Rivista "IBC" XII, 2004, 4

Dossier: Per qualche riga in più - Quando le istituzioni comunicano i beni culturali

musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali, dossier /

Il caso Pompei

Giuseppe Gherpelli
[già citymanager della Soprintendenza archeologica di Pompei (Napoli)]

La legge n. 352 del 1997, quella che conferisce alla Soprintendenza archeologica di Pompei autonomia scientifica, organizzativa, amministrativa e gestionale, è una legge che, nei materiali che l'hanno preparata, rivela con sufficiente chiarezza le intenzioni del legislatore, che afferma di volere sperimentare una soluzione autonomistica in una realtà molto problematica e al tempo stesso di grandissimo impatto sul piano della comunicazione. Intendo dire che al legislatore erano certamente arrivate, per via giornalistica soprattutto, informazioni ripetute sulle gravi problematiche che attanagliavano la gestione della Soprintendenza archeologica di Pompei da parecchi anni, e di conseguenza aveva avvertito la necessità di interrompere, di spezzare una scarsa agibilità amministrativa anche nelle relazioni tra il centro e la periferia. La Soprintendenza archeologica di Pompei viveva uno status di "sostanziale" parziale autonomia anche prima che la legge gliene conferisse una di carattere sperimentale. Aveva già delle abitudini e dei comportamenti del tutto particolari, non omologabili a quelli delle altre soprintendenze.

Devo dire che nella prima fase di attivazione dell'autonomia di Pompei non ho dato immediatamente soverchia rilevanza al tema della comunicazione. È vero che, se vogliamo usare un eufemismo, sono stato accolto con diffidenza e subito interpretato come la longa manus di un più largo disegno di privatizzazione. In realtà, se mi è consentito il paradosso, ho semplicemente tentato di riportare alla gestione pubblica quello che per molti aspetti aveva finito per non rispondere più, nella sostanza, alle logiche e alle metodologie di gestione dello stesso Ministero per i beni e le attività culturali. Perciò, man mano che prendevo coscienza delle gravi condizioni in cui versava la gestione amministrativa della Soprintendenza, acquisivo consapevolezza che, proprio per sconfiggere le tendenze a soffocare l'esperimento che si stava avviando sarebbe stato necessario rompere l'isolamento e comunicare i risultati all'esterno con precisione e tempestività.

Naturalmente, a voler essere esaustivi, parlare oggi di comunicazione nell'esperimento di Pompei richiederebbe molto più tempo di quello disponibile, per cui mi concentrerò solo su alcuni, pochi aspetti dell'esperienza realizzata. La comunicazione nei confronti dei media ha richiesto un sostanziale rovesciamento della situazione: si è passati da rapporti con la stampa tenuti pressoché esclusivamente da taluni rappresentanti sindacali ad un ufficio stampa della Soprintendenza, frutto di una regolare gara pubblica. Oggi la Soprintendenza può contare sulla collaborazione di due giornalisti professionisti, su due addetti stampa in formazione: sviluppa comunicazione sulle proprie attività, svolge una funzione informativa di fondamentale importanza sia rispetto al pubblico dei visitatori, che rispetto alla comunità scientifica.

Che non tutto, però, sia stato sistemato nel migliore dei modi è dimostrato da un episodio ancora "fresco". Sulla prima pagina del "Corriere della Sera", nel luglio del 2001, ancora una volta Pompei è stata bistrattata con una disinvoltura irresponsabile. Un lungo, confuso articolo accompagnava la pubblicazione, in prima pagina, di una fotografia con la didascalia che recitava: "Panni stesi lungo gli scavi". Pompei vi veniva rappresentata attraverso una fotografia scattata da un "ufficio stampa alternativo" a quello della Soprintendenza, e come minimo non controllata dal giornalista, che pure aveva deciso farne l'emblema delle proprie "considerazioni": come una realtà da terzo mondo, dove l'assenza della gestione poteva produrre fenomeni di panni stesi lungo l'area archeologica più importante del pianeta. La fotografia fece il giro del mondo, infatti, in meno di ventiquattro ore, con un danno spaventoso al sito, ai suoi valori, al nostro Paese, agli operatori che faticosamente, a prezzo di pesanti sacrifici personali, stavano cercando di introdurre innovazione, efficienza e trasparenza nella Soprintendenza.

