Rivista "IBC" XII, 2004, 4
Dossier: Per qualche riga in più - Quando le istituzioni comunicano i beni culturali
musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali, biblioteche e archivi, dossier /
Ho cercato di organizzare queste riflessioni sul dato istituzionale che, per un verso, è molto semplice: la comunicazione, posto che il settore dei beni culturali direttamente o indirettamente è pubblicizzato, è dominata da soggetti pubblici. E anche quando vi sono soggetti privati questi, con i soggetti pubblici, hanno relazioni molto strette. È il dato pubblicistico quello a cui possiamo prevalentemente fare riferimento. Ed è quello che gli organizzatori mi hanno chiesto di illustrare in questa serie complessa e molto articolata di interventi. In realtà io cercherò di rispondere a queste tre domande: in che modo e in che misura la comunicazione del settore dei beni culturali si differenzia dalla comunicazione pubblica generale; quali sono le dinamiche generali della comunicazione pubblica, le principali, che interessano anche questo ambito; quali sono le prospettive e, in particolare, i miglioramenti possibili.
Dal punto di vista fondativo delle norme, dagli anni Novanta problemi di comunicazione - nell'ottica dello Statuto giuridico dell'amministrazione - praticamente non ci sono più. Con la Legge 241 del 1990, infatti, si riconosce l'accesso ma soprattutto si rovescia il principio della segretezza dell'amministrazione. Fino al 1990 si insegnava che l'amministrazione era ispirata al principio di segretezza e che questa segretezza subiva delle eccezioni quando vi era un problema di tutela di specifici interessi. Si affermava il principio che "l'amministrazione è segreta", ma senza dirlo esplicitamente, ovvero dicendolo in modo più sottile: secondo il testo unico del '57 i pubblici impiegati erano tenuti alla riservatezza degli affari d'ufficio e alle informazioni che in base ad essi avevano ottenuto. Da questo al principio della trasparenza e della generale accessibilità, salvo elementi di protezione specifica, si tratta evidentemente di un rovesciamento di fronte.
Quindi il problema della comunicazione non soffre, in linea di principio, del problema di norme restrittive, salvo che non si tratti di dati specifici. Soffre enormemente dei problemi generali dell'amministrazione. Non a caso la comunicazione, intesa come funzione amministrativa, è stata largamente priva di paternità o di impegni particolari. In fondo tuttora, come lo stesso Gherpelli diceva nel suo intervento, nella quotidianità dell'amministrazione le risorse destinate a quest'area sono modeste; e ciò per una serie di problemi di cui cercherò di richiamare il contesto istituzionale.
Mi pare intanto che vi siano due livelli di analisi nettamente distinti: da un lato la comunicazione quotidiana e ordinaria, dall'altro la cosiddetta comunicazione straordinaria, quella dell'evento, dell'iniziativa particolare, che metterei subito da parte perché è legata alla peculiarità della circostanza, alla volontà di richiamare l'attenzione su quella determinata occasione. È la comunicazione su cui gli sponsor si muovono e di cui volentieri si curano, ma che rischia di avere un effetto "cono d'ombra", nel senso che mette in ombra, data la straordinarietà, l'ordinario che è sotto traccia, che non riesce ad emergere. Mi dedicherò dunque alla comunicazione ordinaria, sulla quale, proprio perché dominata dalle esigenze di tutela e conservazione, l'amministrazione dei beni culturali ha posto attenzione più recentemente, o almeno in termini non paragonabili rispetto al passato.
Partirei da una considerazione che sentivo da Gherpelli e che condivido: in ambito pubblico vi è una correlazione stretta tra comunicazione attiva e passiva, tra il comunicare e il poter disporre dei dati e degli elementi informativi: perché, ovviamente, non si può comunicare ciò che non si ha. Il che mette subito in luce il problema molto serio dell'accumulo di informazioni standard: il censimento, la catalogazione, in questo settore, sono alla base dell'informazione.
