Rivista "IBC" IX, 2001, 2
musei e beni culturali / storie e personaggi
Era circa mezzogiorno, quel 25 settembre 1943, quando Bologna fu aggredita da un rombo assordante, accompagnato da cupe ombre incombenti fra le case, tanto da abbuiare il cielo. Poi fragorosi e terrificanti arrivarono i primi scoppi, seguiti da urla, grida, pianti di gente che correva sconvolta, senza più orientamento. Fu il più spaventoso bombardamento che colpì una Bologna impreparata dopo l'armistizio dell'8 settembre. La feroce aggressione delle fortezze volanti alleate piombò sulla città, non annunciata né dall'allarme né dalla contraerea. Con mio fratello - lui vent'anni, io dodici - tentammo di correre verso casa, ma gli scoppi delle bombe e l'ondata della gente in preda al panico ci trascinarono nella cantina-rifugio della casa acanto a palazzo Bentivoglio, in via Belle Arti. Qui, nel buio quasi assoluto, ci si stringeva l'uno contro l'altro, quasi si cercasse in quel contatto umano un antidoto alla violenza scatenata su di noi da ondate successive di bombardamenti. Ad un certo momento, dall'esterno, si udì una voce concitata chiamare "mamma, mamma, mamma!", poi nel lieve chiarore del vano della porta si stagliò la sagoma zoppicante di un uomo. Qualcuno accese una pila e a quella luce fioca apparve un giovane coperto di calcinacci e sporco di sangue, che continuava a ripetere: "Mamma, mamma, sono Luciano!". Un grido, un abbraccio e il pianto liberatorio di una madre angosciata. Quel giovane era Luciano Minguzzi e quella fu la prima volta che lo vidi.
Già allora Minguzzi aveva alle spalle un curriculum di tutto rispetto. 1934: borsa di studio a Parigi; 1935: partecipazione alla II Quadriennale di Roma; 1936: esposizione alla XX Biennale di Venezia; 1938: vincitore del concorso della XXI Biennale per un rilievo da collocare nel salone dell'esposizione; 1939: esposizione di EVA, punto fermo nell'evoluzione artistica di Minguzzi; 1940: di nuovo a Venezia nella XXII Biennale; 1942: sala personale alla XXIII Biennale con quattordici sculture tra cui il Ritratto della madre in cera; 1943: IV Quadriennale di Roma, dove ottiene il terzo premio con Ritratto della madre nella nuova versione in pietra.
Tra il 1943 e il 1945 partecipa attivamente alla Resistenza, che ha immortalato nelle due statue di porta Lame a Bologna: un ragazzo e una ragazza tolti dalla fabbrica o dalla campagna, che impugnano le armi in modo goffo, senza aggressività, come impugnassero gli strumenti del loro lavoro. Dal 1950 vive a Milano e qui, tra Foro Bonaparte e via Solferino ha dato vita alle opere che l'hanno fatto grande. Qui, tra la casa, la Fondazione e lo studio, ha passato cinquant'anni della sua vita e qui ha recuperato ricordi e memorie brillantemente tradotti nella autobiografia di Uovo di gallo e Diritti e rovesci.
Oggi è un "grande vecchio" dalla mente cristallina, gli occhi deboli e le mani magiche. Nel 2002 l'Hermitage di San Pietroburgo ospiterà le sue opere nell'ambito di una grande esposizione internazionale. Con gli anni ha addolcito la sua scontrosità ma dentro è sempre stato generoso, sincero e modesto anche se consapevole che il suo nome è citato in tutte le enciclopedie, non solo italiane e non solo dell'arte. È felice di vedermi perché con me ritrova Bologna. "Sono cresciuto alla Crocetta, quasi sul canale di Reno, fra lavandai, lenzuoli svolazzanti e burle argute, spesso feroci" - ricorda - "Mio padre era scultore, autore di monumenti in Certosa ed in Romagna, ma la vita e il carattere gli hanno dato tante delusioni da renderlo perennemente malinconico. Mia madre Violetta - bella, bionda, con mani stupende - aveva invece grinta, coraggio e niente peli sulla lingua. Mio padre avrebbe voluto fare di me un ragioniere ma a diciotto anni piantai 'l'impiego sicuro' e passai all'arte. Frequentavo l'Accademia, lavoravo nello studio di mio padre (nelle soffitte di palazzo Bentivoglio occupate da tanti artisti) e frequentavo le lezioni di Roberto Longhi all'Università. Per insegnanti ho avuto Ercole Drei in scultura e Giorgio Morandi in incisione, negli anni della sua 'guerra' con Virgilio Guidi. Un odio implacabile, ostentato reciprocamente".
