Rivista "IBC" XXVI, 2018, 4
musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali, biblioteche e archivi / editoriali
Una partita complessa si sta giocando intorno al patrimonio culturale, nel nostro Paese e non solo. Essa non riguarda, come si potrebbe immaginare, solo i beni, la loro tutela e la loro valorizzazione. Non ha a che fare solo con bibliotecari e archivisti, o storici dell’arte e archeologi. La partita è più articolata, vede più attori muoversi nell’arena pubblica – come dicono i politologi – e produrrà presumibilmente effetti sulla vita di molti cittadini e almeno di una generazione.
Di che si tratta, dunque? Prendendo a prestito una citazione popolare, tratta dell’ultima scena de Il buono, il brutto, il cattivo di Sergio Leone (1966), potremmo dire che siamo di fronte ad un triello, ad un duello a tre. Se invece preferite una citazione colta, risalente alla lunga gestazione della legge n. 364 sulle antichità e belle arti (1906-09), e chiamando in causa l’immaginifico ministro della Pubblica istruzione dell’epoca, Luigi Rava, potremmo dire che siamo di fronte ad un trilemma, cioè a un dubbio da sciogliere attraverso tre strade plausibili.
Il “tesoro” in palio è il patrimonio culturale, naturalmente; ma, come vedremo, ad ogni attore corrisponde una visione di patrimonio del tutto peculiare. Il patrimonio culturale, in altri termini, pur essendo dato in base all’art. 9 della Costituzione, in realtà è assai mobile: esclude e include; si accresce e dimagrisce; comunica o resta silente. Direte: “Ma di che parli? C’è il Codice dei beni culturali, entrato in vigore nel non lontano 2004”. Esso individua le “cose” cui attribuire dignità patrimoniale in senso culturale, stabilisce l’interesse, pone i vincoli, descrive l’amministrazione che presiede alla tutela e alla conservazione, ecc. Il Codice incarna la tradizione italiana: statale, gerarchizzata, dove gli oggetti contano più delle istituzioni (i musei, ad esempio). Gli enti locali, titolari di una quota considerevole del patrimonio italiano, hanno mimato questa impostazione: si sono dotati di funzionari (finché hanno potuto), hanno finanziato collezioni aperte al pubblico e biblioteche civiche, hanno protetto “cose” ereditate dal passato, talvolta le hanno valorizzate attraverso mostre, laboratori o altre attività. La spina dorsale del primo attore e del primo dilemma, dunque, è un’élite della competenza, per lo più pubblica (ma non solo), alla quale l’Amministrazione, ai suoi vari livelli, continua ad affidarsi per stabilire che cosa sia patrimonio e come occorra maneggiarlo. Solo, una volta esisteva un quadro culturale abbastanza definito nel Paese e una scuola incardinata su basi precise, ancorché discutibili: oggi, in assenza di una campitura vasta, quella che ho chiamato forse troppo pomposamente élite pare in balia di se stessa, un po’ resiliente come tutte le burocrazie, un po’ disponibile, per convinzione o per convenienza, ad assecondare il potere politico.
