Rivista "IBC" XII, 2004, 4

biblioteche e archivi / progetti e realizzazioni

Dopo secoli di peregrinazioni negli oceani internazionali del collezionismo privato, due preziosi manoscritti autografi del novelliere cinquecentesco Sabadino degli Arienti ritornano finalmente a Bologna, e a disposizione di tutti.
Una prelazione miniata

Franco Bacchelli
[ricercatore in Storia della filosofia all'Università di Bologna]

Il 9 novembre 2004 a Bologna, in occasione della riapertura della Sala dello Stabat Mater, sono stati presentati al pubblico due manoscritti miniati acquistati dalla Soprintendenza per i beni librari e documentari dell'IBC e dalla Biblioteca comunale dell'Archiginnasio. Abbiamo chiesto ad uno degli studiosi intervenuti di raccontarci la storia di questi due tesori ritrovati.

 

Il ritorno in Italia di splendidi manoscritti che nell'Ottocento, o anche prima, avevano fatto vela verso collezioni inglesi, francesi o americane per poi rigalleggiare, di quando in quando, nelle grandi aste internazionali di antiquariato librario è, purtroppo, un avvenimento insolito. È però un caso che ogni tanto si verifica; soprattutto quando due enti si danno una mano, riuscendo a superare felicemente le attuali difficoltà finanziarie della gestione dei beni culturali. È in questo modo che la Biblioteca comunale dell'Archiginnasio di Bologna, con l'aiuto della Soprintendenza per i beni librari e documentari dell'Istituto regionale per i beni culturali, ha potuto recentemente acquistare due bei manoscritti miniati di opere inedite volgari - ma, come era d'uso, con titoli latini - interamente autografe del novelliere bolognese Giovanni Sabadino degli Arienti. Ritornano così a Bologna la stessa copia di dedica preparata dall'Arienti per i Bentivoglio dell'Hymeneus Bentivolus ed il Quoloquium - grafia umanistica per Colloquium che Giovanni Sabadino usò poi anche altre volte - ad Ferrariam urbem splendidissimam pro coniugio inclytissimae Lucretiae Borziae in Alfonsum primogenitum Ducalem Estensem Illustrissimum nell'esemplare stesso che probabilmente fu offerto a Lucrezia Borgia quando ella il 28 gennaio 1502 sostò a Bologna nel corso del viaggio alla volta di Ferrara per celebrare le sue nozze col principe Alfonso d'Este.

Meraviglioso, a dir poco, il manoscritto dell'Hymeneus Bentivolus. Si tratta infatti di un codice pergamenaceo delle dimensioni di circa un quarto di folio (270 x 183 millimetri), di 76 carte, con la pagina iniziale ornata di miniature di eccezionale qualità, che occhi esperti hanno già riconosciuto come di scuola bolognese.1 Esso contiene la scrupolosa e commossa relazione delle nozze celebrate nel gennaio del 1487 tra Annibale Bentivoglio, primogenito di Giovanni II signore di Bologna, e Lucrezia figlia illegittima del duca di Ferrara, Ercole I d'Este; un avvenimento - celebrato latinamente anche da Beroaldo nelle Nuptiae Bentivolorum e da un amico dell'Arienti, Angelo Michele Selimbeni - che cementò, dopo un periodo di difficili relazioni tra Ferrara e Bologna, una stabile alleanza tra gli Este e i Bentivoglio.

L'Hymeneus era già stato studiato nell'Ottocento nella copia pergamenacea, bellissima anch'essa, che Giovanni Sabadino aveva inviato ad Ercole d'Este e che dalla ricca "guardaroba" di questi era, non si sa come, finita nella biblioteca di un convento di Parma, per poi approdare, con le soppressioni napoleoniche, alla Biblioteca Palatina di questa città (è ora il cod. 1294 del cosiddetto Fondo Parmense). Dalla copia parmense nel 1891 Giovanni Zannoni - un precursore, memore della lezione machiavelliana, dei moderni studiosi dell'ideologia politica sottesa alle feste dell'Italia signorile - trasse fuori il testo poetico scritto da Domenico Fosco - un verseggiatore e tipografo di Rimini che fu in relazione col Beroaldo e col Poliziano - della rappresentazione allegorica svoltasi la sera del 29 gennaio 1487, al termine di un "pranzo sontuoso" - come rileva argutamente lo Zannoni - "che durò sette ore e che è rimasto celebre negli annali della culinaria". Si trattò di un'azione scenica - studiata poi più accuratamente da Gabriele Cazzola, da Fulvio Pezzarossa e da Paolo Fazion - cui prendono parte una Ninfa dei boschi e le due dee, Giunone e Diana. Giunone esorta la Ninfa al matrimonio ed alla procreazione, mentre Diana la minaccia invitandola a non tradire il programma di feroce castità proprio di ogni ninfa del suo seguito. La palma di questo contrasto tra pudicizia e le più trattabili virtù del matrimonio e della sociabilità familiare rimane naturalmente, come in analoghe rappresentazioni nuziali di quei tempi, a Giunone ed ai suoi argomenti.

