Rivista "IBC" XII, 2004, 2

Dossier: Rappresentare la storia - Musei e contemporaneità

musei e beni culturali, dossier /

Dai luoghi della memoria alla memoria dei luoghi

Ersilia Alessandrone Perona
[direttore dell'Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea "Giorgio Agosti", Torino]

Un turista che porti qualche interesse alla storia dei territori che visita può constatare agevolmente la grande disparità della rappresentazione della Resistenza nei paesi europei che subirono l'occupazione nazista. La differenza riguarda in particolare i musei: alla presenza estesa e multiforme di luoghi del ricordo e della memoria - sacrari, monumenti, lapidi, toponomastica, feste nazionali - non corrisponde infatti un'analoga diffusione di musei, la cui esistenza rappresenta l'esito di un'operazione politica particolarmente complessa. Numerosissimi in Francia, dove sono più di sessanta i musei dedicati alla Resistenza e alla Deportazione (ma il numero raddoppia se si considerano anche quelli sulla Seconda guerra mondiale), essi sono in proporzione molto diffusi anche in Lussemburgo, che ne ospita sei, di cui uno nazionale, e ha inaugurato di recente una mostra permanente nel nuovissimo Museo storico della capitale.

A confronto, l'Italia presenta una densità molto minore e soprattutto una distribuzione meno omogenea: all'assenza di un museo nazionale o di musei regionali sopperiscono solo in parte dei musei locali, presenti soprattutto nelle regioni centrali e settentrionali - l'Emilia-Romagna in particolare - legate alla Resistenza per ragioni storiche e politiche. Ancora meno offre la Grecia, che pur avendo dato vita a un grande movimento popolare di lotta contro l'occupazione fascista e nazista, ne ha dovuto rimuovere ogni rappresentazione simbolica fino al 1982, e ha concentrato la sua epopea nazionale nei Musei del Risorgimento, come a lungo è avvenuto anche in Italia.

Il dato quantitativo è solo una spia di differenze sostanziali. Un'osservazione attenta alla cronologia, all'origine di ciascuna istituzione e alle sue vicende ci riconduce infatti a precisi contesti nazionali e locali. Essa mette in evidenza, in particolare, le diverse risposte che i paesi europei dettero a due problemi comuni: come ricordare, sul piano dei simboli, una lotta che aveva avuto i caratteri non solo di liberazione, ma anche di guerra civile e di classe, e come confrontarsi con l'esigenza della pacificazione nazionale, urgenza primaria del dopoguerra nei paesi che avevano conosciuto sia l'occupazione straniera, sia il fascismo e il collaborazionismo interno. E poiché la creazione di un nuovo simbolismo presuppone, oltre a un esteso consenso sociale sui nuovi valori, una forte volontà e capacità politica per affermarlo - basti pensare all'origine "giacobina" delle religioni civili - occorre riferirsi ai diversi contesti nazionali per interpretare il suo diverso radicamento.

L'Italia non ha conosciuto quel processo di "nazionalizzazione della memoria" imposto in forma autocratica dai regimi comunisti nei paesi dell'Europa orientale, ma declinato anche a ovest in forme diverse, compatibili con lo svolgersi di vere e proprie "batailles pour la mémoire", come è stato mostrato per la Francia, il Belgio, l'Olanda (P. Lagrou, G. Namer). "La storia della Resistenza e della sua memoria" - ha scritto Nicola Gallerano - "hanno viceversa conosciuto uno svolgimento tutt'altro che lineare, segnato fortemente dalle vicende politiche del paese, tanto che non bisognerebbe forse parlare di memoria al singolare ma di memorie, che dialogano, si intrecciano e più spesso confliggono tra loro". La linearità del processo fu interrotta dal prevalere, nel dopoguerra, della pregiudiziale anticomunista, che portò all'emarginazione della Resistenza dal discorso pubblico, pur restando abbastanza condiviso il riferimento antifascista. In questo retroterra si rintracciano gli elementi per spiegare sia la stentata esistenza dei musei della Resistenza in Italia, sia i recenti tentativi di dare loro nuovi lineamenti e obiettivi.

