Rivista "IBC" XXVII, 2019, 2
musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali, biblioteche e archivi / editoriali
Siamo immersi nel patrimonio culturale: edifici, oggetti, paesaggi entrano nel nostro campo visivo appena usciamo di casa e ci accompagnano silenziosamente durante la giornata. Talvolta, se non siamo travolti dai pensieri quotidiani, abbiamo ancora la curiosità di soffermarci su una lapide, un particolare decorativo, un marcapiano. Il fatto di viverci dentro ci eleva, per frequentazione assidua e per abitudine, a difensori dei beni culturali del paese: o così presumiamo. Tutti gli italiani, sulla base delle statistiche, ritengono che le cose d’arte, di archeologia e di storia, oltre alle bellezze naturali, diano corpo all’identità nazionale, come del resto recita la Costituzione. Tutti gli italiani ne esigono, a parole, la valorizzazione e si rammaricano perché i grandi “giacimenti” del paese non sono sufficientemente promossi. “E dire che potremmo vivere di patrimonio culturale!” – è una frase ricorrente nelle conversazioni generiche, nei caffè o sulle spiagge. Il “petrolio” d’Italia, da Cesare Correnti in poi, resterebbe ancora in gran parte inutilizzato, o utilizzato malamente; i favolosi vantaggi economici, oltre che culturali, sarebbero sistematicamente trascurati da ogni ministero, nonostante i buoni propositi espressi dai titolari del dicastero competente succedutisi con cadenza quasi annuale alla guida del Collegio Romano.
Se si leggono in sequenza gli articoli comparsi sui quotidiani da cinquant’anni in qua, si resta sgomenti dalla ripetitività dei toni: parliamo quasi negli stessi termini delle stesse cose, con minime variazioni. Eppure, di acqua ne è passata sotto i ponti; e non solo in Italia. Perché allora, nel nostro paese, il dibattito non cresce mai? Perché sembriamo stregati dalla coazione a ripetere le stesse banalità, secondo un modello circolare che ci riporta infallibilmente al punto di partenza?
La mia sensazione è che, anche nel campo del patrimonio culturale, la disponibilità a integrare i fattori di cambiamento, belli o brutti non ha importanza, sia molto bassa. Eppure, essi non mancano. Il perimetro del patrimonio va allargandosi continuamente. Il boom dell’immaterialità pone evidenti problemi di sostenibilità gestionale. Le opportunità dischiuse dal digitale come campo di ricerca e di sperimentazione sono colte solo in minima parte. Alcune categorie di beni paiono soggetti a usura in forme assai più preoccupanti del previsto. La stessa definizione “classica” di museo in senso occidentale è in crisi, tant’è che sul tavolo ve ne sono altre assai più radicali, che prescindono dal tempo, dalla natura degli oggetti e dalla selezione con finalità di conservazione. Nonostante ciò, il patrimonio culturale è utilizzato come una clava per obiettivi tutt’altro che culturali: etniche, identitarie, politiche, sociali. Si obietterà che politica e identità giocarono un ruolo decisivo anche nella fase iniziale della grande stagione della conservazione, fra la fine del XVIII secolo e gli inizi del XIX: giusto, ma all’epoca decisivo risultò un filtro intellettuale in qualche modo “staccato” dalla contingenza, che permise agli oggetti di sopravvivere, tutelati, al di là della temperie ideologica del momento. Oggi questo filtro non esiste più.
Di qui l’esigenza di mettere in fila le parole, vecchie e nuove, e i significati, vecchi e nuovi, concernenti il patrimonio culturale. L’IBC ritiene sia un compito necessario, perché oggi, in Italia, non v’è alcuna agenzia pubblica o privata, nessun soggetto istituzionale disponibile a dedicarsi senza riserve e senza secondi fini a questa campagna di alfabetizzazione. Ognuno fa la sua parte in mondo frammentato e autoreferenziale: il Ministero, l’Università, i Comuni, le Regioni, le Fondazioni, eccetera. Spesso si usano i medesimi termini in modo difforme, alimentando equivoci. Ancora più spesso ci si riferisce a contesti che non esistono più. L’uso polemico dei beni culturali, nel nostro paese, ha radici remote, addirittura ottocentesche, ma non produce nulla. Costruire uno scontro sul giornale difendendo (in chiave retorica) i beni culturali, prescindendo da proposte concrete, può legittimare sul momento chi la propone, ma non fa crescere l’opinione pubblica. L’indignazione è per lo più, almeno in Italia, una pianta sterile, sovente coltivata strumentalmente.
Questa è la ragione per cui l’IBC, ormai da alcuni mesi, offre occasioni pacate, ragionate, documentate di dibattito pubblico intorno al patrimonio culturale. Lo facciamo nel nostro ambito regionale, ma l’approccio è universale, tant’è che, fra i nostri interlocutori, abbiamo studiosi di varia provenienza. Non si tratta di allestire un salotto per conferenze: si tratta, piuttosto, di indagare un perimetro semantico, di comprenderne i potenziali, di approfondire i punti critici. Il patrimonio, per noi, non è un mero scrigno di cose: è un ambito di conoscenza, è un motore di innovazione intellettuale. E in questa accezione abbiamo deciso di promuoverlo a vantaggio di tutti, dagli addetti ai lavori ai semplici cittadini.
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