Il testo del Fosco conservatoci dall'Arienti è un riflesso di quell'umanistica ideologia filomatrimoniale che contrastò apertamente in quegli anni, soprattutto nell'alta Italia, altre terrorizzanti figurazioni del connubio e della figura stessa della donna e della moglie diffuse da alcuni circoli umanistici fiorentini e romani, da certi testi crudamente misogini - quali il Sonaglio delle Donne o il Manganello di leonardesca memoria - o dalla predicazione popolare più retriva; una "laus" del matrimonio fecondo, insomma, che pochi anni più tardi svilupparono sia il Beroaldo nel suo commento ad Apuleio,2 sia il Marullo in uno dei suoi Hymni naturales attraverso un efficace e anticristiano discorso rivolto proprio a Giunone dalla madre Rea. Ma in apertura del testo dell'Hymeneus è proprio l'Arienti stesso ad assegnare una sua generale - teologica e cosmica assieme - giustificazione della sacralità del matrimonio, che ricordà un po' le tematiche che Matteo Palmieri aveva diffuso venti anni prima nel suo poema, la Città di Vita, presto tolto dalla circolazione: "el sacro matrimonio" - avverte Giovanni Sabadino - "fu ordinato dal celeste principe al quale piacendo l'humano nascimento creò li primi parenti per adempire le sedie vacuate del suo eterno regno de quelle infinite squadre de Angeli, li quali cum Lucifero suo principe superbo se rebellorono".

L'Hymeneus racchiude però anche una bella descrizione di quello splendido palazzo dei Bentivoglio, che la plebe bolognese mise a sacco e distrusse nel 1507. Sono pagine di cui gli storici dell'arte hanno già potuto profittare da quando Carolyn James - la più intelligente studiosa, assieme a Bruno Basile e a Bernard Chandler, della figura e dell'opera dell'Arienti - le trasse dalla sopra citata copia parmense e le pubblicò in un suo contributo del 1997. Esse cominciano proprio con la descrizione della costruzione e della sistemazione, avvenuta nei mesi antecedenti le nozze, di quella piazza (l'attuale Piazza Verdi) e di quelle circostanti case di servizio, unico resto del grande complesso bentivolesco, che gli studenti e gli insegnanti dell'Università bolognese conoscono bene: "Il principe Bentivoglio comprò certe case che erano avanti il suo palazo e fin a terra le fece disfare, et fece lì gran piaza che di longheza, per mi misurata, furono cento e decimo septimo varghi, et varghi trenta per latitudine et tuta la fece a sexto tabulare".

Ma è proprio allo studio del distrutto palazzo che la copia dell'Hymeneus recentemente acquisita può dare un ulteriore piccolo contributo: la miniatura della pagina iniziale, infatti, riproduce fedelmente nei suoi riquadri tutte le imprese che erano scolpite su quella "porta di maxegna bellissima" che portava alla sala grande del palazzo ed anche quella "divisa del Duca primo de Milano" che Giovanni Bentivoglio aveva fatto porre, in occasione delle nozze, sulla facciata della costruzione. La pagina miniata, che porta sia in alto sia in basso lo stemma con la "sega" bentivolesca, ha otto riquadri; in alto a destra si vede la "divisa", un "leone iacente nel fuoco, che in lo pede dritto teneva un troncho relevato, al quale erano dui sechioni da trare aqua; et in capo havea uno cimero a strana fogia negro e bianco divisato, e nel negro erano quatro volte scripto: 'Hic of'": cioè "Ich hof", vale a dire "Io spero"; in alto a sinistra sta "il groppo de fede e amore"; nel mezzo del lato destro si vedono "il radechio illustrato dal sole" e la "salamandria nel foco", mentre nel mezzo del lato sinistro della pagina vi sono la "palma" col motto "spes mea" e "lo agnello col monte adosso"; infine i riquadri in basso della pagina riproducono rispettivamente a destra e a sinistra "el fascio delle verghe ligate in exemplo, che non è cosa più forte che la unione, et le verghe solte et speciate, significatrice la divisione essere frangibile".

