Rivista "IBC" XII, 2004, 4

Dossier: Per qualche riga in più - Quando le istituzioni comunicano i beni culturali

musei e beni culturali, dossier /

I percorsi dei beni culturali: un nuovo modello?

Peppino Ortoleva
[presidente dell'impresa culturale Mediasfera di Firenze]

Come è cambiato e perché è cambiato negli ultimi venti-venticinque anni il modo in cui il pubblico si accosta alle grandi opere d'arte? E qual è, e può essere, il ruolo dei media in questo contesto? Sono i temi di una ricerca che Mediasfera, la società di ricerca nel campo dei media di cui sono presidente, ha condotto nel 2001-2002 per la Fondazione Giovanni Agnelli: una ricerca, di cui vorrei oggi ripercorrere i principali risultati, che si è concentrata su alcuni grandi complessi artistico-monumentali del nostro paese per rilevare, anche attraverso la raccolta di dati e l'osservazione diretta, il mutare di atteggiamenti, itinerari, modalità di comunicazione. I complessi studiati sono stati, da nord a sud, il Borgo medievale di Torino, le Ville venete, l'affresco del Buono e del Cattivo governo di Ambrogio Lorenzetti a Pisa, il Borgo di Montefalco, i Bronzi di Riace. La ricerca è stata coordinata, sotto la mia direzione, da Maria Teresa Di Marco, e il gruppo di lavoro era formato da Sabina Addamiano, Flavio Febbraro, Antonella Gioli, Paola Pallavicini, Susanna Salvadori.

Alcuni dati facilmente osservabili, oggetto in questi anni di frequenti e spesso polemiche discussioni anche sulla stampa "generalista", indicano in effetti l'esistenza di diversi processi, convergenti anche se non riconducibili a un'unica causa, in direzione dell'affermarsi di nuovi e in parte inediti modelli di fruizione del bene artistico, in particolare di quei grandi complessi che possono essere mèta di un viaggio, e che più spesso sono sotto i riflettori dei grandi media.

Il primo processo, che è cominciato ad emergere sui giornali dei primi anni Ottanta con l'inatteso successo delle mostre fiorentina e romana sui Bronzi di Riace, e poi con il fenomeno più vasto delle grandi mostre nelle città d'arte, è l'apparizione di un nuovo pubblico dei beni culturali: nuovo per le sue dimensioni, ma anche per i suoi comportamenti, affascinato a volte da artisti e opere fino a poco tempo prima considerate elitarie, quanto spesso indifferente a figure più note ma non avvertite come attuali. Un pubblico che diversi interventi polemici definivano come condizionato dalle mode, ma che si è dimostrato persistente e a suo modo appassionato. Un pubblico, potremmo dire riprendendo una terminologia propria del cinema, che appare più spesso interessato a opere ed autori "cult" che a "classici".

Il "cult" riguarda quel patrimonio artistico che sembra suscitare consonanze specifiche in un certo momento o in una certa fase storica; e può riscoprire di colpo anche artisti tradizionalmente considerati minori, da Artemisia Gentileschi all'Arcimboldi, oppure proporsi di reinterpretare artisti notissimi, come Vermeer (dal film di Jon Jost Tutti i Vermeer di New York ai recenti successi letterari e cinematografici legati alla vita del pittore di Delft), o Leonardo, autore del quadro più celebre del mondo ma oggetto non casualmente, in questi anni, di riletture "esoteriche". I fenomeni di "culto" in tutti i casi fanno sentire l'ammiratore non parte della massa generica e indifferenziata, ma membro di una cerchia ristretta ed elitaria di persone al corrente. Massificazione e (presunto) elitarismo si erano intrecciati già a partire dagli anni Sessanta con l'emergere del gusto camp in relazione a cinema, fotografia, fumetto; successivamente questo curioso intreccio ha, nell'arco di una generazione, ampliato il suo raggio d'azione e "alzato il tiro", per rivolgersi ad aree culturali più consacrate dalla tradizione.

