Rivista "IBC" XV, 2007, 4

storie e personaggi

A trent’anni dalla scomparsa il pensiero corre a Varlin, il pittore svizzero che negli anni Cinquanta conobbe e dipinse la costa ferrarese.
Porto Garibaldi, 1956

Giuseppe Muscardini
[Biblioteca dei Musei civici d'arte antica del Comune di Ferrara]

Non sarà unicamente un anniversario, e per giunta di morte, a indurre chi scrive a orientare la mente sull'opera e l'esistenza di Willy Guggenheim, in arte Varlin. Gli artisti si citano e si ricordano indipendentemente dal loro passaggio terreno, e se qualche curiosità ci resta attorno alla loro esistenza, banale o maledetta che sia, è sempre per l'enfasi celebrativa alla quale cediamo volentieri davanti all'idea di una genialità e di una creatività a contatto con il quotidiano. Benché ricorra quest'anno il trentennale della scomparsa di Varlin (www.varlin.ch), lo spirito per ricordarlo è qui ben diverso, motivato da un'indagine retrospettiva sui rapporti che l'artista elvetico seppe instaurare con l'Italia,1 e nello specifico con le zone suggestive di Pomposa e Porto Garibaldi, nel Ferrarese, dove in più occasioni si trasferì alla metà degli anni Cinquanta.

Sono gli anni in cui l'artista si sposta di frequente nelle città europee, destinando periodi più o meno lunghi a un appagante ritiro nelle zone comacchiesi, e trovando ispirazione davanti alla abbazia di Pomposa, trasposta con convinzione tutta materica in una tela cui assegna il titolo inesatto di Duomo di Pomposa; o tratteggiando a carboncino un'anziana donna, fazzoletto nero annodato stretto, gambe larghe, seduta sul molo di Porto Garibaldi.2 Ma nei contorni marcati si coglie la stessa importanza che Varlin conferì ai quadri più impegnativi, come se il disbrigo delle operazioni di ogni giorno condotte semplicemente per vivere, compenetrasse in modo viscerale la sua concezione pittorica, in un'attenta osservazione della realtà, allo scopo di carpirne gli aspetti più ordinari.

L'indagine si fa interessante se si considera il respiro europeo dell'arte di Varlin, e l'interesse che l'artista suscitò presso i letterati del suo tempo. Al pari di molti artisti aveva scelto i Grigioni come terra di approdo, luogo dell'anima dove concludere il ciclo dell'esistenza, ma non prima di aver sperimentato gli straordinari effetti di una tardiva paternità. Reduce dai buoni risultati ottenuti a Venezia con il premio "Guggenheim", e da una felice mostra personale al Kunsthaus di Zurigo, giunse a Bondo nel 1963, l'anno del matrimonio con Franca Giovanoli. Un anno caratterizzato da fecondo slancio creativo che lo avvicinò a Friedrich Dürrenmatt, desideroso di farsi immortalare dopo che anche Max Frisch, nel 1958, aveva commissionato a Varlin il proprio ritratto.3

Le opere su tela raffiguranti i due autori drammatici, sorpresi in domestiche posture che richiamano l'idea di una momentanea interruzione del lavoro per mettersi in posa davanti al pittore, sono conservate rispettivamente al Kunstmuseum di Basilea e allo Svájci Nemzeti Könyvtàr di Berna. L'atteggiamento disinvolto del soggetto, con il braccio in entrambi sollevato che assolve a una funzione di rilassamento favorendo il distacco dalle occupazioni della mente, lascia intendere ancora una volta in Varlin il bisogno di coglierne le movenze naturali e non studiate, così come potrebbe impressionarle su pellicola un fotografo che volge l'obiettivo della macchina su generiche vicende consumate in un interno di famiglia. Il ritratto di Dürrenmatt, se osservato con attenzione sul posto, assume le peculiarità caricaturali che mancano, per esempio, nell'abbozzata fisionomia di Franca Giovanoli nell'olio su tela realizzato dieci anni prima, dove la posizione della donna, il braccio alzato a coprire per pudore il viso assonnato, contrasta con la totale nudità.

