Rivista "IBC" XIII, 2005, 1
musei e beni culturali / mostre e rassegne, pubblicazioni
"Una teologa in lingua materna". Così fu, precisa Vera Fortunati, Elisabetta Sirani. Quasi a estendere alle arti figurative, con i suoi quadri per la devozione da stanza, la mistica appassionata che da Matilde di Magdeburgo a Caterina de' Vigri, parlò al femminile. Per esprimere, del femminino, l'aspetto ineffabile e materno della grazia. Ma, insieme, l'autorevolezza e la forza, senza rinunciare al retaggio di una percezione immediata del divino. Un talento spirituale innato, dunque, per la pittrice bolognese, in questo veramente affine, sul versante della produzione artistica, alla "scienza dell'amore" delle scrittrici mistiche del passato. Che sicuramente conosceva. Tanto da riversarne, nei "dialoghi amorosi" dei dipinti di argomento sacro, la percezione di una "rivelazione femminile di Dio" (Fortunati) che si coglie negli aspetti umanissimi dei soggetti rappresentati.
Questa fu, al di là di ogni leggenda sulla donna e sull'artista, l'anima profonda della sua produzione. Una qualità sfuggita alla critica fino a ora ma oggi finalmente recuperata grazie a una sottile intuizione di Vera Fortunati, curatrice, con Jadranka Bentini, della prima mostra monografica sull'artista ("Elisabetta Sirani 'pittrice eroina' 1638-1665"), allestita fino al 10 aprile 2005 presso il Museo civico archeologico su promozione del Comune, dell'Università e della Soprintendenza per il patrimonio storico e artistico di Bologna.1 L'esposizione è stata l'occasione per un ripensamento sulla figura della pittrice che troppo spesso ha rischiato di sfumare nel mito, complice anche la scomparsa prematura consegnata alla leggenda. Una rilettura alla quale ha contribuito, in quello stesso contesto, la pubblicazione di una monografia corposa: più di trecento pagine con le quali l'australiana Adelina Modesti rende conto di una vita di studi dedicata alla Sirani.2
Mai la critica aveva messo in luce in maniera così approfondita e nella molteplicità di tutti i suoi aspetti questa complessa figura di donna. Soprattutto nei tempi passati, quando sembrava più rassicurante scorgere ed esaltare l'elemento prodigioso di una "destra di femmina" usa a trattar pennelli e altri attrezzi di un mestiere da maschi, come Lavinia Fontana e Properzia de' Rossi, anziché ascoltarne l'ispirazione d'artista. "Gemma d'Italia, prodigio dell'arte, sole d'Europa". Fu il Malvasia a trasformare la "divina Sirani" in un monumento a sé stessa. E i monumenti, si sa, incutono soggezione. O comunque destano sbalordimento. Più raramente emozionano. In realtà, "curiosità antropologica" - come nei commenti miopi dei contemporanei - o peggio ancora "donna virile" in grado di dipingere "più che da uomo" Elisabetta non fu, quando si attribuisca alla parola "donna" il suo giusto significato. Semplicemente, né "virtù femminile" alla sequela del padre, né "virago" o "barocca meraviglia", sorprendente in quanto donna, seppe armonizzare tra di loro i due emisferi del suo cervello d'artista. Emisferi geniali: ispirato e immaginativo il destro, determinato e capace l'altro. Tanto da permetterle di organizzare una scuola di pittura riservata alle donne, alle quali, com'è noto, era preclusa la frequentazione dell'accademia.
Oggi, in tempi favorevoli a ulteriori riflessioni sul versante femminile della creatività artistica e a dieci anni dalla mostra su Lavinia Fontana, si ricompone una volta per tutte l'identità di Elisabetta Sirani, "pittrice eroina" in quanto protagonista assoluta in un settore che per suo merito veniva reso accessibile all'apprendimento e alla professionalità del gentil sesso, nella Bologna di metà Seicento. Una città relativamente aperta alla vita pubblica matronale grazie alla presenza dell'università, ma comunque sempre nei limiti imposti dalla cultura postridentina - non si dimentichino i roghi e il mancato riconoscimento della validità legale alle firme femminili. Una sfida, quest'ultima, alla quale l'intelligente Elisabetta rispose con un primato senza paragoni, arrivando a firmare oltre il settanta per cento dei propri lavori e spesso apponendo il proprio nome, con ironia sottile, su dettagli seducenti dell'abbigliamento (Bohn).