Un secondo processo da considerare è la crescente rilevanza di quella che con espressione ormai abusata Walter Benjamin chiamava la "riproducibilità tecnica" dell'opera, ma che oggi si potrebbe chiamare piuttosto la "vita extracorporea" del bene culturale, dell'opera. Rilevanza in termini giuridici e di business, in quanto l'applicazione alle opere d'arte della normativa sul copyrightsta diventando una fonte di reddito essenziale per molti musei, in diretta competizione con gli introiti delle biglietterie; ma anche rilevanza sociale, in quanto l'aver visto la riproduzione è in molti casi il motore della visita, e la riproduzione è, forse più ancora del ricordo, quello che il visitatore riporta a casa con sé.

Ho parlato comunque di "vita extracorporea", e non solo di riproduzioni, perché oggi il rapporto del pubblico con l'opera si sta articolando e complicando, dà vita a una fitta serie di oggetti, quelli che si trovano nei negozi annessi ai musei, ma anche nelle botteghe e bancarelle circostanti, e sempre più spesso anche in rete. È un tema, anche questo, di osservazioni compunte, spesso moraleggianti: si nota che i visitatori passano spesso più tempo negli acquisti presso gli shop museali, di quanto ne dedichino ad osservare le opere. È vero (e tra l'altro è anche questa una fonte essenziale di reddito per le amministrazioni museali); ed è un fenomeno molto simile a quello che nel campo del cinema si chiama il merchandising, cioè la creazione di prodotti che in qualche modo alludono ai contenuti del film di successo, quasi per poterne acquisire col denaro i personaggi e gli stili, per poter prolungare l'esperienza dello spettacolo con altri mezzi. Analogamente, chi compra nel museo il notes con la riproduzione in copertina, o il bicchiere che riprende un fregio, o simili, può avere la sensazione non solo di portare con sé un souvenir ma anche di poter fare vivere l'opera con sé nel suo ambiente domestico. Inoltre, parlando di "circolazione extracorporea" facciamo riferimento al prolungarsi nel tempo del contatto con l'opera. La visita è preparata sempre più spesso da una serie di eventi mediatici che la precedono, e che la condizionano perché definiscono le aspettative del visitatore. Ed è seguita da forme di richiamo: mail provenienti dal museo visitato, siti internet cui si viene invitati ad accedere.

Un terzo processo in corso è quello sintetizzato dal titolo che abbiamo dato alla ricerca: "Dall'opera all'esperienza". Un titolo che vuole sottolineare come nella fruizione delle grandi testimonianze dell'arte, oggi, la pura contemplazione dell'opera tenda a lasciare il posto a una richiesta di partecipazione, e a forme di interazione, quanto meno simbolica, con l'opera stessa. In questa direzione vanno i tanti sussidi "interattivi" nel senso informatico del termine, che accompagnano, ma spesso precedono e anche seguono, la visita a musei e complessi artistici. Nella stessa direzione vanno gli interventi ludici che sono in generale mirati al pubblico più giovane, ma che sempre più spesso toccano anche quello adulto, inclusa la recente moda dell'"animazione" dei musei con attori e mimi.

La ricerca di integrazioni ludiche e multisensoriali dell'esperienza che prima era puramente, e quasi asceticamente, visiva ("guardare e non toccare è cosa da imparare") si manifesta anche negli oggetti in vendita negli shop e nei negozi circostanti i luoghi deputati dell'arte, e a volte anche al loro interno. Pensiamo ad esempio alla tendenza largamente sviluppata a diffondere musica di accompagnamento alla visita, musica che solo in qualche caso risponde a precisi progetti narrativi o esplicativi, mentre assai più spesso è pensata come generico "ornamento". Alla Frick Collection di New York, ad esempio, si diffonde nelle sale la musica eseguita da piccoli complessi da camera, e scelta senza alcuna relazione con le opere esposte. Nella recente, e bella, mostra fiorentina su Botticelli e Filippino Lippi, accanto a un brano di musica quattrocentesca motivato dal fatto che un frammento della partitura appariva in uno dei quadri esposti, si potevano ascoltare brani jazz scelti sicuramente con gusto ma in modo del tutto arbitrario.

