Rivista "IBC" XII, 2004, 4

Dossier: Per qualche riga in più - Quando le istituzioni comunicano i beni culturali

musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali, biblioteche e archivi, dossier /

I territori delle fondazioni

Angelo Varni
[membro del consiglio di amministrazione della Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna]

Prima di affrontare il tema assegnatomi, relativo al rapporto fra cultura e fondazioni bancarie, vorrei darvi una testimonianza in qualità di direttore della scuola di giornalismo dell'Università di Bologna. Quando fondai questa scuola caratterizzai il secondo anno di corso sulle specializzazioni giornalistiche; ed una delle specializzazioni che volevo mettere in campo era quella, appunto, sui beni culturali. Mi è stato ,però, molto difficile trovare degli specialisti in questo ambito e, dal momento che tali percorsi sono affidati appunto a giornalisti che seguono gli allievi per un certo numero di ore, alla fine ho ripiegato sulla specializzazione in beni ambientali. Il bene culturale, mediamente, non è ritenuto, all'interno della redazione, oggetto di una specializzazione giornalistica: questo spunto lo lascio alla riflessione di specialisti quali voi siete, in questo settore. Per di più non si trovano specialisti di beni culturali che lavorano stabilmente, come giornalisti, nei nostri quotidiani, fatta eccezione per le riviste specializzate.

Venendo al nostro argomento, le fondazioni, queste sono state oggetto - e lo sono ancora - di molta attenzione, accompagnata da molte critiche da parte del legislatore. Una critica riguarda proprio la capacità di realizzare un'azione culturale che sia in grado di suscitare davvero una crescita partecipata della società. Le fondazioni sono accusate di privilegiare interventi a pioggia, che si spalmano su un ventaglio infinito di settori via via beneficati. Come pure di cercare l'evento, quello "tra virgolette", che sia una sorta di magica porta d'ingresso per i presidenti e gli amministratori delle fondazioni verso il mondo dei media e le lusinghe ad esso connesse. Si lamenta che si effettuano interventi datati, poco riguardosi della sensibilità culturale attuale e che ci sia, sostanzialmente, un'assenza di riflessione su che cosa sia la cultura stessa sulla quale le fondazioni sono chiamate ad operare.

Non posso rispondere da solo - ammesso che ne sia capace - a questi, tanti, capi di imputazione. L'unica cosa che posso sottolineare è che le fondazioni riversano sugli ambiti della cultura, nelle sue diverse accezioni, una quantità di denaro molto elevata. Faccio un'altra considerazione. Non è detto che comportamenti alternativi a questi, che sono così stigmatizzati, trovino poi un consenso sociale maggiore. Pensiamo, ad esempio, agli interventi a pioggia. Se venissero abbandonati i finanziamenti che vengono distribuiti a convegni, concerti, iniziative sociali, mostre e varie altre manifestazioni, non è detto che coloro che operano nella società, poi, sarebbero maggiormente contenti se le fondazioni si indirizzassero su scelte autonomamente effettuate.

Mi preme sottolineare l'urgenza che le fondazioni colgano appieno il senso dell'intervento culturale che sono chiamate a compiere. E che riescano davvero a ritenerlo elemento decisivo del loro ruolo di prosecutori di compiti storici che gli organi, gli enti, le istituzioni da cui queste fondazioni promanano - parlo evidentemente di fondazioni bancarie - hanno sempre svolto, facendo ricadere nell'ambito territoriale di competenza gli effetti del risparmio accumulato nel luogo medesimo. Le istituzioni bancarie - che siano casse di risparmio, o monti - hanno sempre ricoperto una funzione importante perché hanno tenuto ben presente l'esigenza specifica del territorio nel quale operavano, anche in questo tipo di intervento, in senso lato "culturale". Un obiettivo perseguito già agli albori dell'Italia risorgimentale, su su fino ai giorni nostri. E quella prima Italia che si formava, un paese agricolo lontano da ogni progresso, trovò proprio nell'intervento culturale delle casse di risparmio, e in parte dei monti, un programma di interventi di carattere educativo, nonché simbolico, all'insegna del "fare gli Italiani", che forse nessun altro avrebbe potuto svolgere.

Troviamo, dunque, quegli ottimati che sedevano nei consigli d'amministrazione delle casse di risparmio intenti a costruire scuole e facoltà universitarie; a sostenere il minuto associazionismo di storia patria; a favorire aggregazioni e strutture benefiche municipalistiche. Noi ora potremmo obiettare che era poco chiara la distinzione tra il culturale e il sociale e che, viceversa, il tratto più comunemente percepito era sostanzialmente quello di una pratica di beneficenza. Ma nell'Italia di allora, era, tutto sommato, quanto mai importante sia sotto il profilo materiale sia sotto quello ideale. Era beneficenza, spesso mascherata da impulsi paternalistici, ma volta ad aiutare i ceti emarginati, che in questo modo potevano entrare nei circuiti colti, e a migliorare il livello di istruzione del paese.

