Rivista "IBC" XXVII, 2019, 4
territorio e beni architettonici-ambientali / mostre e rassegne
Il Museo Diocesano di Imola, fondato nel 1962, da alcuni anni ha volutamente intrapreso un vero e proprio cammino alla riscoperta di quei materiali artistici (perlopiù sacri) che, per consuetudine, vengono inseriti nel novero delle cosiddette arti minori o, per meglio dire, applicate. Crediamo infatti – nel XIII e XIV secolo, peraltro, il concetto di arte minore non trova alcun fondamento – che le forme di produzione alternative alla pittura, alla scultura e all’architettura (ossia le arti maggiori) siano meritevoli di una particolare attenzione: spesso costruiti con materiali preziosi, questi oggetti hanno contribuito in maniera determinante alla divulgazione in aree lontane degli stili delle loro zone di provenienza. Non è un caso che i prodotti delle arti decorative o applicate, a partire dal primo Ottocento, comincino ad essere studiati e valorizzati nei musei, e più profusamente nel XIX e XX secolo, spesso col fine didattico di istruire le giovani generazioni di artigiani nel solco di una tradizione autorevole, in un contesto revivalistico che comprende realtà neomedievali – si pensi che nel Medioevo la considerazione riservata alle arti minori e ai suoi artefici fu tanto alta quanto quella per le arti maggiori – come l’ Arts and Crafts inglese o l’italiana Aemilia Ars. Inoltre, non dimentichiamo che il concetto di utilitas non sempre è stato considerato negativo: la funzione pratica di un oggetto non ne svilisce e decresce la bellezza, così come il suo valore suntuario ne favorisce la durata (l’oggetto prezioso viene così reimpiegato o rilavorato in oreficeria, quello utile lo si continua a usare, come nel caso dei codici miniati). Ecco allora che il Museo Diocesano di Imola, dal 2015 ad oggi, ha promosso al suo interno le mostre monotematiche sui tesori della cattedrale di Imola, sui reliquiari ad ostensorio, su quelli antropomorfi, sui manufatti monastici, sugli ostensori, sui calici, sui tabernacoli da viatico, sulle cartegloria e sulle pissidi, aventi tutte per oggetto materiali afferenti alle arti sacre minori. In soluzione di continuità con queste, si sono svolte mostre sulla piccola plastica devozionale in terracotta, sui gioielli in micromosaico, sull’orologeria e sulla grafica antiche, sugli scrigni e i cofanetti. Con una particolare attenzione a mostrare non solo il vasto e variegato patrimonio artistico diocesano, ma cercando di porlo anche a confronto con opere provenienti da raccolte pubbliche e, spesso e volentieri, anche private.
“Alla tavola di Sua Eminenza il cardinale Chiaramonti, vescovo d’Imola” – penultima esposizione temporanea conclusasi lo scorso 1° dicembre, curata insieme a Michele Pagani – rappresenta, dunque, l’ultimo virtuoso esempio di quanto sino ad ora affermato, laddove la fattiva collaborazione tra soggetti privati, studiosi e istituzioni museali non necessariamente del territorio, diviene strumento di promozione di un progetto culturale atto alla riscoperta, valorizzazione e conoscenza di materiali artistici in questo caso non di uso liturgico – spesso caduti in disuso, ancorché di pregevolissima fattura – sottraendoli ad un destino di oblio e sicura dispersione. Oggetto dell’esposizione – scientemente e significativamente allestita all’interno della prima sala dell’appartamento cardinalizio del palazzo vescovile, che ebbe tra i suoi più illustri “inquilini”, dal 1785 al 1799, quel Gregorio Barnaba Chiaramonti in seguito pontefice col nome di Pio VII – la ricostruzione di una sontuosa apparecchiatura per otto commensali, realizzata con materiali attualmente di proprietà degli eredi di papa Chiaramonti. Tra questi citiamo piatti e legumiere del servizio “alla rosa” (prodotto nell’ultimo quarto del Settecento dalla manifattura bolognese Rolandi e Fink), le posate d’argento con stemma del cardinale (realizzate tra il 1785 e il 1787 dal celebre orafo romano Vincenzo Belli) e una parte consistente del grande servizio in vetro di Murano (post 1785), recante su