La nostra indagine si può articolare in quattro fasi: lo sforzo dei Comitati di liberazione nazionale (CLN) di creare un discorso pubblico a livello non solo di simboli ma anche di rappresentazione esemplare (1945-1947), frustrato dall'avvento di governi di centro-destra e congelato dalla guerra fredda; la ripresa di un discorso propositivo tra la metà degli anni Cinquanta e la fine degli anni Sessanta ad opera soprattutto dei testimoni; la svolta degli anni Settanta con l'apporto di nuove risorse umane, culturali, politiche; la ricerca, dagli anni Novanta, di un nuovo modo di rappresentare, comunicare, trasmettere la storia nei musei. Ricerca, questa, che s'inserisce in un ampio dibattito internazionale, tuttora aperto.


1. Una recente rivisitazione critica della mostra della Resistenza italiana che fu esposta a Parigi dal 14 al 26 giugno 1946 per iniziativa del Corpo volontari della libertà e del Ministero dell'assistenza postbellica ha messo in luce l'enorme sforzo compiuto all'indomani della Liberazione dai CLN per presentare con immagini e documenti le ragioni, i costi, i risultati della loro lotta, nell'obiettivo di ricostruire e far conoscere almeno nelle linee generali una guerra nota solo per frammenti agli stessi protagonisti. L'Ufficio storico del CLN piemontese si era messo all'opera fin dal maggio 1945; il CLN dell'Alta Italia richiese in giugno ai comitati regionali rapporti dettagliati, copie di documenti, stampa clandestina, elenchi di caduti: almeno otto mostre sulla Resistenza furono prodotte fra l'estate 1945 e la fine del 1946, le prime delle quali a Milano e Torino; l'edizione piemontese, esposta alla fine dell'anno in Liguria e nella Francia del sud-est (Grenoble, Nizza) fu rifatta in forma più documentata nell'aprile 1946; ma già si lavorava all'allestimento di una mostra nazionale in lingua francese da esporre a Parigi in occasione della Conferenza della pace, per presentare una nuova immagine dell'Italia, antifascista e artefice della propria libertà: "perché sia chiaro alla coscienza del mondo" - scrisse in proposito Franco Antonicelli il 25 marzo 1946 - "quel che l'Italia ha patito e quel ch'essa ha fatto" e "per ristabilire uno scambio di sincerità, di stima e di confidenza fra popoli già iniquamente avversi".

A un'analisi attenta la mostra nazionale appare un vero e proprio archetipo del discorso pubblico e della rappresentazione visiva del movimento di liberazione (vediamo ancora oggi riproporre molte immagini allora pubblicate - e talora si trattava di fotomontaggi). Mentre si eludeva l'analisi delle responsabilità della monarchia e dello stesso fascismo, l'accento cadeva sulla ferocia dell'occupazione tedesca, sugli alti costi pagati da partigiani e da civili, uomini e donne, sul ruolo dell'esercito e delle forze armate nella lotta di liberazione, sulla collaborazione col maquis, sull'insurrezione delle città e sulla capacità di governo dei CLN. Era un discorso che evitava di approfondire le fratture, curandosi soprattutto di legittimare la Resistenza e la nuova classe politica da essa espressa: "Se non vi fosse stata nessuna lotta di liberazione, cioè nessuna lotta partigiana" - si chiariva nel volume che accompagnava la mostra - "gli alleati non sarebbero stati degli eserciti liberatori; sarebbero stati degli eserciti semplicemente conquistatori".