Non erano panni stesi da custodi non custoditi, né tracce di presenze abusive entro gli scavi: erano, molto più semplicemente, importanti reperti archeologici, riportati alla luce da una missione di studiosi di una università australiana, messi ad asciugare, dopo una delicata operazione di pulizia, in attesa del loro trasferimento in laboratorio per gli studi e le analisi occorrenti. Non solo: i reperti erano stati stesi, ovviamente, in una casa dell'antica Pompei non aperta ai visitatori, in quanto oggetto di uno scavo archeologico, e non erano assolutamente visibili, né da vicino né da lontano, ad alcuno dei visitatori che in quei giorni si fossero trovati a Pompei. Cinque colonne, in prima pagina, sul "Corriere della Sera", e quindi su venticinque quotidiani nel mondo, il giorno dopo. La smentita del "Corriere", dopo forti pressioni, fu pubblicata nelle rubrica delle lettere al direttore: lo studioso australiano, capo della missione archeologica, aveva avuto la facoltà di esporre la verità, in cinque righe, e ovviamente nessun giornale al mondo riprese la smentita. C'è ancora molto da lavorare: quel giornalista che si è lasciato tentare o è stato indotto in errore ha potuto contare su una straordinaria capacità di fabbricare notizie (inventate) maturata entro gli Scavi, ad opera di persone che utilizzano la comunicazione per scopi non leciti e comunque lontani mille miglia da ogni elementare senso di correttezza.

Poche parole sul sito internet della Soprintendenza, www.pompeiisites.org. Abbiamo contato fino a 37 siti che sfruttavano già, e da tempo, abusivamente, il nome della Soprintendenza di Pompei. C'era chi vendeva "ufficialmente" via internet perfino le foto di proprietà della Soprintendenza, chissà come ottenute. Fra vicende legali e accelerazioni decisionali, siamo riusciti a fare nascere il sito ufficiale, che ha un grande successo internazionale, rivolto come è a fornire informazioni e opportunità di studio a cittadini di cinque continenti. Credo, comunque, che ancora oggi il sito ufficiale della Soprintendenza archeologica di Pompei non sia il primo raggiungibile attraverso i grandi motori di ricerca americani: resistono, tenaci, i profittatori.

Abbiamo sperimentato anche forme di comunicazione interna, rivolta al personale operante presso la Soprintendenza (oltre 770 unità), allo scopo di eliminare ogni possibile deficit comunicativo. Vorrei però raccontarvi, un po' più diffusamente, l'esperienza della comunicazione nei confronti del pubblico; esperienza che era assente nel 1998 e quindi ha richiesto, innanzitutto, un gesto di umile adattamento delle necessità di conoscenza. Non era mai stato fatto alcun esperimento di analisi del pubblico di Pompei; le nozioni disponibili erano quelle ricavabili dai bollettini ufficiali del Ministero per i beni e le attività culturali, ossia quelle desumibili dalla vendita dei biglietti, che in quel momento esprimevano ancora solo un dato, e cioè se erano gratuiti o a tariffa intera. Non si disponeva di altri elementi di conoscenza del pubblico.

Con i primi due interventi realizzati abbiamo affidato ad una struttura specializzata un'analisi semestrale di campione del pubblico, e abbiamo strutturato un servizio di informazione al pubblico, servizio che ancora non c'era. La creazione di tre punti di informazione rivolti al pubblico, dove prima non ce n'era nessuno, ha determinato alcuni problemi di realizzazione, ma alla fine ha avuto ottimi risultati. Li abbiamo affidati - utilizzando delle agenzie di lavoro interinale - a ragazzi neolaureati poliglotti, creando un impatto non immediatamente positivo con il personale della Soprintendenza. Per sei mesi, però, mentre contemporaneamente procedeva l'indagine scientifica commissionata ad una struttura specializzata, abbiamo progettato e avviato il primo servizio di Infopoint gestito da personale specializzato, all'interno degli scavi di Pompei e di quelli di Ercolano.

Dopo questi sei mesi i primi dati hanno rovesciato le informazioni che empiricamente si erano accumulate nel corso del tempo: il 60% dei visitatori risultava di provenienza non italiana; le lingue più parlate non erano affatto nell'ordine che si credeva sicuro. Il pubblico arriva ancora oggi a Pompei, per il 65% dei casi, in gruppo. Il suo arrivo è il frutto di una scelta di tour operators che in realtà operano fuori d'Italia, ma che hanno naturalmente loro corrispondenti italiani. Il tempo medio di visita è di 1 ora e 40 minuti; i luoghi visitati dentro gli scavi sono circa il 25% di quelli visitabili.

A Pompei, fino al 1998, non era mai stata spesa una lira per la promozione, per la comunicazione, per la valorizzazione del sito: il visitatore arrivava, spinto dal tam tam che dura da oltre duecentocinquant'anni. Ad esempio, fra le 500 guide turistiche, esterne agli scavi, che operano nell'area circumvesuviana e principalmente attorno a Pompei, ce ne sono alcune che da più di due o tre generazioni hanno perfino l'appannaggio dei turisti provenienti da alcuni Stati americani! Fino al 1999, non c'erano guide, a stampa o di altro genere, per il pubblico. Non c'era alcun tipo di supporto per visitatori che non fosse il semplice servizio igienico largamente carente e, ovviamente, benché gratuito sulla carta, a pagamento nei fatti, quando lo si volesse utilizzare.