ogni pezzo lo stemma del cardinale dipinto a smalto policromo. Protagonista indiscusso della tavola – il cui complesso intervento di restauro è stato promosso dal nostro istituto culturale appositamente per questa esposizione – è stato poi il monumentale surtout de table in marmi policromi, bronzo e legno dorati realizzato sempre per Chiaramonti. Ha fatto ritorno a Imola – per la prima volta dopo poco meno di due secoli – anche il ritratto del cardinale, eseguito per il porporato nei primi anni del suo episcopato imolese. Intorno al grande tavolo apparecchiato sono state poste otto raffinate sedie di evidente stile del Direttorio, parte di un grande e articolato arredo, fatto realizzare per la galleria di collegamento tra l’appartamento cardinalizio e quello domestico, costruita per volontà di Chiaramonti quando si trovava ancora a Parigi prigioniero di Napoleone Bonaparte. Il 2018 si era concluso con la mostra Nobili custodie. Scrigni e cofanetti tra sacro e profano, curata con Paolo Roversi; manufatti in cui sostanza e simbolo si mescolano nella scelta dei materiali più eccelsi creando oggetti per i quali è difficile disgiungere il valore pecuniario da quello emblematico. L'avorio, ad esempio, è anche sinonimo di potenza e purezza, bibliche qualità che gli derivano dall'essere stato usato, tra l'altro, nel trono di Salomone, quindi traslato alla Madonna, Turris Eburnea. Virtù che furono sufficienti a farne un materiale idoneo a rappresentare regalità e saggezza, degno pertanto del contatto sacrale con mani imperiali e papali, con vestigia e corpi santi, al pari dell'oro e della porpora. Scrigni e cassettine passano dai patrimoni dotali ai tesori delle chiese per vie testamentarie o donazioni e qui, complice la loro forma mutuata da urne e sarcofagi antichi, passano a custodire non più la sacralità del vincolo matrimoniale ma quella ormai polverizzata e mummificata della santità. Le prime due mostre del 2019 hanno riguardato materiali afferenti alle arti minori sacre con particolare riferimento all'arredo dell'altare per la celebrazione della messa. Le ottanta cartegloria esposte all'interno di Gloria in excelsis. Cartegloria dal XVII al XIX secolo in Diocesi di Imola, curata con Lorenzo Lorenzini, hanno consentito al pubblico di ripercorre l’evoluzione stilistica di queste suppellettili liturgiche all’interno del territorio imolese. Si tratta di oggetti in cui materiali e disegni si allineano a quelli dell’arredo profano e, benché la collocazione sull’altare ne codifichi dimensioni e forme, gli artigiani in essi hanno da sempre dispiegato tutto il ricco repertorio di festoni, testine angeliche, volute, modanature a cui si aggiungono, secondo l’epoca e lo stile, cimase spezzate, serti di fiori, piedi ferini, drappeggi e conchiglie, colonne, capitelli e gradini. Ebano e argento, metalli sbalzati, legno intagliato, dorato e argentato, laccato o dipinto, madreperla, coralli e intarsi sono alcuni dei materiali utilizzati per rafforzare anche i momenti della celebrazione celati all’assemblea dei fedeli. Gli esemplari superstiti sono oggi piuttosto rari; il vento nuovo del Concilio Vaticano II, infatti, ha reso inutili questi arredi che, allontanandosi dal nuovo orientamento della liturgia, si avvicinano invece al gusto e allo stile di specchiere e cornici. E così dagli altari alle soffitte, poi alle vetrine degli antiquari e infine su un cassettone o un tavolino, il loro percorso negli ultimi cinquant’anni è stato piuttosto lineare. Da giugno a metà agosto si è parlato poi di oreficerie sacre all'interno della mostra Panis Angelicus. Pissidi dal XVII al XIX secolo in Diocesi di Imola, curata con Paola Martini, evento promosso in collaborazione con il Museo Diocesano di Genova. Oltre cinquanta vasi – opera di importanti orefici attivi a Ravenna, Bologna, Torino, Venezia, Roma, Genova ed Augusta – realizzati prevalentemente in argento sbalzato, cesellato e dorato, generalmente di grande qualità esecutiva e indubbia rarità, in prestito da moltissime chiese diocesane (oltre che dal Museo genovese).