I ricordi si riallacciano gli uni con gli altri: "All'Accademia ho avuto per compagni Ilario Rossi, Norma Mascellani, Mandelli. Ilario e Norma avevano la stima e la considerazione di Morandi fin da allora. Con i Rossi l'amicizia era di famiglia, essendo anche suo padre scultore come il mio, e così venni coinvolto in un aneddoto divertente. Occorrendogli un certo documento, Ilario scoprì di non essere stato 'cresimato', per cui dovette in fretta correre ai ripari. Quasi in segreto si accordò con il suo parroco per una cerimonia riservata di cui io ero il "santolo", il padrino. Quando la mattina convenuta arrivammo in chiesa, quasi all'alba, trovammo una moltitudine di bambini cresimandi con i loro parenti tutti in ghingheri, fra i quali Ilario fu costretto a mettersi in fila. Lungo, allampanato, con me dietro che a malapena riuscivo a tenergli la mano sulla spalla, suscitò le risate di tutti i convenuti ed i loro commenti salaci".
Ricordando, Minguzzi sorride divertito, poi passa il testimone a palazzo Bentivoglio. "Che gabbia di matti eravamo! Si passava la giornata tra dipingere, plasmare, scherzare, cantare e fare l'amore! Si litigava per delle sciocchezze e nel contempo ognuno riusciva a tirar fuori il meglio di sé: cose serie, acute, intelligenti, importanti. Scapigliati, eravamo; gli ultimi di quella generazione a cavallo della guerra. Lì sono nati il 'ritratto di mia madre' e il 'gallo', che mi hanno aperto la strada nel mondo".
Parla volentieri Minguzzi, e risponde con semplicità alle mie domande: "Non ho mai lavorato con modelli. Tutto ciò che volevo fare l'avevo in testa e tutto ciò che ho fatto dopo la guerra - che esperienza! - porta i segni del dramma e della tragedia umana: i partigiani, le donne del lager, i cani tra le canne, le formelle delle porte, le Parche. Soggetti laici o religiosi, per me non c'è mai stata differenza. Nella Resistenza il mio nome di battaglia era 'Jacopo'. Che responsabilità un nome così grande! Dal '43 al '45 sono stato vicino a personaggi valorosi e di grande coraggio, come Renata Viganò, autrice del bellissimo Agnese va a morire, e il suo compagno Antonio Meluschi, che si definiva 'Ammiraglio Partigiano' perché aveva il comando di un gruppo di barche nelle valli di Comacchio. Un artista di strada dalla vita errabonda e l'animo e il talento di un grande poeta...".
Nel racconto di Minguzzi, arguto e pittoresco, le vicende artistiche si intrecciano ai racconti esuberanti dei "ragazzi di borgata" coi quali ha mantenuto festosi rapporti da una vita. Fra scherzi e lazzi cerchiamo di riportare il discorso sul suo percorso d'artista così ricco ed articolato: "Avevo poco più di vent'anni quando una borsa di studio mi portò a Parigi nel '34. Qui mi innamorai di Rodin. Passavo ore ad osservarlo, ad analizzare le sue forme i suoi volumi, la sua forza, la sua verità... Ci tornai dopo la guerra, quando Parigi divenne la meta di tutti gli artisti del mondo. Lì ho conosciuto Giacometti, Picasso, Sartre, Guttuso ed il famoso critico inglese Douglas Cooper che ha scoperto Picasso, già allora 'genio' riconosciuto. Mi fa ricordare che all'Accademia di Salisburgo, dove ha insegnato per un paio d'anni, ho avuto come direttore, e amico, Oskar Kokoschka".
Parla più degli altri che di sé, Minguzzi, e ne riconosce con generosità i meriti. Ora è la volta degli artisti di casa nostra, bravi anche se meno famosi. "A Bologna i miei amici erano Ciangottini, Rossi, la Mascellani, Protti, Manaresi, Vignoli. A parte, già allora più in alto, c'era Morandi. Da Bologna me ne sono andato presto, troppo presto, evidentemente, perché Bologna si accorgesse di me". C'è amarezza nelle sue parole e lui non cerca di nasconderla, consapevole che Bologna ha molto da rimproverarsi nei confronti del "grande vecchio" della scultura italiana, che a maggio prossimo compirà novanta anni.