Ce n'era d'avanzo, per motivare la reticenza di suo padre Giovanni Andrea Sirani, primo aiuto di Guido Reni, nell'"arrischiare a' pennelli" e avviare al confronto con un mondo al maschile quella figlia dotata. Che da subito, appena ventenne, esordiva alla grande nel 1658 con il Battesimo di Cristo in San Gerolamo alla Certosa, confrontandosi direttamente con la Cena in casa di Simone dipinta dal padre quattro anni prima per la parete di fronte. Ancora una sfida, questa volta per affermare quanto appreso al chiuso della bottega paterna, guardando e riguardando le centinaia di disegni che Giovanni Andrea, mercante e intenditore d'arte, aveva il compito di periziare per il granduca di Toscana. E per mettere a frutto le decorazioni pittoriche e le pale d'altare impresse furtivamente nel suo sguardo d'artista ogni volta che le si offriva l'opportunità di recarsi in chiesa per assolvere ai suoi doveri di fedele o di visitare, al seguito del padre, i palazzi della nobiltà cittadina, unica deroga alla reclusione forzata nell'impresa di famiglia.
I risultati furono da subito eccellenti e la Sirani decollò sul mercato ampio e competitivo delle committenze altolocate. Ma senza trascurare, in questa prima e importantissima occasione pubblica, di veicolare l'immagine di sé stessa. Quella più vera e rispondente, perché scelse di ritrarsi come Santina in una tela oblunga già collocata alla sinistra del dipinto, in seguito rimossa e decurtata (Bologna, Pinacoteca nazionale). Un ritratto spirituale dove si riassume un percorso interiore alla sequela di Cristo, si potrebbe dire, valutando la destinazione originaria del quadro all'interno del ciclo cristologico della Certosa. Un'affermazione impegnativa, soprattutto a quell'età, quando però erano già evidenti nella sua formazione le conseguenze della proficua "sintonia di anime" stabilita abbastanza presto con l'oratoriano Ettore Ghisilieri, suo committente e padre spirituale, senza contare la frequentazione regolare del monastero del Corpus Domini, a pochi passi dallo studio di via Urbana.
Prende forma in questo modo il versante devoto della sua produzione, tra committenza laica e religiosa. Una committenza "fatta di anime desiderose di consolazione sensibile nell'unione con Dio" alle quali Elisabetta propone "un cammino di velluto verso l'Alto, nella profusione di sensazioni tattili e visive, calde come il tepore di mani materne. Piccoli dipinti da toccare con gli occhi nelle preghiere solitarie recitate nella propria stanza da letto: immagini desiderate da uomini, ma soprattutto da donne perché visualizzano un sacro in lingua materna". Così Vera Fortunati chiarisce, come meglio non si potrebbe, la vena mistica profonda che percorre come un fiume sotterraneo la produzione sacra dell'artista. Alimentata, senza dubbio, dall'accensione sentimentale ispirata da Correggio e Cantarini ma restituita in una versione personalissima e squisitamente femminile del soggetto (Gesù Bambino e San Giovannino, Bologna, collezione Lucchese Salati; Madonna col Bambino e San Giovannino, Pesaro, Musei civici).
Diventa così sempre più netto lo scarto rispetto alla rappresentazione di un artista uomo, alla quale la Sirani contrappone un uso nuovo e più terreno dei simboli della tradizione. E dell'iconografia. Prima fra tutte la Madonna del latte, più volte raffigurata (Modena, Banca popolare dell'Emilia-Romagna; Bologna, collezione Righi; Praga, Narodni Galerie); tema "difficile" e ufficialmente non gradito alla controriforma ma utilizzato di frequente dall'artista - spesso in Sacre conversazioni (Sacra famiglia delle ciliegie, collezione privata) - nei termini del racconto umanissimo e commovente di un sacro al femminile. "Frammenti di un dialogo nel tempo", come scrive la Fortunati; un colloquio intrecciato sia con i pittori che con le donne artiste e ripercorso dalla studiosa nel catalogo della mostra. Dove poi Jadranka Bentini e Armanda Pellicciari tracciano la mappa dell'evoluzione artistica della pittrice nel confronto allargato con lo scenario pittorico di metà Seicento.
È tra il quarto e il quinto decennio del secolo che artisti come Gessi, Cantarini e Desubleo rielaborano in un'interpretazione autonoma la grande lezione di Guido Reni, della quale Sementi e Giovanni Andrea Sirani avevano fornito una riproposizione in chiave sempre più accademica. Rispetto a questi modelli la giovanissima Elisabetta si discosta avvicinandosi piuttosto alle figure morbide e seducenti dei pittori veneti, funzionali alle strutture compositive sempre più articolate nelle quali è maestra, grazie a una rapidità esecutiva non comune e a un'autorità riconosciuta che le varrà il titolo di accademico di San Luca. A queste date, lo studio-gineceo di via Urbana è davvero un'attrazione cittadina. Un salon da segnalare ai visitatori di passaggio. Sono aristocratici, nobildonne, ecclesiastici d'alto rango, legati pontifici, e purtroppo anche padri inquisitori, i frequentatori del cenacolo della Sirani. Un cenacolo femminile dove si dipinge, si fa musica e si intrattengono dotte conversazioni.