Ma quel discorso, che avrebbe potuto costituire l'ossatura di una presentazione meno effimera della mostra itinerante (essa circolò, con qualche variante, a Praga, all'Aja e in diverse città francesi e svizzere) non approdò a un museo. I Comitati di liberazione, ormai prossimi allo scioglimento, erano ben lontani dall'averne la forza politica. Se nel 1946 le associazioni partigiane rappresentate dall'Associazione nazionale partigiani d'Italia (ANPI), su proposta del comunista Giorgio Amendola avevano ottenuto dal presidente del consiglio De Gasperi che il 25 aprile, data dell'insurrezione, fosse decretata festa nazionale, nel 1947 il clima era cambiato e i funzionari del Ministero degli esteri ostacolarono persino i tentativi di portare la mostra sulla Resistenza italiana in Inghilterra e negli Stati Uniti. Di fronte alla crescente diffidenza verso una lotta che aveva avuto i comunisti e gli azionisti fra i suoi attori principali, gli esponenti dei disciolti CLN decisero nel convegno di Genova del dicembre 1946 di creare degli istituti storici della Resistenza, cui affidare la documentazione raccolta dagli uffici studi e il compito di incrementarla. Nell'esortare i partigiani a riconoscere nell'Istituto piemontese appena costituito (1947) "il vostro naturale archivio, il vostro onorato museo", Antonicelli rivelava l'aspirazione latente di quel progetto.

Sul piano fattuale i pochi musei che accolsero la memoria della Resistenza furono quelli del Risorgimento, seguendo la scelta fatta a Trento nel 1945, in un contesto molto particolare. La legittimazione, in un primo momento rivendicata con le ragioni stesse della lotta, fu pertanto motivata con un'analogia puramente retorica: l'immagine del "secondo risorgimento", già utilizzata dagli antifascisti e fatta propria nel corso della lotta dalle formazioni partigiane di varia ispirazione politica, proprio nell'intento di connotarsi con un segno patriottico, avrebbe segnato il simbolismo e il discorso pubblico della Resistenza ancora per molti anni, non senza ambiguità.

Un altro baluardo difensivo fu il culto dei caduti per la liberazione e delle vittime delle stragi naziste. Col linguaggio del dolore e del compianto - il più tradizionale e socialmente accettato, come George Mosse, Emilio Gentile, Jay Winter hanno mostrato - si cercava di affermare e difendere una memoria non sempre condivisa. A questo linguaggio si era ispirata la commemorazione delle vittime delle Fosse Ardeatine, prima manifestazione pubblica nella Roma appena liberata (20 luglio 1944), percorsa da sentimenti ostili verso i reduci di Casa Savoia, cui era seguito l'iter complesso e non scontato della costruzione di un sacrario nel luogo stesso della strage.

Altri luoghi del ricordo e della memoria sorsero nell'Italia via via liberata, da quelli improvvisati dalle donne bolognesi e modenesi con l'affissione delle fotografie dei loro morti sulla facciata di Palazzo D'Accursio e sulla Ghirlandina, al sacrario di Montelungo dedicato dal Ministero della difesa ai caduti del Corpo italiano di liberazione, a quelli eretti da associazioni di partigiani, di familiari, senza o con l'appoggio di istituzioni locali: lapidi, sacrari e, fatte poche eccezioni, monumenti nei quali "i vincitori del '45 vengono [...] a ricoprire, pubblicamente, il ruolo di vittime" (M. Isnenghi).

Ne fu esclusa, almeno all'inizio, la deportazione politica e razziale, il cui accesso alla rappresentazione simbolica fu lento e difficile in Italia, come nel resto d'Europa, a causa di una catena di esclusioni: dapprima per la sordità del pubblico verso la storia dei sopravvissuti; ma soprattutto per il rifiuto dei partigiani di considerare i deportati politici come compagni di lotta a pieno titolo. E poiché tale rifiuto era fondato su una concezione eminentemente politica e militare della Resistenza, l'esclusione colpiva a maggior ragione i deportati per motivi razziali, a loro volta discriminati dagli stessi deportati politici.