Anche la tendenza, di cui si parlava prima, a forme di "cult" applicato all'arte, va nella stessa direzione, in quanto sembra presupporre una sorta di relazione elettiva tra il visitatore e l'oggetto che sta guardando, una sorta di dialogo personale basato non, o non solo, sui valori estetici ma anche e soprattutto sulla convinzione di poter cogliere nell'opera stessa segnali e messaggi in qualche modo mirati. L'opera diventa così un'esperienza del tutto privata di chi la contempla, esperienza che in alcuni casi arriva ad assumere sembianze mistiche o iniziatiche: pensiamo ai grossi flussi di visitatori mossi dalla curiosità per i luoghi richiamati dal Codice Da Vinci.

Il processo che porta a una (spesso illusoria) sensazione di contatto profondo e personale con le grandi opere del passato è coltivato in effetti da un nuovo genere letterario e cinematografico, la fictioncostruita a partire da un quadro o da un affresco, genere al quale gli shop dei musei anglosassoni dedicano interi scaffali, e che più di recente ha prodotto, come si ricordava, autentici best seller. Ma oltre i romanzi e i film, anche altri mezzi di comunicazione svolgono un ruolo fondamentale in queste tendenze. Ricordiamo ad esempio il fenomeno che ha di recente suscitato le reazioni spesso fintamente indignate di tanti giornali: la "scoperta" di un castello piemontese da parte di un largo pubblico in quanto location di uno sceneggiato televisivo di successo.

E vale la pena di notare, anche, che oggi tra gli organi che parlano maggiormente di beni culturali in Italia c'è la cosiddetta "free press". Questi giornaletti, fatti di pochissime pagine e di lettura scarsamente impegnativa (anche perché concepiti per essere fruiti in un breve intervallo di tempo), dedicano spesso spazio ai fatti dell'arte, in particolare ai grandi restauri e alle grandi mostre. Ciò si deve in parte al fatto che questi eventi si prestano all'inserimento di immagini a colori che fanno richiamo in copertina, in parte al desiderio di intercettare un pubblico giovane e colto: proponendogli comunque l'arte non come patrimonio duraturo ma come successione di fatti irripetibili, da godere finché sono "attuali".


Credo che le osservazioni proposte finora abbiano dato una schematica idea dei processi che promuovono, accompagnano, rendono visibile il cambiamento in corso nei modi di fruizione dell'arte. Proviamo ora a sintetizzare con maggiore chiarezza ciò che distingue il modello tradizionale di pubblico e di visita da quello che si sta affermando.

Per farlo, proverò a schizzare un confronto tra la forma classica di guida turistica - di cui i Baedeker sono stati il paradigma e di cui tuttora i volumi del Touring rappresentano uno splendido esempio - e una delle nuove guide che si sono imposte sul mercato negli ultimi dieci anni. Farò riferimento in particolare alle guide della Lonely Planet, di origine australiana ma diffuse in tutto il mondo anglosassone ed edite anche in italiano in una serie ottimamente curata da Cesare Dapino per l'EDT; ma si possono fare altri esempi come le Guides du routard, di origine francese. Attenzione: non intendo individuare tra questi un modello di guida "migliore" o "peggiore" di un altro, anzi posso confessare che personalmente tutte le volte che mi capita cerco di usarle entrambe per rispondere a esigenze diverse e che considero complementari; ma credo siano indizi chiari di concezioni differenti, e legate a differenti fasi storiche, del pubblico che fruisce il patrimonio artistico e dei modi della fruizione.

La guida del Touring, nella tradizione dei Baedeker, fa riferimento a un modello di visitatore che ha prima di tutto alcune solide nozioni di base di storia e soprattutto di storia dell'arte. I nomi degli autori maggiori possono essere dati per conosciuti, e si suppone che chi legge la guida sappia che Donatello è un grande scultore fiorentino del Quattrocento e che Tiziano è un grande pittore veneziano del XVI secolo. Non si può supporre che riconosca altrettanto rapidamente il nome di Neri di Bicci o quello di Defendente Ferraris, e la guida su questi autori lo aiuta fornendogli i dati essenziali di contesto.

Il visitatore modello a cui si rivolge implicitamente questo tipo di guida appare disponibile a fare propri i giudizi della critica accreditata. Il sistema degli asterischi (che è stato ripreso dalla critica cinematografica, a fini in fondo non dissimili) indica le priorità da seguire nella scelta dei luoghi, ed è basato su un consenso critico solido e a volte anche un po' conservatore. Beninteso, i volumi del Touring sono aggiornati e colti, per cui a ogni nuova edizione tengono conto delle nuove valutazioni della critica, e in generale dello stato degli studi. Da questo punto di vista, queste guide restano inimitabili e di gran lunga le più affidabili; non c'è però spazio per giudizi soggettivi degli autori, se non implicitamente e rispettando la retorica dell'obiettività.