Parliamo dei dati e della loro evoluzione cominciando dalla comunicazione attiva: ciò che l'amministrazione offre di sé all'esterno. Qui ha prevalso a lungo un approccio tradizionale per cui la comunicazione era in funzione di garanzia: l'amministrazione comunicava quando ciò era funzionale a soddisfare esigenze di tutela del singolo. È un problema delicatissimo su uno dei postulati dello stato di diritto: quello cioè della conoscenza. Vale il vecchio detto ignorantia legis non excusat, nato dalla constatazione che, nonostante i più evidentemente non conoscessero le leggi, non si poteva ammettere che il fatto di conoscerle ne condizionasse l'osservanza, perché questo avrebbe messo in moto un meccanismo di delegittimazione. Il principio della ignorantia legis, nella sua assolutezza, è stato temperato alla fine degli anni Ottanta con una sentenza della Corte costituzionale - la 364 dell'88 - secondo cui era ammesso l'errore scusabile: nel caso in cui la norma era stata pubblicata in un bollettino introvabile. Anche questo, in un certo senso, ha dato un nuovo rilievo alla qualità della comunicazione.
In ogni caso l'elemento della garanzia della comunicazione è reso palese dal diritto di accesso sancito dalla Legge 241 del 1990: ognuno può accedere ai documenti per potersi documentare sui provvedimenti che l'amministrazione sta preparando nei suoi confronti, in modo da potersi difendere in via preventiva rispetto a quanto richiesto. L'approccio garantistico della comunicazione attiva, quindi, è il punto di partenza: quando c'è tutela, c'è anche bisogno di dare accesso in via preventiva.
Da questo punto di vista un'evoluzione importante si è verificata quando si è progressivamente esteso il campo pubblico della produzione di beni e servizi, soprattutto in connessione a due fenomeni: il pluralismo amministrativo, cioè la pluralità di unità amministrative che operano su un settore, e l'intervento di soggetti esterni all'amministrazione che operano e intervengono a volte in competizione (effetto delle liberalizzazioni/privatizzazioni). Il cambiamento si è verificato quando la pubblica amministrazione ha cominciato a perdere parte del suo monopolio: il nuovo scenario comporta offerte concorrenziali da parte dei privati, oppure il fatto che più soggetti pubblici offrano la stessa cosa.
Un esempio vicino: le università. Ad agosto occupano gli spazi pubblicitari dei giornali per comunicare la loro offerta formativa. Non lo avevano mai fatto, fino agli anni 1993-1994: hanno cominciato a farlo nel momento in cui si è aperta una sia pur tenue concorrenza tra atenei per catturare la matricola, l'iscrizione. Questa è comunicazione pubblica, attivata da un tenue meccanismo di competizione sempre in ambito pubblico, in modo da attirare il cliente. Si perde dunque il monopolio, si apre la concorrenza fra il pubblico, oppure lo stesso soggetto pubblico offre più prestazioni fra loro più fungibili: non ci sono più soggetti, ce n'è uno solo, ma questo solo offre tre modi di risolvere il problema. La comunicazione pubblica non è più legata soltanto al dato garantistico, ma si dilata, comincia a diventare un dato di offerta, di guida all'orientamento del possibile "consumatore".
Aggiungerei un altro dato, tuttora poco studiato ma a mio parere importante. La comunicazione attiva assume un altro significato importante, direi determinante, in tutta l'area della cooperazione tra pubblico e privato, oppure tra pubblico e pubblico: quando due soggetti devono cooperare fra loro, non si coopera se uno dei due, con cui si discute e si negozia, non mette le carte in tavola, non dice che cosa ha dietro le spalle, quali sono i suoi problemi, le sue risorse, le sue prospettive, i suoi tempi. Insomma: non si fanno contratti con persone di cui non si conosce il retroterra. Dunque, la cooperazione pubblico/privato o pubblico/pubblico accentua le esigenze di comunicazione attiva, cioè dall'amministrazione all'esterno. Perché senza comunicazione non si negozia, senza comunicazione non si coopera. Un grosso mutamento sta perciò avvenendo, sebbene in modo disordinato: sta maturando la consapevolezza che tutte le varie formule di valorizzazione della cooperazione pubblico/privato hanno bisogno di rapporti sani sul piano della comunicazione.
