Rivista "IBC" XXVI, 2018, 2
musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali, biblioteche e archivi / editoriali
C’era una volta Carlo Cattaneo, persuaso, era il lontano 1858, che la città fosse il “principio ideale” della storia italiana. “Città”, per lui, non era solo lo spazio urbanizzato, l’agglomerato fisico, ma comprendeva il territorio circostante, la campagna, il paesaggio. Nei primi anni settanta, trovandosi a collaborare a un’opera fondativa della cultura nazionale del dopoguerra – la Storia d’Italia Einaudi (1972-76) – tanto Lucio Gambi quanto Andrea Emiliani avrebbero recuperato questa matrice multiforme come espressione di un’insopprimibile “autonomia”, leggibile pure a livello di deposito patrimoniale, d’identità civica e civile. È curioso che in quell’epoca di regionalità nascente si parlasse poco di federalismo e molto di autonomia: e giustamente. Cattaneo aveva dimostrato che l’esigenza di un’organizzazione territoriale diffusa era connessa al bisogno psicologico sia degli individui, sia delle “menti associate”, cioè degli stessi pensati in associazione o in comunità. Senza un forte spirito di colleganza, senza un impegno diretto da parte dei singoli, era impossibile difendere una qualsiasi forma di rete, di legame, di memoria; e tale era stato il mesto destino della penisola, durante i secoli in cui gli stranieri l’avevano fatta da padrone.
Perché tornare a Cattaneo, al di là del piacere di rileggere alcune pagine memorabili di Gambi, primo presidente dell’IBC? Perché esse ci consentono di svelare un processo in atto nel nostro presente, e che proprio nel patrimonio trova forse la sua più palmare manifestazione. Dunque, Cattaneo dice che la chiave di tutto, dalla psicologia alla politica, è l’autonomia; se essa manca, l’edificio dell’autogoverno crolla, e crolla pure l’idea di una libertà, pianta dalle molte radici, che urge dal basso. Ci si adagia, si sopporta, soprattutto si rinuncia. Mancando il fuoco della tradizione da tener vivo, ci si accontenta del culto delle ceneri. E quale miglior culto, in un Paese come il nostro, del patrimonio? Il patrimonio è identitario, ma deresponsabilizzante (curarlo spetta sempre a qualcun altro). Non se ne può parlar male. Costituisce, almeno stando a sondaggi antichi e nuovi, uno dei pochi argomenti che unificano davvero (a parole) la nazione. Non interferisce, nella stragrande maggioranza dei casi, con gli affari di ciascuno, che possono proseguire per la propria strada, retta o meno che sia. Produce legittimazione a buon mercato. Costa poco (qualche chilometro di autostrada). La patrimonializzazione dell’identità – parola ambigua, per affrontare la quale rinvio agli aurei libretti di Marco Aime e Maurizio Bettini ( 1) -, ovvero l’assunto puerile in base al quale essa sarebbe un blocco di oggetti, di comportamenti, di paesaggi, di storia, di gastronomia, ecc., dato una volta per tutte e solo da valorizzare, non da interpretare, non da rivivere ogni giorno, rappresenta il grande alibi che inibisce ai nostri contemporanei di pronunciare la parola “autonomia”, così strettamente collegata a un’altra cui sono allergici: responsabilità.
Eppure qui sta il senso della nostra sfida: l’Istituto non può non importare nel territorio il senso del patrimonio come autonomia, relazione consapevole e cangiante di una comunità con il proprio passato, con gli oggetti da trasferire nel futuro, con le risorse da appostare per compiere questo delicato passaggio. Se no, continuiamo nel gioco sottile della moltiplicazione di siti o di eventi che tendono comodamente a patrimonializzare l’identità, seguendo riti del consumo già sperimentati in altri settori, con liberazione finale di endorfine temporanee e di narcisismi da autocompiacimento. Ma la blindatura dell’identità, piccola o grande, remota o prossima, non è senza conseguenze per la costruzione di una società aperta, a qualsiasi latitudine: la sua pretesa patrimonializzazione s’iscrive quindi all’interno di un profilo stabilizzato, formalmente intoccabile e irriducibile, del sé e delle relazioni con gli altri. Ci ho pensato alcuni giorni fa, visitando lo splendido museo archeologico nazionale di Chieti. C’è la tomba di un guerriero italico del territorio, risalente mi pare al V, VI secolo a.C. Dentro, incredibilmente intatte e quasi fossero uscite allora dalla fucina, gli archeologi hanno ritrovato, insieme con il corredo d’uso, due cose un po’ strane: un elmo corinzio, come quello che siamo soliti attribuire ad Achille, e degli schinieri di bronzo. Oggetti preziosi e costosi, senza dubbio, probabilmente inseriti per nobilitare il combattente nell’ultimo passaggio. Eppure, in questo allestimento autenticamente identitario, essi rinviano a luoghi culturali reali e immaginari, per lo più lontani; a un patrimonio che comunica valore, ma che non ha nulla a che vedere con la valorizzazione. È solo il racconto, o il semplice sogno, della gloria.
1. Marco Aime, Eccessi di culture, Torino, Einaudi, 2004; Maurizio Bettini, Radici. Tradizioni, identità, memoria, Bologna, Il Mulino, 2016.
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