Rivista "IBC" IX, 2001, 1

musei e beni culturali / interventi, restauri

Una guerra illustre contro il Tempo

Ezio Raimondi
[italianista, presidente dell'IBC]
Questo testo nasce sulla traccia di un intervento pronunciato nell'ottobre del 1999 durante la presentazione del progetto di restauro polifunzionale della Chiesa della Madonna di Castelnovo di Sotto (Reggio Emilia). Per il tema trattato, che riguarda le forme ed il valore della memoria nella sfera dell'azione culturale, può essere letto come una introduzione all'inserto su "Restauro 2001".
 
  È difficile pensare al mondo della cultura come a un mondo in cui non si attiva la memoria. I tempi si contraggono in ciò che troviamo dinanzi a noi e, per così dire, si vive del prodotto di generazioni che seguono altre generazioni. Tuttavia dobbiamo abituarci sempre più a ragionare sui paradossi e sulle forze che stanno insieme, perché questo è certamente uno dei portati del mondo contemporaneo, almeno da quando è venuto scoprendosi il limite del concetto di progresso. Anche nei riguardi del tempo e della memoria il nostro mondo continua a proporre i suoi paradossi. Per un verso, infatti, si può dire che viviamo in un'accumulazione crescente di memoria, che siamo diventati progressivamente consapevoli di ciò che ci è stato tramandato e di ciò che ci resta intorno. Il paesaggio, per esempio, è già una grande dimensione della memoria. Ma è anche vero, per un altro verso, che il mondo contemporaneo tende ad annullare tali accumuli di coscienza nelle frazioni sempre più ridotte dei processi di accelerazione e nelle semplificazioni dell'esperienza che organizzano ormai stabilmente la vita quotidiana delle persone. Su questa strada, però, la memoria tende a trasformarsi in industria, che è un'altra cosa dalla memoria intesa come senso profondo dell'accadere e del percepire.
  Per cominciare a riflettere su tali dinamiche temporali di perdita e acquisto, può essere utile introdurre subito, accanto all'idea del tempo, che è un'idea antica, il problema dell'invecchiamento. Un grande poeta, anche se discutibile nelle sue ragioni politiche, come Gottfried Benn ebbe a scrivere, intorno alla metà degli anni Cinquanta, un saggio di notevole qualità intitolato Invecchiare, problema per artisti in cui veniva discusso il rapporto tra le opere giovanili e le opere tarde di alcune grandi personalità della storia dell'arte e della cultura. Proprio componendo questo suo "ritratto della vecchiaia", che in parte voleva essere anche un autoritratto, Benn avanzava fin dalle prime battute la questione della "continuità dell'Io produttivo, delle sue mutazioni e delle sue fratture", di come fosse possibile, in una prospettiva critica, "caratterizzare il mutamento formale" con cui si approda "dall'opera giovanile allo stile tardo". Analizzando via via una serie di fenomeni e di dati molto vari, fra scienza della letteratura, biologia e introspezione, il poeta trovava che nel lavoro dei grandi artisti e degli inventori che avevano raggiunto un'età avanzata, il periodo della vecchiaia sembrava predominare su quello della gioventù, giungendo anche a riconoscere le tracce di una novità dello stile che sembravano nascere solo dopo che certe convenzioni e certi canoni ufficiali erano stati lasciati alle spalle, quasi che la vecchiaia lasciasse libera una nuova riserva di energia creativa.
  Tra i molti documenti addotti, accanto a una massima di Goethe, il quale diceva che invecchiare è come assumere un nuovo mestiere: o vi si rinunzia, oppure bisogna accettare la propria parte sino in fondo, il saggio di Benn riportava anche, come esempio proveniente da una cultura lontana, la testimonianza del grande pittore giapponese Hokusai, che, scomparso a ottantanove anni, nell'atto di ripercorrere la propria storia artistica fin dagli albori infantili concludeva: "Tutto ciò che avevo fatto prima dei settantatre anni non è degno che se ne parli. Verso l'età di settantatre anni circa ho compreso qualche cosa della vera natura degli animali, delle erbe dei pesci, degli insetti. Di conseguenza a ottant'anni avrò fatto ancora dei progressi, a novanta penetrerò il mistero delle cose, e quando ne avrò centodieci tutte le cose mie, anche una semplice linea o un punto, saranno cose vive". Come dire, dunque, che, anche là dove sembra che l'individuo vada esaurendosi, esiste un'idea del tempo come produzione del nuovo.