"Eppure a Bologna, nel primo dopoguerra, abbiamo fatto grandi cose. Anni di grandi fermenti che hanno dato vita a 'Cronache': una galleria d'arte ed un movimento di rinnovazione con sede sotto le Due Torri. Il gruppo dei pittori era formato da Borgonzoni, Ciangottini, Corsi, Mandelli, Ilario Rossi e da me. Eravamo vivi, pieni di entusiasmo, legati da affetto e da una contagiosa necessità di esprimere qualcosa. Ci si incontrava ogni giorno e si discuteva anche ferocemente ma sempre con stima e rispetto. Il gruppo diede vita anche a un giornale, con la collaborazione di Enzo Biagi e Lamberto Priori, in stretto contatto con il gruppo 'Corrente' di Milano. Credo proprio che 'Cronache' abbia influenzato il successivo evolversi della cultura bolognese".
La nostalgia, a questo punto, prende il sopravvento: "Bologna me la porto sempre dietro, è legata ai miei primi quarant'anni. Ci torno sempre con gioia e me ne riparto con amarezza... Lì incontro amici e non, un sorriso e una civetteria, oppure, peggio, l'indifferenza ostentata. Allora scappo e ritorno a Milano, a rifugiarmi nel mio studio. "Qui ho realizzato le porte, quella del Duomo di Milano, quella del Bene e del Male per San Pietro in Vaticano, quella lignea di Porto Cervo, quella sofferta e tanto discussa per San Fermo a Verona". Una pausa e poi: "Mi piacerebbe essere ricordato come 'Luciano delle Porte'".
Pochi passi e siamo nello studio. Entrarvi è sempre un'emozione. C'è un'atmosfera fumosa e l'odore di cera fusa suggerisce la presenza di arcane figure: donne e bambini, il cane tra le canne, partigiani e santi, cardinali e papi. "Chissà se Bologna sa ciò che ho fatto! Avrei voluto dare di più alla mia città ma sono sempre stato "snobbato" e messo in difficoltà, come quando avrei voluto comprare la villa al Trebbo di Reno dell'abate Malvasia, l'autore di Felsina pittrice. Là volevo creare la Fondazione Minguzzi, che poi ho realizzato qui a Milano - a Brera, in via Palermo - in una ex ghiacciaia adattata a museo in modo egregio. Qui le opere che mi hanno dato celebrità raccontano tutta la mia vita di uomo e d'artista. Qui vengono in visita scolaresche, collezionisti, appasionati d'arte. Viceversa credo che alla Galleria d'arte moderna di Bologna non ci sia nessuna mia scultura rappresentativa. Quanti bastoni fra le ruote mi hanno messo a Bologna! Milano, invece, mi ha subito accolto con calore, inserendomi nella rosa delle grandi 'M' della scultura, fra Arturo Martini, Marino Marini e Giacomo Manzù".
Poi la sua "bolognesità" prende il sopravvento: "Ma anche Bologna ha una grande 'M': si chiama Morandi. Un grande, Morandi, specie nel periodo metafisico. Senza muoversi da Bologna ha intuito prima degli altri i grandi mutamenti che stavano avvenendo nell'arte, anticipandoli prima ancora che si manifestassero".
Che cosa resta nei suoi occhi - gli chiedo - della sua Bologna? "Purtroppo i miei occhi diventano sempre più deboli ma nella mia memoria restano cose sublimi: la lunetta di Jacopo della Quercia in San Petronio; il Compianto di Nicolò dell'Arca, davanti al quale mi inchino senza parole; la torre degli Asinelli, nella sua svettante eleganza; la Piazza, bellissima e armoniosa. Come tutti i bolognesi sono legato sentimentalmente a San Luca, tanto da dire, ogni volta che lo vedo stagliarsi nel cielo: "Ecco, sono a casa!". E con queste parole si conclude il nostro colloquio.
Sulla strada del ritorno, analizzando ciò che ha detto Minguzzi e ciò che ha fatto nel suo intenso vissuto, riconosco in lui l'uomo e l'artista impegnato a lasciare messaggi contro ogni forma di violenza. Ha rappresentato la condizione umana con un senso tragico, amaro, appassionato, irriverente e dolente. Ha studiato, meditato e tradotto la lezione dei grandi filtrandola attraverso la sua realtà padana, dando vita ad opere con uno stile che chi vuole può definire "espressionismo narrativo". È ancora oggi uno spirito inquieto, con il senso del grottesco intriso di fermenti emotivi, tanto che il suo modo di raccontare, così drammatico e solenne, evoca una narrazione verista dell'universo e del creato. Minguzzi non disdegna di definire "mestiere" la sua arte: le sue mani rudi, forti e sapienti, hanno cercato e trovato la forma da consegnare all'eternità.
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