La collaborazione con il Diocesano di Genova è stata strumentale alla conoscenza degli argenti contrassegnati dal marchio Torretta, punzone genovese famosissimo attraverso i secoli. Le mostre monotematiche come questa hanno offerto l’opportunità non trascurabile di poter riprendere in mano non pochi dei materiali schedati nel contesto del progetto di inventariazione promosso dalla CEI. Confronti stilistici mirati e lo studio sistematico dei bolli impressi sulle opere scelte, anche in questo specifico caso hanno consentito di definire con più precisione non solo le botteghe, ma anche i nomi degli orefici che le hanno prodotte. Nel contesto della valorizzazione delle arti minori si colloca anche la realizzazione di una Wunderkammer, inaugurata lo scorso 22 settembre dal professor Roberto Balzani, in qualità di presidente dell'IBC. L'apertura di questo nuovo spazio (e dell'attiguo terrazzo – giardino pensile) ha ulteriormente ampliato la fruizione della superficie musealizzata all'interno del Palazzo Vescovile di Imola: le sedici sale del Museo Diocesano, il chiostro, il cortile d'onore, il lapidarium e il Museo delle carrozze sono così divenuti un polo culturale unitario di grande suggestione al servizio di tutti. I mirabilia raccolti in questo nuovo spazio appartengono tutti al novero delle arti applicate (calici, fermagli di piviale, mitre, bastoni pastorali, reliquiari, avori, bronzi, miniature, vetri, piccoli dipinti su rame, corone di statua, rosari in avorio e corallo, gioielli, ecc.) – tra di essi menzioneremo la serie delle mitre, in seta ricamata in oro e argento con castoni di pietre semi preziose, appartenute al cardinale Giovanni Angelo Braschi (poi Pio VI), ai vescovi di Imola Bandi, Mastai Ferretti (poi Pio IX), Tesorieri e Baldassarri; una preziosa serie di calici tra i quali figurano quello di Placide Poussielgue Rusand e quello in oro e diamanti della bottega dei Valadier, dono di Pio VII al Capitolo della cattedrale di Imola; una raffinatissima e rara coppia di doppieri in argento eseguiti dal celebre orafo romano Belli (in pendant con l'altrettanto celebre residenza eucaristica di Pio VII); la cassa del cardinale imolese Anton Domenico Gamberini e, infine, un suo servizio di bicchieri di manifattura tedesca in vetro façon de Venise con stemma in smalto policromo e ogni sei mesi saranno rinnovati con altri in prestito temporaneo da chiese della diocesi. La mostra Brillanti illusioni. Tradizione e moda nei bijoux americani (7 dicembre 2019 – 16 gennaio 2020), curata insieme a Maria Teresa Cannizzaro e Fiorella Operto, che chiude la programmazione di quest'anno, si propone ancora una volta di valorizzare – con intento pedagogico – la bellezza ed il significato dei prodotti delle arti applicate, di cui anche la bigiotteria è espressione. In un suggestivo allestimento, in cui i bijoux delle feste la faranno da padrone, sono esposti circa 300 pezzi (dagli anni Venti ai Settanta) prodotti dalle più importanti maison americane da Trifari a Kenneth Jay Lane e Pell. A partire dagli anni Trenta, in seguito alla crisi economica del periodo post-bellico, i gioiellieri, che subiscono un forte abbassamento di clientela, per sopravvivere iniziano a produrre, accanto alle tradizionali linee di gioielli veri, nuove serie di bijoux, falsi ma eccellenti per stile e fattura. Questo fenomeno fa sì che negli Stati Uniti si raccolgano i più grandi disegnatori emigrati sin dal secolo precedente e si inizi a produrre in larga scala. In breve, la mania del bijoux conquista le donne di ogni classe sociale, aumentano le industrie del settore ed emergono le più importanti case di bigiotteria firmata. Alla fine degli anni Cinquanta erano occupate nell'industria della costume jewelry di Providence circa 270.000 persone, moltissime delle quali erano italiani emigrati negli Stati Uniti. Talune manifatture avevano in produzione creazioni così apprezzate da essere acquistate addirittura a peso e vendute dai dettaglianti in tutti gli stati dell'Unione. Questi oggetti, che conquistarono donne e uomini di ogni condizione sociale, sono ormai considerati una delle più chiare espressioni dello spirito democratico, che l’America ha esportato ovunque. D'altronde, un diamante è per sempre, uno strass è per tutte!
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