Se il fatidico 1963 coincide con tappe significative come il matrimonio e il trasferimento a Bondo, a quel periodo risale anche la conoscenza personale di Dürrenmatt, rapporto che non s'interrompe con la consegna del bildnis oggi conservato a Berna, ma continua ancora nel 1967, come dimostrano due caricature su pergamena possedute dal Centro Dürrenmatt di Neuchâtel. Curiose caricature, possiamo dire: nella prima, molto più verosimile della seconda, il soggetto accenna un sorriso suadente reso con poche linee; nell'altra, pur essendo il segno più deciso per l'assenza di ripensamenti, si è invece di fronte a una sorta di vignetta fumettistica, lontani dalle paciose sembianze dell'intellettuale. Una sola analogia: i pochi capelli, che dalla sommità della fronte spaziosa muovono irti verso l'alto, paiono dirci che si tratta dello stesso periodo, come confermano le note sulle schede catalografiche redatte da Heide Kramer e Ulrich Weber: "probabilmente realizzato alla presenza di Varlin 1967".

Vi è in quei pochi schizzi essenziali il senso di un rapporto amicale fra i due, che non si estinguerà nel tempo. Quando Varlin si spegnerà a Bondo nell'ottobre del 1977, sarà Friedrich Dürrenmatt a leggerne gli elogi nel corso di una sentita cerimonia funebre a cui tutta la comunità locale prenderà parte. Una prova di corale ammirazione per l'artista che s'impose grazie ai bozzetti traboccanti di espressiva umanità con cui sapeva ben delineare i suoi soggetti, ripresi non necessariamente in posa statica, ma vitali e operosi. E cinque anni più tardi, nel catalogo pubblicato in occasione di una postuma mostra parigina su Varlin, figurerà un ampio saggio di Dürrenmatt sull'opera dell'amico pittore.4

Quando negli anni Cinquanta Varlin si metteva in viaggio per le sue peregrinazioni verso i lidi comacchiesi, anche Dürrenmatt, dopo un analogo tirocinio presso le redazioni dei giornali su cui pubblicava romanzi a puntate, raggiungeva il successo internazionale con il dramma Visita della vecchia signora, del 1956.5 Nel tempo a seguire, la comune ricerca di una dimensione artistica e di uno stile li rese sodali, ma gli anni Cinquanta erano ancora terreno franco, anni in cui la maturità artistica andava affinandosi, gratificata dai riscontri ufficiali conseguiti da entrambi.6 A questo va aggiunto che gli sconfinamenti nei due si fecero pressanti, perché se Dürrenmatt fu anche pittore, Varlin non disdegnava la scrittura, come testimoniano le ironiche pagine vergate per l'autobiografia, di cui Vittorio Sgarbi ha dato conto in una pubblicazione del 1986.7 Quando lo stesso Sgarbi attendeva a quegli studi e a quelle intuizioni che ne decretarono più tardi la celebrità come critico d'arte, Varlin si spegneva a Bondo.

In tempi più recenti anche Philippe Daverio - lo storico dell'arte (curiosamente somigliante, nel fisico, proprio a Friedrich Dürrenmatt) alla cui trasmissione televisiva Passepartout in tanti sono affezionati - ha riconosciuto il genio di Varlin, e nel corso di una puntata del 2006, presentando l'artista sul piano dell'immagine che lasciò di sé come uomo e come pittore, ha riferito che "la leggenda di Varlin è quella d'un uomo vissuto in un lungo e naturale confino nel suo paese (la Svizzera), con l'amicizia di Dürrenmatt, Frisch e Nizon. Comico e maledetto nel contempo, libertario e domestico, apparve un anacronismo figurativo alla Biennale di Venezia del 1960, allora felicemente modernista".

Quel confino spontaneo e consapevole, scelto opportunamente per poterlo violare con fughe frequenti, permise a Varlin di esprimersi come artista. Raggiunse dal suo confino realtà convulse come Londra, Parigi e Madrid, ma spesso ripiegò sulla piccola spiaggia di Porto Garibaldi, all'epoca poco attrezzata e adatta alla villeggiatura domenicale, ma posta nelle vicinanze di luoghi storici come Pomposa e Comacchio.

