Rivista "IBC" XXV, 2017, 4
musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali, biblioteche e archivi / interventi
Uno degli aspetti ricorrenti, non solo nella ricerca, ma anche nell’organizzazione delle esposizioni originali più recenti, riguarda la centralità dell’oggetto. Narrato, esibito, decontestualizzato, ricontestualizzato, l’oggetto – in questo simile alla merce di marxiana memoria, dominatrice del mercato – è la “cosa” dotata di valore intorno alla quale turbinano interi sistemi culturali a livello globale. L’autore sembra stare un passo indietro; se poi è ignoto, ancor meglio. Ad un’impostazione secolare, imbastita sulla storia, sui documenti, sull’estetica, sta sostituendosi un’età dinamica, in cui a prevalere è la contaminazione.
Ad una lettura superficiale, il nostro Paese dovrebbe rallegrarsene: tutta la sua legislazione, dagli inizi del XX secolo ad oggi, è fondata sulla materialità delle “cose”, gerarchicamente ordinate secondo un’accurata gradazione dell’interesse (e del vincolo, conseguentemente). Eppure, no. Lo sfacciato nomadismo degli oggetti, reale o virtuale che sia, non interseca la trace italienne, che invero lo subisce al pari di una moda straniera; ne appare, piuttosto, il controcanto. E si capisce. Il nostro codice gioca sulle parole, ma è ben piantato sui contenuti. Il patrimonio? È formato dai beni culturali. E i beni che cosa sono? Le “cose”; e lì si torna, al 1909. Gli oggetti, in questo dispositivo, sono il prodotto di una ben precisa catena del valore patrimoniale, incardinata sugli autori e sui musei, sui produttori e sui contenitori. Quando sono arrivato a presiedere il Sistema Museale di Ateneo, a Bologna, mi sono chiesto perché ci fossero così tanti studi su Aldrovandi e Marsili, e così pochi sui pezzi, spesso bellissimi ma difficilmente decifrabili, posti in esposizione. Eppure la catena del significato di quei pezzi era andata oltre il momento della valorizzazione originaria, quando scienziati geniali li avevano presi o li avevano ricostruiti per illustrare una pagina della storia naturale; ed ora essi pretendono, impongono che li si racconti per ciò che hanno da dire, non solo in relazione al percorso che li ha isolati dal resto del mondo nel XVI secolo, ma in funzione del dopo, dei cinquecento anni successivi.
Sono persuaso che vi sia una tensione, sempre, fra musei/monadi e oggetti /nomadi, fra l’istituzione destinata a raccogliere e a trasferire nel futuro un’aliquota ben selezionata di ciò che chiamiamo patrimonio – quasi astronave apparentemente indistinguibile dal resto degli altri edifici di una città, ma dotata di particolare resilienza –, e, d’altro canto, l’insopprimibile pluralismo narrativo dei suoi contenuti, sempre eccedente la logica espositiva, la puntuale cristallizzazione di un allestimento. Tener conto di questi due attori ingombranti non è facile: il primo è un’organizzazione intellettuale e amministrativa che si muove per logiche forzatamente autoreferenziali (la sua “missione” è preservare per l’avvenire); i secondi debbono restare a disposizione di storie alternative, di nuove piste di ricerca. Sopprimerne la potenziale comunicazione significherebbe impoverirli, circoscriverne il senso, probabilmente consegnarli, presto o tardi, all’irrilevanza. Come ben sappiamo, del resto, nel patrimonio si entra, ma dal patrimonio, molto più spesso di quanto non si creda, si può anche uscire. Il biglietto per il futuro non ha la stessa validità per tutte le cose.
Come fare a tenere aperta questa via di comunicazione? Alla Sorbona, nella primavera del 2017, se lo sono chiesti con un convegno, intitolato Objets nomades: circulations, appropriations et identités à l’époque moderne, 1500-1800. Si è trattato del tentativo di sviluppare letture trans-culturali, a partire dallo studio della migrazione forzata di “cose” ad opera dei soliti europei dell’età moderna, rilevandone l’uso e la patrimonializzazione successiva, in ambienti diversi e a distanza di tempo. L’esercizio ha un senso per i ricercatori, evidentemente, ma anche per chi si occupa di musei, di amministrazione del patrimonio, di fruizione collettiva.
La centralità culturale dell’oggetto comporta, infatti, continue rinegoziazioni, più o meno significative o abusive. Materiale o immateriale che sia, esso interagisce alla perfezione con un campo iconico, pervasivo, orizzontale, a tratti pretestuoso: l’esatto contrario della logica gerarchica e storicista della “cosa” ex legislazione italiana novecentesca, catafratta nell’indubitabile rilevanza della scheda catalografica.
La domanda con cui abbiamo a che fare, noi che ci occupiamo professionalmente di patrimonio in un modo o nell’altro, è la continua moltiplicazione di sorgenti patrimoniali, la fluviale legittimazione di “beni” al di fuori di una logica selettiva stabilita da criteri definiti (dallo Stato-nazione, alla fin fine). Come interagire con essa? E come articolare risposte che vadano oltre la mera ripetizione di un’idea ordinamentale di patrimonio, palesemente delegittimata agli occhi dei più, ma non sostituita da un’altra, altrettanto evidente ed efficace? Chi deve gestire questo processo? I singoli musei /monadi, ciascuno per proprio conto? Oppure le comunità, facendo slittare il patrimonio dal campo semantico culturale a quello sociale (in realtà il processo, piaccia o no, è già in corso, e sarebbe il caso di riflettere sull’epidemico abuso del termine “patrimonio” nei contesti più impensati)? O le amministrazioni – centrali o periferiche –, tentando un recupero per il quale non sono più, ahimè, intellettualmente attrezzate? Non ho strategie immediatamente disponibili, ovviamente.
Credo però, prima di tutto, che questo complicato contesto vada anzitutto analizzato con cura e non interpretato per fragmenta, lasciandolo all’azzardo del caso o all’estemporaneità del singolo evento: la narrazione del patrimonio è talmente ricca di aneddotica da presentarsi frequentemente in forma episodica, e bisogna fare uno sforzo per ricomporre quadri intelligibili, che prescindano dalle personalità, dalle polemiche, dai puntigli, dalle (pur utili) ricostruzioni puntuali. C’è bisogno di una campitura ampia, nella quale dare di nuovo un bel colore di fondo. Se solo riuscissimo in questo, avremmo reso un servizio alle tante “astronavi” che in questo momento non sono più così sicure di avere il combustibile e l’equipaggio per “bucare” il tempo e recapitare nel futuro i loro oggetti.
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