Tali fratture hanno impedito finora sia la collaborazione fra ex resistenti ed ex deportati rispetto alla creazione di musei - altra anomalia italiana - sia la considerazione adeguata delle differenze fra deportazione politica e razziale. Il dibattito che in Francia si è concluso nel 1994 con la dedica ai deportati ebrei di un monumento nel Velodrome d'Hiver e della ricorrenza del 16 luglio, ha avuto in Italia un esito diverso: con una legge confusa e in parte elusiva, il 27 gennaio, giorno della liberazione del campo di Auschwitz, è stato dedicato nel 2000 a deportati e internati di appartenenze diverse.


2. Una nuova stagione si aprì alla metà degli anni Cinquanta, con l'inizio del "disgelo". Al "silenzio pubblico" coincidente con il periodo più acuto della guerra fredda, all'afasia prodotta dal conflitto di memorie, successe un'attenzione nuova, da parte dei giovani ma anche degli editori e delle istituzioni. Si giunse finalmente nel 1955 alla creazione del Museo della liberazione di Roma, allestito nella sede della Gestapo di via Tasso e nel 1961 all'istituzione del Museo-monumento al deportato politico e razziale di Carpi (Modena), inaugurato nel 1973. Nel 1965, inoltre, la Risiera di San Sabba di Trieste fu dichiarata monumento nazionale e trasformata a sua volta in museo-monumento della persecuzione e dello sterminio razziale.

Più che di musei veri e propri, si trattava di memoriali dove, in forme diverse, si ricorreva al codice: a Carpi, nell'antico castello dei Pio, con un'elaborazione artistica di altissimo livello formale e grande impatto emotivo, che evocava la forza morale e il martirio dei deportati, a Roma e a Trieste con la suggestione esercitata dai luoghi stessi in cui si era consumata una violenza estrema. Pur avendo conquistato nuovi e importanti spazi nella memoria pubblica, la legittimazione degli anni Sessanta non aveva mutato sostanzialmente la memoria sociale.


3. Il cambiamento culturale provocato dai movimenti del '68, l'avvento dei governi regionali all'inizio degli anni Settanta, l'affermarsi delle sinistre sia nei governi locali che nazionali dal 1975 alla metà degli anni Novanta, hanno aperto nuovi spazi alla storia e alla memoria della Resistenza e della deportazione, grazie anche alla diffusione sul territorio nazionale degli istituti storici federati all'Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia. Le iniziative hanno riguardato soprattutto la ricerca e la didattica, mentre hanno avuto inizialmente ricadute molto più modeste a livello della rappresentazione simbolica: una nuova generazione di ricercatori ha cominciato infatti col mettere in discussione le retoriche dell'unanimità coltivate dai partigiani, lavorando per chiarire le tensioni interne del movimento di liberazione e per ricostruire i contesti sociali e territoriali in cui questo si era radicato. L'interesse per la storia sociale ha consentito di superare le prospettive strettamente politiche e militari e ha portato in luce il ruolo dei civili, dei militanti di base, uomini e donne, sollecitando le testimonianze dei soggetti fino ad allora esclusi dalla "grande storia". Attraverso lo studio antropologico e sociale delle comunità, si è giunti a penetrare i silenzi intenzionali e a portare in luce le fratture ancora aperte e le memorie divise delle società lacerate dai massacri nazisti, dalle deportazioni e dalla guerra civile. In molti casi è stato rimesso in discussione il rapporto fra resistenza e popolazione.