Per lunghi decenni, nell'Ottocento, queste istituzioni là dove hanno potuto svilupparsi (più frequentemente nell'Italia centro-settentrionale) si sono radicate contribuendo ad una azione formativa che poi ha assunto lo Stato. E in questa nuova Italia che andava verso una dimensione di sviluppo industriale le casse e i monti non ritrovavano più il senso della specificità dei loro interventi neanche nel settore della beneficenza, che finì per perdere, tra la fine dell'Ottocento e soprattutto negli anni del primo conflitto mondiale, il tradizionale impegnato anelito vivificatore. Proseguì la ritualità dell'elargizione a soggetti; ma questa non era più vista come impulso alla crescita della collettività. Si ampliava piuttosto il segno dell'autopromozione. Una sorta di autogiustificazione: la presenza della cassa che svolgeva le funzioni bancarie e quindi poteva poi promuovere delle ricadute anche in ambiti ritenuti marginali e secondari.

Mi sembra che negli ultimissimi anni, con lo svilupparsi della nuova legislazione che ha riguardato le fondazioni, qualche cosa si sia modificato sotto questo profilo. Intanto è testimoniata una crescita, appunto, della concentrazione delle risorse in un numero minore di iniziative: ad esempio aumenta la consistenza delle erogazioni pluriennali, che sono maggiormente finalizzate a scopi che, per lo più, riguardano restauri, acquisizioni di opere d'arte o consimili. E su questo mi sento io stesso di muovere una critica, perché sono interventi esterni a iniziative promosse dalle fondazioni medesime. Sono risposte a domande rispettabilissime, naturalmente, che provengono da soggetti altri: le amministrazioni pubbliche, le istituzioni religiose, gli enti di assistenza ed ospitalità e così via. Che si attribuiscono, nobilmente, il diritto/dovere di individuare il terreno dell'operatività pratica delle fondazioni.

So che questo è un punto di snodo sul quale il mio discorso è destinato ad incontrare critiche ed osservazioni. Ma voglio farlo comunque, perché ne sono convinto. Tale modalità di risposta alle esigenze di raccordo tra istituzioni e fondazioni dà per scontato la delega del momento di elaborazione della proposta culturale al di fuori delle specifiche competenze delle fondazioni medesime. Quasi che queste non fossero mutate, non fossero diventate altra cosa rispetto alle antiche strutture creditizie, che avevano quei compiti culturali prima ricordati, che si muovevano tra paternalismo, beneficenza ed accrescimento del patrimonio. Eppure, a mio modo d'intendere, le basi normative e concettuali per un forte cambiamento ci sono tutte. Al di là dei contrasti che fermentano attorno alla governance delle fondazioni, non vi è dubbio che queste, adesso, siano state collocate dal legislatore ben dentro gli assetti socioculturali delle società di riferimento.

Le rappresentanze, qualunque sia la proporzione di queste, fanno riferimento ad amministrazioni, enti, associazioni, e sono naturali portavoce di una progettualità da cogliere negli intrecci dei processi in atto, e si esprimono, appunto, sedendo nelle fondazioni. Oggi non ci sono più solo i rappresentanti degli antichi soci, che hanno dato vita, cento e più anni fa, alle fondazioni. Ci sono i rappresentanti di quegli enti che esprimono i diversi assetti della collettività. E allora ritengo che solo un'autonoma creatività d'intervento possa giustificare un simile rinnovarsi delle forme di governo delle fondazioni. A questi amministratori si deve chiedere una capacità elaborativa ed operativa fatta di scelte che siano attente ad una lettura della società della quale loro stessi sono espressione formalmente ed istituzionalmente.

Anzi, dirò di più: questi tavoli di proposta, che sono presenti all'interno delle fondazioni, mi pare che, se correttamente operanti, siano gli unici luoghi di costruzione di una progettualità culturale esente dai bisogni di una politica legata magari alla contingenza, alla partigianeria, o anche, semplicemente, alle necessità del mercato. Tanto più che in quel tavolo l'incontro/confronto con la valutazione delle altre componenti non può fare altro che migliorare la rispondenza ad una domanda che sia davvero, non a parole, proveniente dal territorio. Le considerazioni sull'azione culturale delle fondazioni devono tener presente, accanto alla dimensione quantitativa dell'erogazione, gli aspetti qualitativi intesi come capacità di suscitare percorsi conoscitivi originali, di valorizzare segmenti della collettività, magari vitalissimi, ma troppo spesso trascurati.