Vi è poi la comunicazione passiva, cioè la comunicazione ricevuta dall'amministrazione. E anche qui c'è un livello tradizionale ed uno che mi pare in trasformazione. L'amministrazione aveva pochi apparati dedicati alla conoscenza, pochi e tradizionali: ad esempio l'Istituto geografico militare per la cartografia. Per il resto l'amministrazione non aveva una funzione conoscitiva specifica: in questo caso parlo di comunicazione passiva, di acquisizione di dati. Questo perché la stessa amministrazione operava per linee gerarchiche, era un unico soggetto: c'era un'unità, in un certo senso, di tempo, luogo ed azione. C'era la concentrazione, nello stesso vertice, delle funzioni normative, di indirizzo e di gestione. C'era una omogeneità amministrativa e burocratica: l'autogoverno del personale. L'amministrazione non si scindeva. L'informazione si muoveva con la stabilità, e per così dire l'integrazione interna, di tutti i dati, che rimanevano relativamente stabili. E soprattutto protetti dall'esterno.
Il sistema dei controlli amministrativi aiutava molto la conoscenza. Era il controllo effettuato sugli atti anche attraverso le mitiche, e ormai desuete, ispezioni. C'è tutta una storia ottocentesca delle ispezioni: l'ispettore era colui che consentiva di sapere che cosa avveniva dopo che la legge era stata adottata, nel momento attuativo: fatti prevalentemente perduti nella nostra esperienza. C'era una fortissima omogeneità nell'approccio tradizionale, non c'era autonomia. Ma ora le condizioni sono cambiate. Se guardate bene, non c'è uno degli elementi appena richiamati che non sia oramai tramontato o che non si sia modificato.
Al posto del monismo abbiamo il pluralismo amministrativo; la gerarchia è sostanzialmente finita; c'è una crescente esternalizzazione dei compiti in luogo della autosufficienza; c'è la necessaria cooperazione pubblico/privato in luogo, invece, della conoscenza autonoma di quanto è necessario; c'è una pluralità di burocrazie tra loro scarsamente comunicanti; c'è la soppressione dei controlli amministrativi esterni. Dunque non c'è nessuno di quegli elementi che, pur non finalizzati alla comunicazione, avevano un effetto importante sulla comunicazione, sul flusso informativo all'interno degli apparati.
Quali sono le conseguenze e i rimedi tentati? Intanto, un primo dato: essendosi bloccato l'input, cioè l'informazione passiva, i vertici centrali sanno poco di quello che avviene in periferia, sia che si tratti di organi periferici rispetto al centro, sia che si tratti di sistemi locali rispetto all'amministrazione centrale. Questo è un primo, enorme problema. Di questo blocco nell'informazione passiva, poi, soffre naturalmente anche quella attiva, sebbene su questo versante si sia compiuto qualche sforzo. Penso alla nascita, negli anni Novanta, degli uffici per le relazioni col pubblico (URP), che sono le prime strutture deputate a dare informazioni. Il processo innescato dalla legge 241/1990 non procede in modo omogeneo, ci sono delle carenze, ma a mio avviso è una riforma sostanzialmente riuscita: la gente impara ad utilizzarla.
Quindi ci sono tentativi in atto per creare una buona rete informativa. Ma ci sono anche tentativi maldestri, secondo me, di recuperare sull'informazione, sull'acquisizione delle informazioni. Uno di questi tentativi malriusciti è testimoniato dal fiorire degli osservatorî: non c'è legge di settore, riforma che non crei il suo bravo osservatorio; non c'è regione, ministero, comune eccetera che non faccia il suo osservatorio. Un esempio: due leggi recenti regionali emiliane, quella sui servizi sociali (la n. 2 del 2003, già approvata e promulgata) e quella sui servizi pubblici (in itinere): entrambe istituiscono degli osservatorî.
Da questo punto di vista siamo tutti osservatori, siamo un popolo (se vogliamo esagerare un po') di voyeuristi. In realtà, al di là delle battute, il problema sotteso al fenomeno è vero: l'amministrazione non sa più cosa succede e quindi ha bisogno di provvedersi di dati. È la risposta ad essere, invece, ingenua, perché questo modo di procedere per osservatorî in realtà non funziona: ognuno fa il suo e così, anziché diminuire, la frammentazione e il settorialismo aumentano. L'ingenuità di fondo consiste nella direzione del processo, che muove dall'esterno verso l'interno mentre buona parte degli elementi rilevanti maturano proprio all'interno dell'amministrazione e o vengono colti in quel momento e portati all'esterno, oppure si perdono.
