità sceniche, testi e immagini sono fusi in armonie che sono espressione di una visione del mondo, di un modo di pensare, di una soggettività creativa. Rileggo nuovamente: "Le cose che più amiamo e godiamo sono quelle che più riusciamo a far amare e godere", e penso a quanto Guatelli ci ha stimolato a riflettere sull'impresa museografica ed in definitiva alle provocazioni che ci giungono dalla sua opera, dai suoi modi, dalle sue "metodologie" e dalla sua letteratura museale.

La coda della gatta ricorda quanto il museo di Ozzano Taro sia il risultato di un continuo dialogo creativo fra uomo e cose del mondo, fra quotidiano e memoria, fra silenzio e voci della narrazione. Ettore è al centro di tutto questo e il suo museo ed i suoi scritti urlano i silenzi e i sussurri di mille storie, come quella legata all'attrezzatura di uno scimmiaro che girava la Francia e i Paesi Bassi, e raccontava che "ogni volta, prima di far ballare le scimmie davanti al pubblico, doveva bere un Martini di nascosto, per vincere la vergogna". E ancora: "Una di quelle volte non frequentissime in cui un raccoglitore di Pontremoli mi ha portato direttamente a Bratto perché vedessi se c'era qualcosa di mio interesse (gli avrei poi dato la 'mediazione') ho conosciuto un Beschizza, morto qualche anno dopo. Come la maggior parte di quella gente era attrezzatissimo per lavorare il ferro ed il legno, e lo sapeva fare. E anche da scalpellino era buono. Con lui era un piacere stare a parlare: era un continuo squarciarsi di mondi, un continuo apprendere, e su mille cose".

Mentre giunge smorzato il rumore del traffico che corre sulla Serrano mi tornano alla mente le immagini della casa di Ettore, le armonie realizzate fra gli insiemi di oggetti e i muri, finestre, travi, scale e scaffali. Vedo le punteggiature fra pieni e vuoti, fra il bianco delle pareti e le tinte laccate dei giocattoli di lamiera. Parole e frasi sulle pagine come oggetti e armonie sulle pareti. Parole e oggetti come strumenti organizzati in grammatiche capaci di produrre scritture e testi. Testi sulla pagine ed un museo che è testo, scrittura dello spazio la cui sintassi è nel gioco fra voce del narratore e testimonianze, fra visibile e invisibile.

Stavo pensando che se la storia del Museo di Ozzano Taro dovesse portare, presto o tardi, al trasferimento della raccolta in altri spazi sarà necessario appellarsi ad un progetto sensibile da un lato alle problematiche e soluzioni della museografia narrativa e dall'altro alla realizzazione di una impresa espositiva fedele allo stretto rapporto realizzato da Guatelli fra oggetto e parola, fra testo museale e scritture dello spazio, fra ragione etnografica e ragione espositiva.

Gotico y Mudéjar aveva mantenuto le promesse fatte. Il museo era prossimo alla chiusura. Ora mi aspettava di nuovo la mia città, e poi Parma, per incontrare di nuovo Ettore e le sue parole.

 

Mentre la rivista va in stampa ci giunge la notizia della morte di Ettore Guatelli. Vorremmo, con questo segno discreto, ricordarlo e ringraziarlo.

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