Questo presuppone da parte delle fondazioni una modalità di azione volta a cogliere i diversi fermenti che vengono dalla realtà sociale. Senza delega ad altri, ma nel contempo senza presunzioni. Va creato un equilibrio tra i rappresentanti delle istituzioni (comuni, regioni, università, grandi associazioni) e coloro che detengono le competenze tecniche. Evitando da parte degli amministratori un controllo diretto che rischia l'autoreferenzialità, ma anche non assoggettandosi passivamente al giudizio di operatori esterni. La strada da seguire non può che essere questa: si può trovare un credibile quadro di riferimento solo spingendo al massimo la trasparenza e il principio di responsabilità.

Ma vorrei accennare anche ad alcuni dati concreti che riguardano l'azione delle fondazioni e che si connettono più specificamente al tema della comunicazione. Nel nostro territorio agiscono, sostanzialmente, tre fondazioni: la Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna; la Fondazione Carisbo e la Fondazione Cassa di risparmio di Imola. Tutte e tre le fondazioni, che conosco abbastanza nel loro operare, hanno cercato, negli ultimi anni, di restare in equilibrio tra i mille rivoli di domande, e quindi di erogazioni a pioggia. Ma hanno anche cercato qualche ipotesi di costruzione culturale autonoma: progetti forti, come si suole dire, quelli che poi consentono effetti comunicativi altrimenti irraggiungibili.

Per creare un aggregato di immagine, di consenso sociale, di attinenza con le esigenze della società le fondazioni rispondono a domande di intervento sui beni culturali. È una parte prevalente, forse, della spesa di tutte e tre le fondazioni. E vi sono anche alcuni grossi interventi. Se guardate le architetture della città, se partecipate ad un evento culturale, vi accorgerete che su tutto quello che viene fatto, ed è appartenente al "pubblico", figurano manifesti, cartelli, grandi striscioni della Fondazione Carisbo o della Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna. E questa è un'attività molto rilevante, ed è forse la forma più semplice e più facile di comunicazione. E non si tratta di soddisfare semplicemente domande che vengono da enti esterni. Gli interlocutori sono enti pubblici, la Chiesa, le soprintendenze, i comuni: questi scelgono accuratamente possibilità di miglioramento dell'esistente sotto il profilo architettonico e poi, attraverso un dialogo ed un confronto con le fondazioni, si arriva alla scelta degli interventi da effettuare. Quindi in questo caso si crea un rapporto con la fondazione che dà quei frutti - credo estremamente positivi - che vediamo tutti e che consentono un miglioramento concreto della realtà urbanistica, architettonica, artistica nella quale viviamo.

Poi ci sono attività diverse. Quella della Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna è sostanzialmente su due settori: uno è quello ancorato alla storia municipale, la storia di Bologna e, in parte, di Ravenna. Si realizzano convegni, volumi, presentazioni editoriali, anche con un taglio divulgativo, che serve soprattutto per coinvolgere un pubblico vasto in modo non episodico. Poi si è tentato, con qualche positività, di andare su un altro versante, un versante inedito per una fondazione bancaria che di solito si rivolge ad un pubblico non proprio giovanissimo come utenza dei propri servizi culturali: si è creato un Centro per la comunicazione e la musica - una "bottega", così è stata definita - affidandola ad un personaggio come Giovanni Lindo Ferretti, capace di guidare un gruppo di giovani verso una precisa e matura consapevolezza del rapporto tra comunicazione e musica nell'odierna società e di sviluppare competenze tecnico-creative in ambiti assolutamente originali.

La Fondazione Carisbo, da parte sua, sta investendo risorse materiali ed intellettuali certamente cospicue nella costruzione di un Museo della città: progetto grandioso e culturalmente originale di sviluppo di un luogo prestigioso destinato a riprodurre, nei secoli, il senso della vita collettiva della città. La Fondazione della Cassa di risparmio di Imola ha invece centrato la propria attenzione sui temi della storia del lavoro, approfittando di una dislocazione economico-territoriale per certi aspetti esemplare dell'intera vicenda del nostro paese. Convegni, libri, seminari si sono succeduti con risultati quantitativi e qualitativi di altissimo livello. Fino all'ulteriore recente passaggio verso l'acquisizione di una dimensione di ricerca anche sul tema dei beni culturali intesi quali esplicitazioni sul territorio del lavoro dell'uomo.

Esempi, dunque, tutti, di un'acquisita consapevolezza della necessità di individuare prospettive autonome di intervento culturale nella società, sempre incrociando le potenzialità presenti all'interno delle fondazioni con l'ascolto attento delle specifiche esigenze provenienti dalla società.

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