Tutto questo lavoro, ricco di risultati sul piano sia storiografico che didattico, ha cambiato anche l'approccio ai musei, sebbene la loro crescita sia stata molto limitata, soprattutto se si pensi alla contemporanea e capillare diffusione in Francia di nuovi musei della Resistenza e della deportazione. In Italia si cercò di modificare, per quanto possibile, la connotazione commemorativa o militare dei musei esistenti: tale tendenza si è manifestata nel corso degli anni Ottanta soprattutto in Emilia-Romagna, con il nuovo allestimento del Museo della repubblica partigiana di Montefiorino (Modena), attento alla dimensione sociale delle popolazioni della montagna, di quello di Alfonsine (Ravenna) dedicato alla battaglia del Senio, dove si è introdotta la quotidianità della guerriglia nella palude accanto alla ricostruzione delle operazioni belliche; col nuovo progetto di quello dei Fratelli Cervi a Gattatico (Reggio Emilia), ambiziosamente rivolto alla rappresentazione della società contadina.

Ma l'elemento più innovativo era costituito dalla creazione di ecomusei e parchi storici attrezzati con centri d'interpretazione, come si è fatto in provincia di Torino con l'Ecomuseo della Resistenza nelle vallate alpine, in Calabria con il recupero del Campo d'internamento per stranieri di Ferramonti, destinato a centro di ricerca, in Emilia-Romagna con la sistemazione del Parco storico di Monte Sole (Bologna), che presenta la dimensione storica dei luoghi attraverso le vestigia risparmiate dal tempo, fra le quali dominano le rovine dei villaggi distrutti dai nazisti nel 1944, e fornisce con la Scuola di Pace gli strumenti per la conoscenza e la riflessione.


4. L'esigenza dei testimoni di avere finalmente un museo nazionale non era tuttavia venuta meno, ma si urtava con nuovi problemi, politici e culturali al tempo stesso, come apparve nel decennio seguente. Nel mutato clima politico degli anni Novanta, le istanze avanzate nel Cinquantesimo anniversario della Liberazione dalle associazioni di ex partigiani ed ex deportati sarebbero rimaste senza seguito o avrebbero incontrato le contrapposizioni strumentali con i caduti di Salò, le foibe, i gulag. Ma le richieste dei testimoni, tradizionali nella sostanza - a Torino si faceva riferimento, ancora nel 1995, agli spazi del Museo del Risorgimento - si scontravano anche con un mutamento radicale dei quadri sociali della memoria, provocato a livello mondiale dallo sconvolgimento geopolitico del 1989.

Quegli eventi, del resto, avevano solo accelerato un processo in corso già negli anni Ottanta, provocato dalla percezione di una svolta culturale epocale prodotta dall'avvento dell'economia globale e dalla rivoluzione delle tecniche di comunicazione. La coincidenza di eventi politici e culturali con la fine del secolo provocò una generale esigenza di ripensamento del passato e della sua rappresentazione, rendendo di grande attualità il dibattito sui musei di storia, fino ad allora coltivato soprattutto in Francia; in tutta Europa i musei di storia nazionale, che sembravano condannati all'estinzione, si rivitalizzarono in forme del tutto nuove.

Sono state proprio le ripercussioni in ogni paese del nuovo assetto mondiale seguito agli eventi del 1989 nell'Est europeo a imporre una nuova considerazione dei musei dedicati al periodo 1940-1945, divenuto uno dei temi più toccati dagli studi e dai convegni del settore nell'ultimo decennio. E mentre in alcuni stati si lavorava a rivisitare i musei esistenti, ne sono sorti nei paesi ridisegnati da nuove realtà politiche, come la Germania unificata, o investiti dai riflessi politici e culturali del decentramento regionale, o, infine, collegati in un sistema sovranazionale come la Comunità europea.

All'euforia per la fine del "secolo breve", apparentemente chiuso nella somma dei suoi orrori, è subentrata infatti la preoccupazione per un "passato che non passa", malgrado i grandi mutamenti, e che si ripresenta in modo sempre più inquietante in varie forme, sotto diversi profili: le guerre originate dalla fine dei precedenti equilibri, il peso della memoria della Shoah sull'irrisolto nodo medio-orientale, il rinascere di tendenze nazionaliste e xenofobe nell'Europa che afferma i "diritti" umani nelle proprie costituzioni e nel diritto internazionale proprio come risultato della resistenza democratica. La storia della Seconda guerra mondiale si ripresenta ancora carica di implicazioni che ci riguardano direttamente. Invitare il pubblico a conoscerla nella prospettiva del rapporto fra passato e presente risponde pertanto non a intenti anacronisticamente celebrativi ma all'originaria ispirazione pedagogica dei musei di storia.