Troppo invitante è l'occasione per non soffermarci con smaccato campanilismo su alcune opere in cui l'ambiente comacchiese è accennato, suggerito e, in alcuni casi, ben riconoscibile. Il soggiorno a Porto Garibaldi del 1956 è carico di ispiranti suggestioni che Varlin, attratto dai luoghi palustri del basso Ferrarese come lo si è dalla Camargue, riesce a traslare in splendidi carboncini su carta. Varlin premia qui la figura umana, le fisionomie, le pose tutt'altro che incerte, mentre lo sfondo è più abbozzato: vi si coglie una marina, un capanno, una tenda bassa montata con due picchetti per proteggere gli amanti abbracciati e immobili al sole, un'anziana donna che livella la sabbia con un rastrello nella spiaggia quasi deserta.

L'anziana vestita di nero, intenta a fare qualcosa di utile, o a prendere il sole scoprendo le gambe grassocce, è una costante di questi carboncini, tutti indistintamente intitolati Porto Garibaldi 1956; in altri le figure umane sono ugualmente caricaturali, ma più consone a esprimere il senso di un placido abbandono al tepore e alla sinuosità della sabbia di Magnavacca, in un dialogo figurativo dei soggetti con l'ambiente ancora incontaminato dei lidi comacchiesi. La donna anziana che prende il sole in un luogo appartato della spiaggia è rappresentazione di una precisa estetica della situazione: le donne del basso Ferrarese, abbigliate in modo austero e quaresimale, evocano in noi l'immagine della nonna che tutti abbiamo avuto e che, rimasta vedova, ha indossato senza mai dismetterla la divisa del lutto. Tempi, quelli di Varlin a Porto Garibaldi, in cui anche da lontano era facile avvistare nei paesi del Ferrarese figure di donne vestite completamente di nero, il fazzoletto lasciato morbido sulla testa, lo sguardo basso, percorrere la via centrale, o comodamente sedute sull'uscio di casa con ferri da maglia e gomitolo di lana.

Eppure, in un olio su tela dal titolo Bigliardo a Porto Garibaldi, questa costante cede il passo alla raffigurazione dell'allegria e della spensieratezza che si incontrava un tempo in certe sale desolate dei caffè delle coste adriatiche. Qui la scena è animata da un uomo ben vestito, un incallito giocatore che civetta con due donne annoiate e un po' troppo discinte per l'epoca, lasciando immaginare commerci e attività ludiche poco ortodosse. Il pittore ritrae un momento di sosta ricreativa in una provincia in cui il gioco della "stecca" e della "goriziana" era consuetudine radicata. Anche da questi luoghi, carichi di potente semplicità, Varlin volle prodigiosamente attingere.

Note

(1) Varlin nelle raccolte italiane, Brescia, AAB, 1994.

(2) L. Scardino, Tre vedute comacchiesi, "La pianura", 2003, 3, pp. 61-63.

(3) Varlin-Dürrenmatt. Horizontal, a cura di L. Vachova, Zürich, Verlag Scheidegger und Spiess, 2005.

(4) Varlin. Peintures, textes de F. Dürrenmatt et G. Testori, Paris, Galerie Albert Loeb, 1982.

(5) F. Dürrenmatt, Der Besuch der alten Dame, Zurich, Arche, 1956.

(6) "Friedrich Dürrenmatt. Ein universeller Geist", a cura di J. Perret Sgualdo, mostra presentata nell'ambito della cinquantesima Fiera internazionale di Varsavia (19-22 maggio 2005).

(7) Autobiografia e notizie biografiche, in V. Sgarbi, Varlin, Bologna, Galleria Forni, 1986, pp. 59-63. Nel corso degli anni Ottanta l'opera pittorica di Varlin è stata più volte trattata da Sgarbi, sia in relazione alle vedute di Comacchio e Pomposa, sia alla sua più vasta produzione: Varlin e l'Italia, a cura di V. Sgarbi, Milano, Compagnia del disegno, 1984; Varlin, Parma, Grafiche STEP, 1985, presentazione di V. Sgarbi.

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