Inoltre le guide del Touring propongono soprattutto itinerari visivi e sequenziali. Presuppongono un visitatore che viaggia per vedere, usando lo sguardo come senso primario, se non unico. E un visitatore che guarda una serie di luoghi e una serie di opere in successione. Come il museo tradizionale (cioè, in realtà, tardo-ottocentesco) è una sequenza di quadri e/o sculture, ordinate generalmente per secoli e nazioni in sale numerate, così anche le località piccole si presentano come "sequenze" di testi da percorrere in successione, mentre quelle più grandi o ricche di arte vengono suddivise in itinerari, anche questi numerati, da seguire a piedi individuando man mano le opere di architettura, scultura, eventualmente di pittura che si possono incontrare, e i luoghi storicamente rilevanti. In questi itinerari, i ristoranti, indicati tipicamente in corpo minore e in una parte diversa del volume, o quanto meno in uno spazio distinto all'interno delle diverse schede di località, si presentano come pausa, un intervallo possibilmente buono e gradevole, ma parte di un'esperienza nettamente separata da quella della visita alle bellezze artistiche o anche paesaggistiche.

Finora ho parlato di un "modello" di pubblico che queste guide presuppongono. In realtà il rapporto che stabiliscono coi loro utenti (si tratta infatti di un medium da utilizzare più che da assorbire) è più complesso. Da un lato esse danno per scontate nel visitatore, come si è visto, alcune nozioni di base, dall'altro lato gli forniscono conoscenze più approfondite, stimolando la sua curiosità e offrendogli il modo di aggiornarsi rispetto al periodo dei suoi studi. Da un lato gli chiedono di essere dotato di una certa cultura, dall'altro gli danno la possibilità di sentirsi, per il fatto di usarle, una persona colta. Insomma questo medium presuppone un pubblico e contemporaneamente contribuisce a crearlo.

Anche la guida della Lonely Planet (che abbiamo scelto, ricordiamolo, come esempio di un paradigma più ampio) si rivolge a un pubblico "dato" e insieme lo forma. Ma è un pubblico completamente diverso. I percorsi che queste guide propongono mostrano una minore attenzione ai valori critici generalmente riconosciuti, e una maggiore attenzione ai particolari curiosi, alle novità, all'inedito. Tendono a integrare le informazioni relative all'arte con quelle relative all'offerta musicale e teatrale, e il tutto con indicazioni dettagliate sui luoghi dove mangiare o bere, divertirsi: in sostanza presentano una città, o un quartiere, come una realtà unitaria. Presentano i loro itinerari da un dichiarato, e a volte ostentato, punto di vista soggettivo, spesso ironico (in particolare verso i luoghi comuni, reali o presunti, del turismo "di massa") e a volte anche polemico. Tendono a costruire, più che degli itinerari, dei percorsi narrativi: che contengono racconti di esperienze fatte, ma sembrano soprattutto proporsi come falsariga per i futuri racconti di chi la guida la usa.

Inoltre, ed è l'aspetto più sorprendente, presuppongono (e formano) un pubblico più aggiornato che colto, al corrente delle tendenze recenti dell'arte, dei consumi e del costume; e un pubblico differenziato al suo interno. Non l'uditorio generico dell'audience televisiva, che appare anzi un modello negativo da evitare: è significativa in questo senso non solo l'ostilità per tutto ciò che possa sembrare stereotipato, ma anche la pressochè totale mancanza di informazioni sull'offerta televisiva nei diversi paesi (e queste guide in genere sono molto attente a tutti i modi di passare il tempo). Non l'uditorio astrattamente "universale" e in effetti idealizzato delle guide del Touring, fatto di persone razionali, di gusto solido, disponibili a investire il loro tempo in perfetta proporzione alla qualità di ciò che vedranno. Piuttosto un insieme di fasce sociali distinte, dalla Lisbona (ad esempio) dei gay alla Lisbona dei giovani, alla Lisbona delle single e così via, che si suppone abbiano interessi diversi e "culture" diverse nel senso etnografico del termine. I diversi itinerari offerti a queste fasce di pubblico possono includere, in pari misura e senza soluzione di continuità, angoli caratteristici e suggerimenti di acquisto, chiese e ritrovi notturni, ristoranti e monumenti. In questa chiave, il prodotto artistico non è più un'opera che si trova dentro un luogo ma che nel suo valore potrebbe prescinderne almeno parzialmente; è parte integrante del luogo, e dalla sua collocazione trae, in misura non piccola, il suo senso.