I dati sulle presenze nei musei che hanno cercato di adeguarsi a tale impostazione mostrano che il pubblico è sensibile a questa nuova prospettiva. Si tratta di musei grandiosi e spettacolari, come il Mémorial pour la paix di Caen e la Haus der Geschichte di Bonn, per citare i principali, che hanno introdotto nel tradizionale modello del museo-contenitore le straordinarie risorse della tecnologia più aggiornata. Molto diversi nelle finalità e nelle realizzazioni, essi hanno in comune l'impostazione centralizzata sia nel concetto informatore sia nello spazio espositivo, all'interno del quale il pubblico deve compiere il suo viaggio nel tempo e il suo percorso di orientamento e di riconoscimento: orientamento nei processi macrostorici e riconoscimento di sé attraverso le vicende, luoghi e storie individuali più vicine alla sua esperienza diretta o indiretta. Più che musei-collezione sono musei-spettacolo, i cui costi di realizzazione e gestione impongono delle logiche di mercato che hanno suscitato non poche preoccupazioni.


Un approccio radicalmente diverso è costituito dal museo diffuso, verso il quale si stanno orientando gli operatori di numerosi paesi europei. Per quanto riguarda l'Italia, esso riprende e sviluppa in forme particolari l'espressione con la quale Andrea Emiliani aveva definito il volto stesso delle città italiane. Tale concezione, suggerita da un patrimonio urbanistico e artistico straordinario nella sua ricchezza e nella sua stratificazione, si fonda sullo stretto rapporto fra il territorio e la sua storia, principio che può essere applicato per estensione a diverse realtà: nel caso che ci interessa, esso aiuta a scoprire in una città, in un territorio qualsiasi, la memoria dei luoghi della guerra e degli eventi connessi, che non sempre coincide con la geografia dei luoghi della memoria.

Sostiene tale indirizzo la consolidata esperienza degli ecomusei e dei parchi storici, a loro volta fondati sull'idea che il territorio sia un immenso deposito di tracce del passato, che occorre riportare alla luce e interpretare nel loro significato specifico e nelle loro relazioni con il contesto locale e con la storia generale. Invertendo il processo di introduzione alla storia in uso nei musei tradizionali, si procede pertanto dal particolare al generale rinunciando alla mimesi, cioè alla pratica di ricostruire in un contenitore simbolico situazioni, eventi, luoghi. Questi saranno ricercati sul territorio, recuperati a una spiegazione storica e collegati in rete a centri d'interpretazione e di documentazione.

Tale approccio "decentrato" assume il punto di vista dell'utente e stimola la sua curiosità per la dimensione diacronica di luoghi conosciuti solo nel loro aspetto attuale, attivando il collegamento fra il presente noto e il passato ignoto. Esso parte dall'assunto che una mediazione efficace dell'interesse di un pubblico indifferenziato per la storia può essere costituita dall'esplorazione del territorio in cui si vive e dal riconoscimento dei segni (volontari, ma anche involontari, secondo la definizione di Riegl) del passato. Si cerca di sollecitare, cioè, la suggestione di un viaggio nello spazio e nel tempo, portando in luce la storia di luoghi, persone, cose poco note o note solo nella loro funzione e parvenza attuale. Questo meccanismo fa leva sulla relazione fra emozioni soggettive e ambiente che è indagata dalla psicologia ambientale nella prospettiva dello studio del disagio urbano e dello spaesamento. Le contiguità e le possibili sinergie fra questa disciplina e una museologia volta al recupero della dimensione storica attraverso i luoghi della memoria, ma soprattutto la "memoria dei luoghi", sono evidenti, benché ancora inesplorate. La specificità del museo diffuso consiste nel suo essere un sistema articolato di strumenti che svolgono funzioni diverse e integrate. Esso si organizza a tre livelli: le strutture fisiche, l'interpretazione, la comunicazione.