  Un'ipotesi da seguire, pertanto, è che ciò che chiamiamo età moderna nasca anche in rapporto al modo di intendere questa dinamica della vita e del tempo, dell'invecchiamento e della giovinezza. Non a caso, per incontrare un'idea del tempo che sembra davvero rovesciare i termini rispetto a ciò che si ricava dallo scritto di Benn, occorre retrocedere nelle epoche della nostra letteratura fino a uno scrittore come il Tasso, che, venendo nel 1573 a rappresentare l'Aminta, descriveva lo scorrere del tempo come una vera e propria consunzione, capace di togliere quelle vivacità che precedevano la vecchiezza: "Il mondo invecchia, ed invecchiando intristisce". In questo periodo, comunque, era ancora attivo, sebbene sulla via del declino, quel sentimento della storia come corrosione e come dissolvimento che si era nutrito del pensiero di derivazione agostiniana, dove il tempo consuma anziché accrescere, e dove, in qualche modo, il tempo è alternativo alla storia. Di lì a poco, tuttavia, con le prime scoperte della nuova scienza, prenderà corpo un'idea del tempo completamente diversa e con essa una nuova valutazione del rapporto tra giovinezza e vecchiaia, o tra vecchiaia e antichità.
  A cominciare fu probabilmente Francesco Bacone, con la sua idea della storia umana come acquisto conoscitivo, evolventesi dall'infanzia alla maturità; ma poi vennero alcune pagine del grandissimo Pascal, nella prefazione al suo Trattato del vuoto, dove si legge che "quanto più il mondo invecchia" tanto più si dà un continuo progresso, e che, in fondo, si può guardare la storia come una specie di grande individuo in cui l'età della vecchiaia è quella del presente anziché quella del passato. I veri vecchi, insomma, diventiamo noi, nel presente, mentre i giovani, l'infanzia, sono nel passato. Era questa l'idea nuova, che nasceva quasi ribaltando l'idea medievale del modernus e dell'anticus, cioè del grande vecchio posto nel passato e del giovane vivo nel presente.
Da questo punto in avanti comincia a essere pensabile una sorta di progresso che vede nel tempo qualcosa che accresce e che aggiunge valore. Al punto che se ne trova traccia anche in un nostro scrittore bizzarro, ma di grande qualità, come il Tesauro, che, in un libro paradossale già nel titolo, Il cannocchiale aristotelico, parlando delle arti macchinatrici e sostenendo che anche l'ingegnere col suo progettare tangibile è un costruttore di metafore, ma di metafore concrete, arrivato a considerare il telescopio, scriveva che se i tempi recenti avevano sentito la necessità di questi occhialoni di lunga veduta per arrivare a guardare la luna, allora il mondo doveva essere veramente invecchiato. Ma l'invecchiamento, anche in questo caso, sostenuto dalla straordinaria sagacia dello scrittore barocco, non era più un negativo bensì una crescita di esperienza.
  D'altra parte era stato proprio Bacone l'autore del detto "ars inveniendì adolescit in inventis", l'arte di inventare cresce e matura attraverso le scoperte. Ecco allora che lungo il Seicento comincia a svilupparsi un'idea del tempo e della vecchiaia come accumulazione di valore anziché come esaurimento. E quello stesso Seicento era poi il secolo in cui crescevano formule intellettuali che si richiamavano all'immagine del magazzino, che descrivevano la mente come un museo, come qualcosa che tesaurizza. Era la memoria che diveniva thesaurus, non soltanto per conservare quello che è autorevole e che viene ripetuto, ma anche ciò che di nuovo viene scoperto. Ed è proprio la nuova concezione del tempo che porta in questa nuova terra incognita.