Altra novità della copia bolognese è poi il fatto che essa contiene anche le ultime pagine dell'opera che sono disgraziatamente perdute nella copia di Parma. E un futuro editore dovrà certo tenerne conto; come anche dovrà sottolineare, nel suo inquadramento ideologico dell'opera, di quel crescente imbarazzo verso il regime bentivolesco che la James ha rilevato nelle pagine dell'Hymeneus, quando le ha acutamente confrontate con quelle di un'analoga opera dell'Arienti di diciassette anni prima, il Torneo fatto in Bologna il IV Ottobre MCCCCLXX. Giovanni Sabadino aveva certo riconosciuto in passato che "la pace e la prosperità della città erano state ottenute grazie al sangue generosamente versato dai Bentivoglio" e da tanti uomini oscuri della fazione bentivolesca, di cui aveva fatto parte anche suo padre; ma ora nell'Hymeneus - come ha fatto con metodo sottile riemergere e trasparire sempre la James - si avverte in lui "la tensione mai completamente risolta tra valori della corte e valori civici" e la "riluttanza a riconoscere e accettare le ambizioni signorili di Giovanni Bentivoglio, che minacciavano non solo una pace cittadina sempre fragile, ma anche la base di potere di altri membri dell'oligarchia" e di quello stesso Andrea Bentivoglio di cui l'Arienti era segretario e che era il membro più in vista di quel ramo minore della famiglia, che aveva in passato contribuito al successo di Annibale e di Sante, ma stava ora cominciando cautamente a prendere le distanze dal progetto politico, apertamente "signorile", del ramo principale.

Questa nuova ispezione dell'Hymeneus, originatasi dalla recente acquisizione, ha offerto poi anche una piccola briccica erudita ignota, se non erro, agli studiosi del Boiardo. Nella descrizione, infatti, l'Arienti - oltre al Beroaldo ("il mio Beroaldo Phylippo che tanto nostri studii honora") ed al Francia ("l'humano Franza Raibulino ingeniosissimo aurifice felsineo") - ricorda che alla celebrazione delle nozze intervenne anche "Ioanne Boiardo magnifico Conte cum trenta cavalli". Il Conte, dunque, prima di assumere quel governatorato di Reggio che gli sarebbe costato tante tribolazioni, aveva fatto in tempo a presenziare, assieme a tanti membri della feudalità lombarda ed emiliana, alle nozze; ed al famoso pranzo gli era stato offerto, come del resto anche agli altri invitati illustri, un dono "personalizzato": "una navicella andante a vela, per essere stato lui, come costume del suo generoso sangue, nauto de humanità et gratitudine". Regalo ed "impresa" certo non casuali, dato che in quell'ambiente ben si sapeva e della tradizionale ospitalità dei Boiardo ("Iddio ti mandi a casa i Boiardi" si soleva dire) e, soprattutto, della mitezza con la quale pochi anni prima il Conte, in un'epoca di feroci vendette, aveva perdonato i mandanti e gli esecutori di un tentato avvelenamento ai suoi danni.