Perché la formazione di Elisabetta fu umanistica, prima di tutto, maturata sulla ricchissima biblioteca di casa Sirani e integrata dalle lezioni di Luigi Magni. E non dovette essere da meno quella delle sue allieve, restituite correttamente alla storiografia moderna dai saggi di catalogo di Irene Graziani e Massimo Pulini e da un capitolo, densissimo, nella monografia di Adelina Modesti. Sono le sorelle Barbara e Anna Maria Sirani, Ginevra Cantofoli, Lucrezia Scarfaglia, Veronica Franchi, Maria Oriana Galli Bibiena, le protagoniste di quest'accademia, dove si elabora l'identità della donna artista allusa simbolicamente nel ricorso frequente a tipologie archetipe femminili. Numerose e ricorrenti sono infatti le raffigurazioni di repertorio nelle quali Elisabetta e le sue allieve amano identificarsi di volta in volta, ritraendosi implicitamente nelle eroine del passato. Moltissime le Sibille, allusive all'intellettualità della donna istruita in quanto custodi di una conoscenza superiore; frequente il tema della Maddalena, esempio di sapienza e di vita contemplativa (Modesti). Poi il teatro delle femmes fortes: Porzia (Houston, Stephen Warren Foundation), Timoclea (Napoli, Capodimonte) e Giuditta (Stamford, Burghley House): donne che privilegiarono il coraggio e l'eroismo testimoniando al tempo stesso la cultura letteraria della pittrice.
Non ultima nell'attività della Sirani la produzione dei ritratti, indagata nel catalogo della mostra da un denso studio di Angela Ghirardi sul valore sia pittorico che sociale di questo settore di produzione, espresso con una straordinaria rapidità di esecuzione. Non c'è dubbio che soprattutto negli autoritratti Elisabetta rivelasse una consapevolezza precoce della propria autonomia d'artista, tradotta nella ricerca, altrettanto consapevole, di un'identità personale da comunicare al pubblico. Attraverso l'immaginazione, ma con una profonda conoscenza della moda e dei tessuti, era solita trasfigurare la realtà in un teatro nel quale recitare sé stessa, con sapiente regia creativa, rielaborando la propria immagine oltre i confini angusti della sua esistenza. Così, i personaggi diventano metafore in grado di superare la realtà; raffigurati spesso in vesti allegoriche, storiche, mitologiche o religiose - Anna Maria Ranuzzi come Carità (Bologna, Collezioni d'arte e di storia della Cassa di Risparmio) - secondo la moda pittorica del tempo, vivono recitando, mentre la loro immagine reale si arricchisce dell'iperbole simbolica.
Un destino al quale non sfuggì Elisabetta, "spettacolo pubblico" anche nella morte, sopraggiunta nel 1665, a ventisette anni, per l'insorgere di una peritonite conseguita a un'ulcera ma addebitata per secoli a sospetto veneficio, del quale fece le spese la servetta di casa, condannata al carcere e poi esiliata. Un disturbo somatico, in realtà, come oggi lo chiameremmo, dovuto al sovraffaticamento - ben duecento tele in dieci anni - e alla probabilissima ribellione, non sopita, che quella donna geniale doveva portare in sé stessa (i viaggi mancati, l'affettività negata). Si spegneva così, precocemente, questa artista prodigiosa che con la sua attività aveva tracciato autorevolmente il nuovo corso della pittura bolognese di fine secolo ai suoi colleghi: tra i primi, Cignani e Pasinelli.
Della leggenda di Elisabetta Sirani si impadronì l'Ottocento romantico, che ne consegnò l'immagine a una produzione editoriale a fini edificanti illustrata in catalogo da Valeria Roncuzzi. Di Elisabetta scrisse persino il ministro Minghetti, "mosso dal valore di lei, dalla purezza del carattere, e dalla fine misteriosa", liberamente elaborata, nel tempo, in numerose rappresentazioni teatrali. Fino alla più recente, scritta da Davide Rondoni ed edita in occasione delle manifestazioni bolognesi in onore della pittrice.3
Note
(1) Elisabetta Sirani "pittrice eroina" 1638-1665, a cura di J. Bentini e V. Fortunati, Bologna, Editrice Compositori, 2004.
(2) A. Modesti, Elisabetta Sirani. Una virtuosa del Seicento bolognese, con prefazione di V. Fortunati, Bologna, Editrice Compositori, 2004.
(3) B. Buscaroli, D. Rondoni, Il Veleno, l'Arte. Storia vera e teatrale di Elisabetta Sirani pittrice, Genova-Milano, Marietti 1820, 2004.
Azioni sul documento