  Nel mondo della cultura testi ed oggetti convivono insieme. Hanno delle gerarchie, ma sono un unico mondo di forme e di invenzioni. Mi fermerei però sul testo verbale, per alcune riflessioni che portano ad una sorta di paradosso. In generale, quando si pensa a testi lontani, il problema che si pone è quello di entrare in rapporto con la loro dimensione culturale e con quello che possono ancora dirci. Bisogna trovare i modi giusti per far sì che quelle parole ci dicano ancora qualcosa. Italo Calvino, parlando dei classici, diceva che "i classici sono quelli che hanno una forza infinita di dire ciò che debbono dire", sono cioè quei libri che continuano a produrre sempre. E qui si presenta il paradosso. I testi del passato, di là da certe consumazioni materiali nel loro interno, continuano ad essere vivi come organizzazioni verbali. Non invecchiano. Quando infatti, in epoche più vicine a noi, a partire dal Romanticismo, si è cominciato a codificare il problema di come si interpreta un testo, di come si entra in rapporto con qualcosa d'altro da noi, ci si è posti proprio la questione di che cosa significhi capire un testo meglio di quanto lo intenda chi lo ha prodotto. Il che a prima vista sembra un altro paradosso.
  Ma cosa voleva dire Schleiermacher quando formulò questa proposta che poi venne ripresa da tutti i romantici? In essa pare davvero contraddetto ciò che intendiamo solitamente quando pensiamo ad un testo del passato, a un testo greco o latino, del mondo Medievale o del Barocco. A prima vista pare che i noi di adesso, per arrivare in avanti, debbano tornare indietro nel tempo e ricostituire le condizioni che erano quelle attraverso cui nacque quel testo. In parte questo è vero, abbiamo bisogno di una simile tensione, perché riconosciamo che il testo è altro da noi, è altro dalla nostra cultura, e aprirne le pagine è esattamente come andare in un altro paese e sentire gli altri e noi stessi come stranieri, e poi lentamente cominciare a stabilire dei rapporti. In realtà però noi sappiamo anche che di fatto non c'è reversibilità. Non si torna indietro nel tempo. Non si ricostituisce una condizione originaria.
  Gli interpreti hanno poi spiegato che quando ci accostiamo a un testo nel tempo, c'è sempre un contesto di cui fa parte il lettore che diventa un reagente del testo. C'è, insomma, una nuova esperienza, venuta dopo, senza la quale il lettore non entra in rapporto con un testo che è portatore di un'altra esperienza. In quel momento il testo rivela le sue potenzialità, cresce, per così dire, anziché diminuire, e si realizza il paradosso per cui i nuovi contesti arricchiscono il testo. Senza processi arbitrari, all'interno del testo qualcosa si abilita: c'era un potenziale non ancora sfruttato che si mette in moto. Qualcuno ha ricordato anche che sotto queste pratiche interpretative potrebbe funzionare il grande modello della lettura del Testo Sacro, trasferito in forme secolarizzate. Sia per il mondo cristiano, sia in altro modo per il mondo ebraico, il Testo Sacro è un testo che consegna agli uomini che lo leggono una verità che cresce nel tempo.
  Anche volendo assumere questa prospettiva, allora, il testo è qualcosa che diventa "di più" attraverso il tempo, perché i nuovi lettori, le nuove generazioni, i nuovi momenti culturali, sono in grado di immettere in esso delle luci nuove. Vale la pena di ricordare, a questo proposito, la battuta di un grande critico polacco a proposito di Shakespeare. Riferendosi alla Polonia degli anni Sessanta, diceva che quando le nuove generazioni andavano a vedere Amleto, Amleto era la loro storia. Amleto erano loro giovani che chiedevano ai padri che cosa avevano fatto. E questo non era una falsificazione del testo, era la nuova vita che faceva esperienza del testo e per così dire lo faceva crescere. Dunque nel mondo della cultura il tempo è un positivo, anzi la misura di un testo cresce quanto più è capace di suscitare ragioni di questo tipo, quanto più entra nella esperienza, quanto più diventa costume. Come ha scritto ancora Bacone - che aveva dietro, in questo caso, Erasmo - la lettura deve diventare mores, deve diventare costume, cioè deve diventare qualche cosa che fa parte di noi.