Se ci si colloca all'esterno, si è fatalmente affidati alla buona volontà dell'interno che lo alimenta. Da questa impostazione nascono le relazioni periodiche: il 50% delle unità non le fa, l'altro 50% le fa ma poi le fa cascare sul 50% che non le legge. Alla fine, insomma, questi dati sono abbastanza inutili, perché in sé la relazione (oltretutto, spesso poco tempestiva) ha già perso il suo senso nel momento stesso in cui nasce.
Sto dicendo che, soprattutto in un sistema ormai altamente informatizzato come il nostro, l'informazione non è "adesso mi metto ad informare". È piuttosto una delle forme del fare! Il traffico della posta elettronica di una soprintendenza o di un museo: è là che c'è l'informazione. Se un ministero vuole davvero conoscere come si verificano le cose, fa aggiungere ai vari indirizzi anche il suo, altrimenti sarà fatalmente legato ad una informazione che trae il suo alimento dal soggetto osservato, il quale ha tutti gli interessi possibili salvo quelli del soggetto osservante.
Quali sono le soluzioni più credibili, da questo punto di vista? A me pare che in un sistema a rete, come è ormai quello pubblico, è evidente che fuori dalla rete non si cattura nulla: nel momento in cui sei fuori, sei fuori! La comunicazione passiva, che è presupposto di quella attiva, è possibile soltanto collocandosi all'interno e innestandola nell'attività e nel suo farsi. E in una società come quella attuale, largamente informatizzata, questa possibilità è tutt'altro che astratta. Insomma, l'informazione di un museo o di una qualunque struttura io non la affiderei ad una relazione periodica, per non cadere nel gioco perverso del 50%, ma la radicherei sul piano del fare, sul tipo di attività, sulle iniziative svolte o poste in essere, sul tipo di materiale che mi serve, sul traffico di informazioni che ci sono fra questa struttura e le altre. Non ci sono autonomie federali, regionali, locali, o funzionali che tengano: su questo piano il processo deve essere aperto all'intero sistema.
Naturalmente per fare questo è indispensabile che il flusso delle comunicazioni sia considerato una funzione essenziale: certo se si mette al centralino o negli snodi dell'informazione la persona che ha limiti o impedimenti a parlare o muoversi, questo primato evidentemente non viene riconosciuto. È prioritario quindi restituire questa essenzialità alla comunicazione, in termini di risorse e di status di chi se ne occupa. Il nostro paese, oggi, rischia gravemente la frammentazione amministrativa con questi giochi di federalismo vero o falso, tra curve e controcurve, devolution o non devolution. Sono l'ultimo che può essere accusato di un amore per il centro, ma non c'è persona sensata che possa immaginare che un sistema unitario - perché il nostro è un sistema pur tuttavia unitario - possa reggere alle sterzate ed alle torsioni verso progetti di tipo estemporaneo, che ogni volta rileggono i rapporti centro/periferia. Anche per questo motivo la comunicazione diventa uno dei collanti reali del sistema, e ad essa va riconosciuta una funzione essenziale: bisogna che, anche nei mansionari, chi se ne occupa venga collocato ad un livello adeguato. Diversamente, ripeto, questo riconoscimento viene meno.
Tertium, mi pare, non datur. Occorre una formazione unitaria dei responsabili: che lavorino in un comune, in una provincia, in una regione, in un ministero o in un organo centrale o periferico, bisogna che il loro linguaggio sia omogeneo. Se c'è questa comunanza di codici, lasciate pure che giuridicamente le norme siano diverse, non ha importanza: queste persone si capiranno. E avranno un linguaggio comune. Ma se invece nessuno li forma, o vengono formati in modo diametralmente opposto, qualunque norma, anche la supercostituzionale, non sposterà una matita da un tavolo.
A proposito di omogeneità della comunicazione si può citare il caso degli sportelli unici, sperimentati - con effetti, va detto, modesti - nel mondo delle imprese. Il senso dello sportello è: sono molte le amministrazioni che operano, ma una è quella che mostra la faccia al cliente, uno solo è l'interlocutore. Perché non fare qualcosa di analogo anche nel settore dei beni culturali? Anche in questo sistema (ministero, soprintendenze regionali, soprintendenze tout court, musei, archivi, biblioteche eccetera) - che pure è stato particolarmente protetto dagli effetti della frammentazione, o almeno così si è tentato di fare - il pluralismo amministrativo ormai è un dato acquisito.
