Rivista "IBC" XXVI, 2018, 4

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Io me ne sto in un cantuccio / all’ombra di una quercia

Ivan Orsini
[IBC]

Tra le innumerevoli opere scritte in dialetto nate in Emilia-Romagna, ci è capitato di incontrare un libro che, tra i numerosi pregi, ne mostra uno del tutto particolare: la molteplicità delle immagini. Il mondo poetico che ci si squaderna dinanzi procedendo nella lettura delle oltre 400 pagine ne è davvero ricchissimo: tratteggiate con pochissime e sapienti pennellate che evocano personaggi, ambienti, riti, consuetudini e realtà del mondo naturale e atmosferico, le immagini sembrano circoscritte a stagioni precise come l’estate e l’autunno. L’io poetante è figura fluida, che quasi si stempera nel singolo “quadretto”, attorno a cui prende forma il testo, in metro libero e dal respiro solitamente breve, paragonabile ‒ mutantis mutandis ‒ a quello di un haiku giapponese.

Il volume riunisce più di trent’anni di attività e mostra un’evoluzione negli argomenti trattati e, soprattutto, nel tipo di approccio al reale. Infatti, le prime raccolte (“Par su cont” [“Per proprio conto”] 1985 e “Al voi” [“Le voglie”] 1986) restituiscono, sotto forma di istantanee del pensiero e della memoria, momenti di disorientamento e di sospesa meditazione: stati d’animo incerti il cui superamento non pare profilarsi all’orizzonte, quanto meno nell’immediato. Portavoce, espressione di questa forma di disagio appare il maltempo, che spesso squassa i versi e comunica all’animo del lettore un leggero turbamento. È acqua piovana, talora torrenziale ma duratura, e si accompagna a venti turbinosi che investono l’animo del poeta e del lettore.

Ci piace ricordare qui la metafora a chiusura del componimento Transitus animae (ultimo della seconda raccolta): l’aldilà è una realtà ignota, equiparabile a un libro scritto in un idioma inusitato. È conoscibile quanto ci aspetta oltre la fatidica soglia? E, se sì, si tratta di un traguardo cognitivo conseguibile solo dopo l’attraversamento di tale soglia o anche al di qua della medesima? Il motivo della “lingua nuova” ritorna all’interno della poesia che inaugura la raccolta “Un zil fent” [“Un cielo finto”] 2010: qui la “lingua nuova” è il codice della cultura che segue cronologicamente l’apprendistato alla vita e agli affetti risalente all’infanzia, e che denuncia un fallimento nel momento in cui non consente la comprensione interpersonale.

Molti gli interrogativi che propone Spadoni e che nascono da zone d’ombra che interessano l’animo di ogni uomo. L’autore invita così il lettore a un dialogo silenzioso alla ricerca, se possibile, di risposte condivise.

La dimensione ambientale che funge da sfondo ai componimenti è quella locale. La città non esiste, esiste la dimensione raccolta del piccolo centro rurale i cui abitanti formano una comunità coesa negli affetti e nella reciproca conoscenza. Comunità formata da diversi volti che riaffiorano dalle nebbie del ricordo alla mente del poeta, ormai adulto, e che continuano a comporre fili di quella trama di sensazioni, emozioni ed accadimenti che conferiscono significati al passato. Si tratta di un mondo agreste, percorso da consuetudini e credenze (1), apparentemente privo di coordinate geografiche definite, che viene riconosciuto come “romagnolo” inaspettatamente solo nel primo (L’óra de’ sturb) dei testidella raccolta “E’ côr int j oc” (“Il cuore negli occhi”) pubblicata nel 1993: troviamo i riferimenti a Zagonara e alla Romagna. Spadoni preferisce ad una celebrazione oleografica della sua terra la rappresentazione del legame fortissimo che ha con la Romagna avvalendosi del dialetto, di cui sfrutta la straordinaria immediatezza comunicativa e l’estrema duttilità espressiva.

Nelle raccolte successive alle prime due la presenza romagnola è sicuramente maggiore: si pensi, a puro titolo di esempio, al fatto che una poesia era stata intitolata Ravenna oggi. Inoltre, il poeta vive nuove stagioni di confronto con la vita (cfr. il ciclo della natività di Gesù Cristo in “Nèsar” [“Nascere”]) e il mondo circostante. Le meditazioni giovanili assumono, nella raccolta più recente “I mur” [“I muri”] 2017, la fisionomia più nitida di una quasi capitolazione di fronte alla durezza di cuore e alla solitudine dell’uomo contemporaneo. La voce poetica prende atto di una situazione esistente e ne denuncia i mali: sopra tutti i tanti, molteplici muri che si ergono all’interno della compagine umana, anzitutto tra un nord e un sud, tra cittadini più o meno abbienti e migranti in cerca di una sorte migliore. Tuttavia, la speranza fa capolino già dal titolo dell’ultimo testo della raccolta e del libro, E fabiôl dla sperânza “Lo zufolo della speranza”.

In conclusione, segnaliamo il componimento La rumba della silloge “Nèsar” [“Nascere”] che costituisce, a nostro avviso, il manifesto poetico stupendo di un autore che ha saputo, lungo l’arco della carriera artistica, dare voce e immagine alle inquietudini proprie, inquietudini che, peraltro, appartengono a molti di noi, interrogarle senza però lasciarsene travolgere ma, anzi, prendendone al momento opportuno le distanze con sapiente ironia e anche autoironia, porgendo nel contempo testimonianza preziosa e, per certi versi, unica di un rapporto profondo con la terra nativa.

 

Libro:

Nevio Spadoni, Poesie 1985-2017, Società Editrice “Il Ponte Vecchio”, Cesena, 2017, pp. 432, Euro 18.

 

Nota

1. Cfr., ad esempio, il verso “l’è nêd cun la camisa dla Madòna” che evoca la figura del benandante (Carlo Ginzburg, I benandanti. Ricerche sulla stregoneria e sui culti agrari tra Cinquecento e Seicento, Einaudi, Torino, 1966).

 

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