Il secondo attore e il secondo dilemma sono il prodotto di una spinta che viene da fuori. A partire dalla fine del XX secolo, e con una vistosa accelerazione nel primo decennio del XXI, il patrimonio ha acquisito una fisionomia indipendente dalle diverse storie nazionali: organizzazioni internazionali o sovranazionali, dall’UNESCO all’Unione Europea, ne hanno fornito definizioni via via più dettagliate, incoraggiando decisioni conseguenti a livello di singoli stati. La Convenzione europea di Faro (2005), ad esempio, puntando su un’idea negoziale e comunitaria del patrimonio, tende a proporne una visione “dal basso”, frutto di una relazione fra attori socialmente rilevanti, risorse (senza specificazione) e spazi, cioè territori. Un autentico rovesciamento di paradigma rispetto alla vicenda italiana. In realtà, l’impostazione di Faro è già moneta corrente in moltissimi luoghi del nostro Paese, dove ispira – consapevolmente o meno – politiche pubbliche ai più svariati livelli. Il nodo della questione non risiede nella legittimità o meno di questa visione tendenzialmente “globalista” (cioè frutto di un pensiero sovranazionale, sorto spesso in contesti estranei al patrimonio culturale in quanto tale): che il patrimonio, oggi, sia anche questo, cioè una risorsa sociale direttamente spendibile e disponibile, auspicabilmente con effetti creativi, non è una teoria: è la realtà di molti Paesi del mondo. Il nodo sta nella compresenza in Italia di due visioni così differenti: una gerarchica ed elitaria, nata con lo stato-nazione liberale, che interpreta il patrimonio come un diritto esigibile dal cittadino, al quale l’Amministrazione in primo luogo deve provvedere; l’altra espressione di una dinamica orizzontale, consensuale, che tiene insieme – in una nozione allargata di paesaggio culturale – siti, oggetti, contesti, ponendosi come centro di relazioni e d’interpretazione per la comunità vivente, indipendentemente dalla variabile temporale, che del processo di migrazione dei beni nel lungo periodo (cioè attraverso la catena delle generazioni) costituisce in fin dei conti il cardine concettuale inevitabile, vista la necessità d’individuare assetti sostenibili (dal punto di vista strutturale, istituzionale, economico).
Il terzo attore e il terzo dilemma sono comparsi sulla scena italiana da non molto tempo. Il patrimonio culturale, in questa prospettiva, è decisivo per restituire al Paese l’orgoglio perduto, liberandolo dalla sofisticazione della cultura alta e “globalizzata” e fondando su di esso una restaurata identità. I termini chiave quindi sono “identità” e “popolo”. Come il popolo italiano deve riappropriarsi delle proprie tradizioni, anche dialettali e folkloriche, così l’identità si cementa con la “difesa integrale” di tutto il patrimonio, dal quale si deve trarre nuova linfa per rigenerare la nazione, estenuata dall’internazionalismo, dalle mode sovranazionali, dalla mercificazione, dalle spinte all’uniformità dei comportamenti e dei desideri. Si attribuisce a questi fenomeni la violenza patita nel corso del tempo (in particolare dal 1945 ad oggi) dai beni culturali, che viceversa, in un contesto di neo-nazionalismo, avrebbero mantenuto piena dignità e sarebbero stati adeguatamente conservati. Naturalmente, il patrimonio neo-nazionalista fa riferimento ad un’estetica da ripristinare, dopo vari percorsi contemporanei ritenuti inintelligibili ai più, e considera la “casta degli intellettuali” colpevole dell’illanguidimento dell’orgoglio italiano, a causa della seduzione esercitata dai grandi processi culturali mondiali, produttori di mainstream. Chi si dovrebbe incaricare di questa “restaurazione” non è tuttavia chiaro: il “popolo” stesso attraverso i suoi rappresentanti, cioè i politici? Una nuova élite di intellettuali “popolari”? Ancora una volta lo stato?
Il triello è dunque in corso. Probabilmente, a ben guardare, la scena potrebbe essere anche più affollata: mi sono limitato a segnalare i contendenti alla data odierna più visibili. È evidente che ciascuno di essi è portatore di un’esigenza in qualche modo reale; è altrettanto evidente che i livelli di manipolazione politica e di strumentalizzazione, nel momento in cui il patrimonio entra nell’arena degli oggetti ritenuti capaci di produrre consenso, rischiano di essere molto alti, e di generare dense cortine fumogene. E però un’istituzione unica nel suo genere come l’IBC, né statale né locale, cui sta a cuore prima di tutto il patrimonio – quello che abbiamo ereditato e quello che intendiamo passare ai nostri pronipoti – non può evitare di discutere, di proporsi come arena per un confronto aperto delle idee e delle posizioni. In Italia lo si fa troppo poco. In genere, si preferisce il soliloquio, magari ben confezionato. Ma non è così che si cresce, come individui e come comunità. La cultura esige luoghi e tempi adatti per poter produrre nelle coscienze – nel rispetto pieno della libertà di ciascuno – quei salutari traumi intellettuali, quelle revisioni dei punti di vista e delle idee ricevute, che ci rendono contemporanei al mondo in cui viviamo e insieme costruttori di futuro. L’IBC intende offrire a tutti gl’interessati gli uni e gli altri.
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