Affrontare questo problema di comunicazione ha comportato però anche affrontarne un altro, di non minore rilevanza ed impatto, anche per me che pure ero stato abituato ad affrontare situazioni non sempre facili. Per comunicare bisogna sapere innanzitutto che cosa si comunica e questo che cosa non va dato per scontato: a volte invece si dimentica che il lavoro di comunicazione deve essere fatto da chi è capace di farlo. E non necessariamente il migliore degli studiosi, degli archeologi, nel nostro caso, è in grado di comunicare le conoscenze che ha acquisito.

Ma c'è anche un altro aspetto molto importante, a cui accenno solo di sfuggita: i contenuti stessi vanno periodicamente, come minimo, verificati. Altrimenti il rischio che qualcuno si renda conto che un contenuto trasmesso è riferibile a studi degli anni Quaranta o Trenta del secolo scorso, è un rischio che si ribalta in termini di giudizio su chi oggi sviluppa le attività di ricerca e di scavo. E da qui può nascere qualche diffidenza per la creazione di strumenti innovativi, anche, di trasmissione delle conoscenze, che sono invece assolutamente essenziali in un caso come quello degli scavi archeologici di Pompei.

Nel momento in cui abbiamo dovuto affrontare i modi con cui organizzare questa trasmissione, questa comunicazione, abbiamo dovuto fare i conti con le lingue parlate dai visitatori, con i contenuti di cui ho velocemente accennato, ma anche con altri aspetti fondamentali: fra questi, ad esempio, la necessità di evitare - come alla fine abbiamo fatto - di realizzare una "città della comunicazione" dentro una città antica. Le didascalie applicabili al patrimonio storico artistico architettonico di Pompei potrebbero essere state sulle 9-10.000, se si fosse voluto essere attendibili e dare una comunicazione diretta. Con quello che ne sarebbe conseguito in termini di spazio occupato da supporti specifici lungo tutto il percorso degli scavi. La scelta che abbiamo fatto, dopo una lunga serie di riflessioni ed anche di analisi comparative, è stata quella di produrre, al riguardo, esclusivamente una guida cartacea, una pianta che non c'era prima e che oggi viene distribuita sia a Pompei che ad Ercolano gratuitamente: essa serve ad orientare e a segnalare le emergenze, nonché a dare una prima idea del patrimonio che si avvicina lungo il percorso.

Naturalmente questo non poteva bastare. Dentro gli scavi di Pompei e di Ercolano, in particolare, era inevitabile collocare una segnaletica connessa sia all'orientamento del visitatore rispetto alla città, sia all'orientamento del visitatore rispetto a taluni servizi essenziali. La scelta che abbiamo fatto e che si sta rivelando felice - credo di poterlo dire, dopo che è stata realizzata nei due scavi di Pompei e di Ercolano - è molto leggera: un centinaio di paline poste lungo gli scavi di Pompei, e poco più di una quarantina a Ercolano, permettono un orientamento efficace senza pregiudicare l'impatto visivo delle due città. È stato poi necessario dotarsi di un sistema di identità visivo coordinato della Soprintendenza archeologica di Pompei, allo scopo di restituire un'identità ai siti e di dare un senso di appartenenza al personale, ma anche per segnalare la diversità della gestione rispetto agli altri siti e per tutelare il marchio, il logo di Pompei rispetto agli abusi indecorosi e frequenti che continuano ad esercitarsi non solo via internet, ma anche su tutti i prodotti connessi con gli Scavi.

È stata un'esperienza molto interessante la gara per la scelta del logo e del marchio, una gara di carattere internazionale che ha registrato partecipazioni di straordinaria qualità. L'abbiamo affrontata dotandoci di esperti internazionali già in sede di elaborazione del bando, poi nella fase decisionale, ma anche in quella relativa alla applicazione delle scelte compiute. Abbiamo così potuto sperimentare la applicazione del marchio - ed è anche questo un fenomeno di comunicazione molto rilevante, con dei ritorni di carattere economico non trascurabili - a due tipi di prodotti: quelli enologici, realizzati da una delle più importanti aziende vinicole campane con utilizzo dei vigneti reimpiantati sugli antichi vigneti presenti nel 79 d.C. nella città antica di Pompei, e quelli cosmetici e di profumeria, ricavati dalle essenze che la letteratura e la ricerca archeologica hanno permesso di ricostruire con sufficiente precisione, e racchiusi in confezioni analoghe a quelle in uso nella Roma del I secolo dopo Cristo.

 

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