Anche il sistema dei beni culturali ha forti esigenze di cooperazione pubblico/privato. Si può inventare, sul piano della legge, la fondazione, la società per azioni mista, la società a responsabilità limitata, il trust o quello che volete, ma se non c'è un sistema di affidabilità reciproca fra amministrazione e privato, nessun privato di quelli solidi avrà a che fare con l'amministrazione. Perché è chiaro che si può pensare di investire risorse su un bene se conosco qual è lo statuto di questo bene e, grosso modo, le cose che è possibile fare. Altrimenti no: si rischia un investimento di miliardi sul sì o sul no, sul cambio del soprintendente o sul mutamento delle sue opinioni. Da questo punto di vista qualche cosa è stato fatto: vorrei ricordare che anche qui in Emilia-Romagna, fra l'altro, si è mosso qualcosa di significativo, una cooperazione possibile fra organi periferici e Regione. Ma il regolamento 283 del 2000 sull'alienazione dei beni indicava una strada che forse è stata fatta cadere un po' troppo rapidamente: l'esigenza di parlarsi, di definire, di fare una specie di scheda di statuto.
Vorrei chiudere con alcune considerazioni di prospettiva che invitano alla cautela. Visti i vantaggi dell'informazione, occorre però fare attenzione: quali sono le difficoltà in cui potremmo incorrere, se fossimo tanto virtuosi da praticare le strade auspicabili?
Primo: portare l'informazione in primo piano, agganciandola alla produzione, al fare amministrativo, non lascia invariato il funzionamento interno dell'amministrazione. È illusorio immaginare che, ceteris paribus, tutto resta com'era. Intanto l'informazione attiva, quella indirizzata all'esterno, introduce rigidità. Se si comunica che in un museo di Trapani c'è un dato oggetto, che è collocato in un determinato salone e in quella sequenza, non si può poi non tenerne conto, perché chi è andato a Trapani a vedere quell'opera e si trova di fronte un grande vuoto con un cartello "temporaneamente in mostra a Francoforte", potrebbe a buon diritto innervosirsi. L'informazione, quindi, genera l'obbligo di un ulteriore e necessario aggiornamento. Che è faticoso, costoso, ma in questi casi o si fa tutto e bene o non si fa niente: del resto l'informazione a metà (orari formali e orari reali, docenti titolari e docenti effettivi) è quella che tradizionalmente si faceva (e in parte si fa) già all'Università, da cui l'importanza dei bidelli come collegamento tra i due piani, ed è più che sufficiente. Certo, l'informazione introduce rigidità: quello che sta scritto si deve fare e quello che si fa deve stare scritto. Se la coerenza viene meno diventa un pasticcio.
Il secondo punto su cui occorre cautela riguarda gli sportelli unici, di cui già si è detto. Strumenti di questo genere, ancora una volta, portano all'esterno o comunque in una sede diversa l'informazione proprio nel momento in cui, come si diceva, è necessario al contrario interiorizzarla e collegarla con il momento stesso della sua formazione, cioè la gestione ordinaria. Se i circuiti informativi funzionano, è un problema superabile, altrimenti anche in questo caso la contraddizione può innescare dei seri problemi.
Terzo e ultimo punto: chi sono i destinatari della comunicazione in questo ambito? Qui si entra in un campo che non conosco direttamente, per cui lascio volentieri la parola agli specialisti presenti. In base agli studi che ho avuto modo di leggere - penso in particolare a una bella ricerca sulla comunicazione istituzionale pubblicata dall'Istituto Cattaneo nel settembre 2002, e a un saggio curato da Maria Antonietta Trasforini per il Ministero per i beni e le attività culturali - posso soltanto dire che emerge una fortissima stratificazione della domanda, cioè l'informazione e la comunicazione attiva non hanno un soggetto standard di riferimento. E in particolare, per i beni culturali, ci sono due categorie nettamente prevalenti e distinte fra loro: da un lato i giovani e gli studenti, dall'altro un pubblico di mezza età di un livello sociale medio-alto, che viaggia e visita per conto suo. Riuscire comunicare con pubblici così diversi, con utenti così diversi, credo sia un problema formidabile. Ma siccome è un problema di chi si occupa di informazione, e non dei giuristi, almeno di questo posso farne a meno.
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