A Torino nel 2003, col sostegno della Città e della Provincia, ha preso avvio l'attività del Museo diffuso della Guerra, della Resistenza, della Deportazione, dei Diritti e della Libertà, che ha sede nello stesso Palazzo dei Quartieri militari nel quale operano l'Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea e l'Archivio nazionale cinematografico della Resistenza. Il titolo di "museo", nel senso tradizionale, è improprio: non esistono collezioni e allestimenti permanenti, ma spazi espositivi e di incontro pubblico, nei quali vengono sviluppati i temi presentati con apposite produzioni multimediali nella sala d'accoglienza, mediante mostre - cinque in un anno, delle quali quattro prodotte appositamente - cicli di film, dibattiti, attività didattiche innovative (come il concorso "Filmare la storia"). Il suo naturale retroterra sono le grandi collezioni documentarie dei due istituti che, pur continuando autonomamente le loro attività consuete, collaborano alla progettazione e alla realizzazione di gran parte delle iniziative proposte dal museo. Proprio la stretta integrazione fra i tre enti costituisce la novità della proposta, che consente un rapporto continuo fra ricerca e comunicazione, e offre al pubblico presso i due istituti gli strumenti per autonomi percorsi di approfondimento dei temi proposti.

Procede parallelamente il recupero di una rete di luoghi, dentro e fuori la città, che documentano momenti significativi della storia del territorio nel periodo bellico, con i quali il "museo" dovrà continuamente interagire grazie a un apposito portale. Si tratta di indirizzare in questo senso l'Ecomuseo della Resistenza nelle vallate alpine, a cui si è accennato, ma anche di creare nuovi punti di contatto, in Italia e all'estero. Soccorre in questa direzione il progetto franco-svizzero-italiano "Memoria delle Alpi", recentemente approvato dalla Comunità europea, grazie al quale è stata realizzata la mostra "Alpi in guerra / Alpes en guerre" allestita contemporaneamente a Grenoble e a Torino alla fine del 2003: prodotta con l'intento di considerare in una prospettiva nuova la storia dei territori alpini nella guerra, incrociando gli sguardi, gli archivi, le competenze, essa ha costituito l'avvio di una fattiva collaborazione fra tre paesi europei, sollecitando l'attenzione per eventi drammatici e in gran parte ignorati, transnazionali, come la storia del rifugio ebraico, che portò nelle Alpi migliaia di fuggiaschi provenienti da tutta l'Europa occupata.

L'intreccio fra ricerca scientifica, valorizzazione della memoria dei luoghi, comunicazione dei risultati in forme non rigide, ma capaci di suscitare sviluppi autonomi dovrebbe sorreggere l'attività di questo museo sui generis, insieme reale e virtuale. L'obiettivo ultimo è quello di entrare in rapporti operativi con altri progetti che presentano affinità sotto molti punti di vista: l'ecomuseo della Linea Gotica, al quale sta lavorando l'Istituto per i beni culturali (IBC) della Regione Emilia-Romagna, con un complesso programma di recupero archeologico, e di studio storico e antropologico, e il progetto europeo "Chemins de la mémoire", al quale partecipa lo stesso IBC con musei e centri di ricerca di altri sei paesi europei.

È forse possibile in questo modo dare anche ai cittadini di immigrazione recente le coordinate per conoscere il territorio in cui vivono, e per riconoscere nella storia locale i lineamenti di una storia generale che li ha toccati in altro modo. Si possono porre anche così le basi di una cittadinanza aperta alle trasformazioni del mondo contemporaneo.

 

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