Meno splendido, ma non meno interessante, il secondo manoscritto contenente il Quoloquium ad Ferrariam urbem. Si tratta di una allocuzione alla città di Ferrara compresa entro una visione allegorica, che l'Arienti finge di aver avuto in sogno; in essa si celebrano le future nozze tra Alfonso d'Este e Lucrezia Borgia e tra le varie figure che sfilano nell'onirico trionfo non manca naturalmente "Cesar Borzia altissimo Duca de Flamia et de Valenza, Confalonerio de Sancta Chiesia et de quella generale Imperatore de armati, magno et excelso et glorioso exemplo de' liberalità et magnificentia et ducal splendore a li principi del mondo". Lo scritto, composto da Giovanni Sabadino nell'ottobre del 1501, tre mesi prima dell'arrivo a Ferrara della sposa, fu dall'Arienti subito inviato ad Ercole I, come apprendiamo da una sua lettera al segretario del Duca di Ferrara, Tebaldo de' Tebaldi. Il piccolo codice (215 x 144 millimetri) di 21 carte, trascritto su carta delicata e finissima, costituisce invece, probabilmente, come si è detto, l'esemplare che l'Arienti dovette offrire a Lucrezia, dato che esso reca al fondo della prima pagina, sobriamente miniata, lo stemma col bove borgiano. Il manoscritto, una volta legato in preziosissima seta gialla, era poi andato a finire a Parigi, nella biblioteca dell'Abbazia di Saint Germain-des-Prés, dove era stato visto dal Montfaucon e poi, alla metà del Settecento, esaminato da Monsignor Pietro Antonio Tioli, che ne trascrisse alcune pagine nella sua Miscellanea erudita (ora cod. 2948, tomo III della Biblioteca Universitaria di Bologna, cc. 707-709). Dopo la Rivoluzione il codicetto era stato venduto all'abate parigino Joseph Félix Allard per poi finire nella grande raccolta - la collezione delle collezioni, si può ben dire - di Sir Thomas Phillipps.

Nel Quoloquium traspare abbastanza bene la stanchezza dell'Arienti, sia dello scrittore sia dell'uomo. Giovanni Sabadino aveva, in passato, praticato il suo onesto mestiere di scrittore al servizio della corte e di vari gruppi dell'oligarchia bolognese e in questo suo ruolo era riuscito a produrre prose in cui espressività, efficacia persuasiva e sottesa ideologia ben si equilibravano; erano prodotti ben riusciti soprattutto perché l'Arienti ancora credeva profondamente in alcuni almeno dei valori del governo signorile (anche se forse con più lucide riserve di coscienza di quanto la sua bonarietà freddamente costruita ci permetta di intravedere), e perché pensava che in qualche modo proprio esso fosse stato il rimedio ai due passati secoli di ferocissima ed endemica faziosità cittadina. Ma al tempo del Quoloquium egli aveva assistito nel giro di pochi anni alla rovina degli Aragonesi, dei Medici e degli Sforza e di tutto insomma l'assetto politico e militare di quell'Italia che aveva amato; ed ulteriori prevedibili burrasche erano nell'aria. Abbandonato, per ragioni non chiare, dai suoi antichi patroni, i Bentivoglio, l'Arienti, spinto dalle difficoltà economiche, guarda e cerca ora ormai fuori di Bologna, in direzione di Mantova e, appunto, di Ferrara.

Il Quoloquium è immagine di questa crisi, ma in esso l'Arienti trova ancora modo di cimentare sé stesso nell'arte di trasformare ciò che era di fatto e disgraziatamente successo in ciò che provvidenzialmente doveva avvenire; la sua vecchia abilità letteraria gli serve, cioè, ancora bene a mostrare che il Duca di Ferrara non era stato sbalzato dal suo trono - come giustamente era successo agli altri sovrani e signori italiani - perché era stato buono e fedele suddito del potentato spirituale, il Papa, e leale alleato dell'invasore, il Re di Francia:


Te poi ultimamente, Ferrara mia chara, sopra ogni altra cità felicissima chiamare de tanto conubio, per cui vivere secura poi da qualuncha hostile invasione e conati, che la virtù singular del tuo prudentissimo principe, norma de religione, il quale se è tanto in Dio consolato et confidato et spera et confida, per haver cum sua deità facto lega, onde mai ha dubitato de precipitare del suo vetusto et iustissimo stato a la sua inclyta casa concesso da la Sedia Apostolica et da la Cesaria Maiestate. [...] Questo credi senza dubio. Il perché tu hai ben veduto overo inteso: quanti stati sono precipitati cum loro signori, quali se credeano la forza de tutto il mondo nocerli non potere, et sequiti casi horrendi de sangue, de fuochi, de rapine et stupri de vergene e de nobile et honeste donne violate. Tu te sei salvata per la religione del tuo principe grata a la iustitia divina.