  Anche qui si nasconde probabilmente un'aporia e un paradosso del mondo contemporaneo. Proprio all'inizio del nostro secolo, infatti, qualcuno osservava che il concetto di esperienza stava mutando in rapporto al mondo della cultura, dei nuovi oggetti e dei nuovi strumenti che regolavano il nostro rapporto con il quotidiano. A un concetto di esperienza che era costruzione nel tempo, accumulazione, come è stato detto, e quindi crescita si sostituiva una nozione di esperienza come esplosione dell'istante. Da una parte un segmento che continuava e dall'altra invece dei punti separati. Non c'è dubbio che il mondo della parola, quello che si lega all'operazione tradizionale del leggere, è ancora un mondo dell'esperienza che continua. Allora è sufficiente ripetere che nel mondo della cultura e della letteratura, e in questo caso anche delle immagini, il tempo è uno dei modi di arricchimento. È la possibilità che quelli che vengono dopo facciano diventare quello che era prima, rispettandolo, anche una parte propria. Al modo in cui i giovani polacchi di Varsavia, ascoltando l'Amleto di Shakespeare, lo sentivano sino in fondo per quello che era, ma in quelle parole sentivano anche una voce in più, che era la loro, ma che era anche là dentro.
  Dunque i testi si mettono alla prova attraverso il tempo. Per definizione la parola della cultura è una parola che tende a durare, che tende a crescere, che tende, per così dire, a moltiplicarsi. Un grande critico del nostro tempo, il russo Bachtin, più di altri ha sottolineato che i testi crescono nel tempo, che i loro fenomeni di senso si arricchiscono via via, anche in forme sorprendenti, proprio grazie agli incontri tra la nostra esperienza e quella passata che è codificata in loro. Ma a questo punto deve essere ben chiaro che noi non siamo più i soggetti di un progresso assoluto. Non siamo dei giudici tranquilli, perché nel momento in cui ci poniamo in rapporto con quel testo, giudichiamo ma siamo anche giudicati. Il nostro presente non sfida soltanto quel passato, ma è quel passato che sfida il nostro presente, e lo sfida con qualcosa che dura ancora e che riguarda questo piccolo universo che chiamiamo la terra. Era Bachtin che diceva che un testo in realtà è la risposta che noi gli diamo, è la forza che noi gli sappiamo comunicare. Siamo costretti, insomma, a dare una parte di noi. Siamo come Ulisse o Enea nella loro discesa agli inferi. Facciamo parlare i fantasmi versando del sangue, ma è il nostro sangue, siamo noi che ci mettiamo a disposizione.
  Nel mondo della cultura, anche se non lo sappiamo, siamo sempre dei custodi, custodiamo qualche cosa, e mentre siamo dei custodi, non dobbiamo chiudere i processi ma aprirli, tenerli aperti al presente come una delle tante piccole luci che ci illuminano in questo che è il nostro quotidiano, fatto di evidenze e insieme anche di segreti e qualche volta di misteri. Alla fine, però, resta questo paradosso: la memoria non riporta soltanto indietro, ma porta anche ciò che è indietro verso di noi, e per questo vuole una cura, vuole un rispetto, vuole un metodo, che alla fine è poi sempre un'etica, ovvero qualcosa attraverso cui si decide di noi e della nostra responsabilità. Oltre il paradosso, tuttavia, resta anche una domanda. In una trasformazione come quella che stiamo vivendo, con processi di accelerazione che certo sono diventati costitutivi del mondo moderno, quanto resta possibile che la memoria sia un'esperienza di arricchimento, che sia un momento della nostra identità e non dei nostri travestimenti?
  Le risposte certe sono già diventate precarie. Quelle che rimangono sono risposte di orientamento, dentro le quali sta a noi poi di decidere. Ma può essere già utile notare che in questa idea di un doppio tempo, di accumulazione o di esaurimento, mentre per un verso esiste il logorarsi della materialità dei prodotti culturali, sul piano dell'intrinseco il tempo continua a donare nuovi valori. Ed è sempre il caso di ricordare che il Manzoni, uno dei grandi creatori della nostra modernità letteraria, quando torna indietro nei secoli per inventare una voce più barocca del barocco, quella del cosiddetto Anonimo della prima pagina dei Promessi sposi (quella che solitamente si legge più distrattamente) con parole in apparenza semplici dice qualcosa di molto profondo: "L'Historia si può veramente deffinire una guerra illustre contro il Tempo, perché togliendoli di mano gl'anni suoi prigionieri, anzi già fatti cadaueri, li richiama in vita, li passa in rassegna, e li schiera di nuovo in battaglia". Nella prima stesura invece di "tempo" era scritto "morte": e anche questo può dar da pensare.
 
  (redatto a cura di Jonathan Sisco)

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