Coerentemente, queste guide sottolineano e integrano nei loro percorsi esperienze non strettamente visive: danno risalto agli aspetti sonori della vita urbana, agli odori dei luoghi che si visitano, e all'offerta enogastronomica presentata come caratterizzante delle diverse aree urbane. La visita si presenta insomma come un insieme di esperienze multisensoriali e inscindibili tra loro dall'aspetto visivo. Non una sequenza lineare di sguardi su singoli oggetti, ma un racconto complessivo del quale tutti gli oggetti entrano a fare parte. O meglio, come si diceva, una falsariga di racconto, un paradigma narrativo, un po' come la cartolina è stata a lungo il paradigma a cui si ispirano gli scatti fotografici effettuati on location.

Non bisogna comunque pensare che il modello di pubblico a cui fanno riferimento queste guide sia più "concreto" di quello delle guide del Touring: si tratta di diverse astrazioni, diversi "tipi ideali". Senza dimenticare che spesso gli sforzi di comunicazione più consistenti, anche nel nostro campo, si rivolgono ancora a una terza idea di pubblico, forse la più astratta di tutte, cioè la massa indifferenziata e immensa (e in quanto tale, si pensa, massimamente redditizia): i viaggiatori delle ferrovie che costituiscono il target delle campagne di promozione di alcune regioni, il pubblico televisivo di cui tutti facciamo parte e nessuno si sente fino in fondo parte, e del quale tutti gli enti per il turismo sognano di ottenere, almeno per un attimo, l'attenzione. Quello che conta per noi non è la verità di questi modelli di pubblico, verità in larga parte sospetta e complessivamente non verificabile, è semmai la loro successione nel tempo, che appare comunque l'indice, seppure indiretto, di tendenze reali.


In altri termini, se il visitatore un po' snob e un po' anticonformista, comunque in cerca di esperienze, prospettato dalle guide stile Lonely Planet è un tipo ideale, è vero però che la sua introduzione costituisce un segnale. E questo ci riporta al tema iniziale, cioè alla domanda di esperienza, non più di sola conoscenza ed emozione estetica, connessa oggi all'opera d'arte. Vorrei citare altri due indizi, credo abbastanza eloquenti, di questa crescente domanda.

Il primo segnale è l'imporsi del parco a tema, non più solo come luogo di intrattenimento per bambini e masse indifferenziate, ma anche come modalità di fruizione, applicabile in qualche caso a opere culturalmente significative. Quando Disney nei primi anni Cinquanta cominciava a prospettare ai suoi collaboratori il progetto di Disneyland, quasi tutti esprimevano scetticismo: "Chi vuoi che prenda un aereo per andare a vedere dove abita Topolino? Tutti sanno che Topolino non abita da nessuna parte". Sappiamo come è andata a finire. Per un lungo periodo lo scetticismo ha comunque continuato a prevalere in tutta la "vecchia" Europa: si diceva che Disneyland poteva funzionare davvero solo negli USA, così poveri di storia e di senso del patrimonio culturale. Poi, quando i parchi a tema, generalmente in forma di imitazione, si sono diffusi anche da noi, molti lo hanno interpretato come un segno di decadenza culturale, di "americanizzazione" più o meno consapevole.