Chi inizi, poi, a leggere il Quoloquium non può fare a meno di notare un'altra cosa: quanto si sia assurdamente complicata, qua e là, dagli anni passati, la sintassi dell'Arienti e quanti anacoluti in essa facciano ormai capolino. E proprio la prima pagina dell'operetta gli fornirà un'indicazione sicura: anche Giovanni Sabadino, come tanti in quegli anni, è evidentemente stato travolto dall'ammirazione e dal conseguente prurito di imitare moderatamente la prosa dell'Hypnerotomachia Polyphili, che allora era una novità letteraria fresca di stampa. La prima mossa del Quoloquium è infatti una ripresa di quella descrizione del sorgere dell'alba con cui inizia l'Hypnerotomachia:


Apollo non oblito, Ferrara cità splendidissima mia chara, de quel divin nume che rescosse el perduto universo, havendo già scaldato le corna del celeste montone una et millecinquecento volte et epso non poco mesto la decima nona parte del regno de Mercurio illustrando, solicitava Phetonte che speronasse li cavalli per andare a quel loco, donde le tenebre con la luce adequare potesseno; et la exaltata Diana nel taurino ventre et nel supremo cielo vedendo, la donna de Titone appresso l'orizonte se partì dal benignio aspecto del suo dilecto sposo et verso de Venere ismarita se rizoe; quando io, occupato da suave somno, mi parve tutto isbigotito veder Roma triumphante et de quella uscire un carro triumphale de ornatissima pompa e gran richeza tirato superbamente da duo unicorni...".


L'opera del frate veneziano, imitata più nella sintassi, come si vede, che nell'impasto lessicale, ha imbarazzato linguisticamente l'Arienti e ha fatto perdere colore ed espressività a quella vecchia sua prosa, dove la mescolanza tra toscano, "felsinea lingua" e prestiti latini bene risolvevano l'esigenza di dare dignità letteraria ad un volgare che dinanzi al latino pareva - privo com'era, per tradizione, di un sistema di eleganze - non degno campo al cimento della disciplina artistica. Quella prosa, insomma, così saporosa e così abbandonata al suo proprio piacere di descrivere che generazioni di lettori ammireranno nelle Porrettane, episodi delle quali perfino Pietro Pomponazzi, come sempre pronto alle facezie, racconterà talvolta ai suoi studenti per allentare la tensione filosofica delle sue lezioni.

 

Note

(1) Il manoscritto era, alla fine del Cinquecento, in possesso del giurista bolognese Annibale Monterenzi; riemerge poi alla fine dell'Ottocento e dalla collezione parigina di Eugène Piot migra nella grande raccolta di Sir Horace Landau; negli anni Sessanta dello scorso secolo si trova nelle mani di Robert H. Radsch di New York per poi finire sul catalogo 1979 della ditta Laurence Witten Rare Books di Southport (Connecticut). Do qui momentaneamente per scontato che il codice dell'Hymeneus ora acquisito sia quello stesso che l'Arienti presentò ai Bentivoglio del ramo signorile e che esso sia scampato alla distruzione del Palazzo Bentivoglio avvenuta nel 1507. Un dubbio però mi rimane. Sia il codice dell'Hymeneus, infatti, sia il manoscritto del De civica salute - sicuramente appartenuto sino all'inizio dell'Ottocento al ramo minore dei Bentivoglio - portano in antiporta delle annotazioni della stessa mano primocinquecentesca. E forse potrebbe darsi che il codice dell'Hymeneus sia quello, in realtà, che Giovanni Sabadino aveva confezionato piuttosto per Andrea Bentivoglio del ramo minore della famiglia. C'è poi un altro problema. Sia il codice dell'Hymeneus, sia quello del Quoloquium portano in calce uno stemma a scudo spaccato con la parte superiore rossa con stella d'oro e la parte inferiore d'oro. Quest'arme compare anche, ora in calce, ora nella prima pagina di altri manoscritti di dedica di opere dell'Arienti: nel Trattato della Pudicizia della Sachsische Landesbibliothek di Dresda (F 134), nella Lettera Consolatoria a Niccolò Lardi della Biblioteca comunale di Treviso (ms. 43 n. 4) e nel Torneo della Biblioteca Palatina di Parma (Fondo Palatino ms. 273). Di quale famiglia è questo stemma? Io penso che sia degli Arienti "antichi", cui apparteneva Giovanni Sabadino; un'arme che invano si cercherebbe nel maggiore dei repertori araldici bolognesi, quello del Canetoli, dove si trovano solo gli Arienti "moderni".

(2) Che è la palinodia di una sua precedente requisitoria contro la vita coniugale contenuta nel più antico commento alle Tusculane.

 

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