In realtà, il modello comunicativo del parco a tema non è di per sè più "decadente" di altri legati alla tradizione. Ad esempio, una delle novità più interessanti, secondo me, nell'ambito della museografia italiana di questi anni è il Parco archeominerario di San Silvestro, vicino a Campiglia Marittima, nell'alta Maremma, realizzato da alcuni tra i maggiori studiosi di archeologia medievale, Riccardo Francovich e la sua équipe dell'Università di Siena. L'archeologia medievale non è, in Italia, generalmente frequentata dal grande pubblico, eppure San Silvestro è uno dei siti più visitati della Toscana rurale. Il villaggio e la miniera sono ricostruiti con assoluto rigore, nel più totale rispetto dei reperti, ma sono arricchiti da una serie di strumenti informativi a carattere interattivo, e soprattutto si prestano a una visita sorprendente e non priva di momenti ludici. La tendenza verso il parco a tema prima di essere giudicata richiede di essere analizzata e compresa: anche nelle sue potenzialità.

Un altro indizio della crescente centralità dell'esperienza multisensoriale nella fruizione dei beni culturali è lo sviluppo di itinerari che fondono le visite alle opere d'arte con l'enogastronomia. Da questo punto di vista, tra i nostri studi di caso il più interessante è stato quello del borgo di Montefalco, in Umbria, analizzato da Sabina Addamiano. Oggi il piccolo ma ricco museo del borgo, e gli stessi affreschi di Benozzo Gozzoli che costituiscono (per riprendere una terminologia classica) il più insigne tra i monumenti locali, sono tra le località più note dell'Umbria. La loro riscoperta, però, è stata favorita considerevolmente, se non prodotta, dal lancio di un vino di grandi doti ma quasi dimenticato, il Sagrantino DOC.

In questo caso, il vino ha fatto almeno in parte da "traino", per dirla in termini televisivi, ad alcune importanti opere d'arte. In altri casi, la presenza di forti attrattive enogastronomiche ha contribuito a dirottare flussi turistici. Per esempio, secondo una nostra ipotesi ancora in parte da verificare, il sorpasso operato da Siena su Pisa come seconda città d'arte toscana nei flussi turistici internazionali, potrebbe essere legato, oltre che ai valori paesaggistici, anche al fatto che Siena e il suo contado offrono prodotti enogastronomici meglio valorizzati (anche in connessione a mode recenti, come è il caso del suino "cinto") rispetto a quelli di Pisa, che ha nel Campo dei Miracoli un patrimonio incomparabile ma tutto e solo "da vedere".


La crescente centralità dell'esperienza nella fruizione delle opere d'arte è un processo di ampia portata, i cui motivi profondi non si possono affrontare in questa sede. Esiste però una tendenza diffusa a leggere i cambiamenti che abbiamo descritto in termini differenti e più superficiali: come indizi di una maggiore mutevolezza dei flussi turistici e di una crescente subalternità all'azione dei media e a quella delle mode. Molti enti locali si stanno così convincendo che il solo investimento che conti nel campo della valorizzazione dei beni culturali sia la promozione: un buon ufficio stampa, una spesa adeguata per spazi in televisione e sui giornali, e il grande pubblico arriva.

In realtà, il risultato finale della ricerca di Mediasfera - e forse il più importante - è che questo non è vero oggi come non era vero in precedenza. Un percorso artistico non può essere creato in assenza di opere rilevanti e capaci di parlare al pubblico; la qualità dell'esperienza enogastronomica può favorire la valorizzazione di patrimoni considerati minori ma non può compensare la loro mancanza, e comunque è anch'essa soggetta, col tempo, al giudizio critico di un pubblico comunque più esigente che in passato. In altri termini, il nuovo modello di fruizione non è più ingenuo, conformista o superficiale, rispetto a quello precedente, e d'altra parte non è più innovativo, trasgressivo o "intelligente". È un altro modello.

 

Azioni sul documento

Elenco delle riviste

    Istituto per i beni artistici culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna - Cod. fiscale 800 812 90 373

    Via Galliera 21, 40121 Bologna - tel. +39 051 527 66 00 - fax +39 051 232 599 - direzioneibc@postacert.regione.emilia-romagna.it

    Informativa utilizzo dei cookie

    Regione Emilia-Romagna (CF 800.625.903.79) - Viale Aldo Moro 52, 40127 Bologna - Centralino: 051.5271
    Ufficio Relazioni con il Pubblico: Numero Verde URP: 800 66.22.00, urp@regione.emilia-romagna.it, urp@postacert.regione.emilia-romagna.it