Rivista "IBC" XXVI, 2018, 1

musei e beni culturali / progetti e realizzazioni, storie e personaggi

Appunti per una storia della scenografia nella Ferrara secentesca.
Meraviglie tra le quinte

Ivan Orsini
[IBC]

La Ferrara a cavallo tra Cinque e Seicento fu luogo di numerose rappresentazioni, interne ed esterne all’edificio teatrale, in cui un ruolo importante era svolto dagli allestimenti scenografici.

Questi apparati, infatti, interessavano non solo le messinscene teatrali ma anche qualsiasi altra forma di spettacolo pubblico, quali i cortei trionfali in occasione dell’ingresso in città di papi, imperatori, sovrani, principi ecc.; oppure i tornei a piedi o a cavallo, che consentivano il recupero e mantenimento di tradizioni cavalleresche presso gli esponenti dell’aristocrazia cittadina, lo sfoggio di potere e ricchezze di quest’ultima e, non da ultimo, la possibilità di offrire al pubblico spettacoli sfarzosi che concorrevano, assieme a tante altre manifestazioni, all’appagamento di quel gusto, proprio della età barocca, per la rappresentazione dell’eccelso, dell’incredibile ed imprevedibile. Forma mentis, questa, che avrebbe costituito la cifra di un’intera epoca come il Seicento italiano ed europeo.

Chi si occupava di apparati scenografici ricopriva una figura professionale in grado di dimostrare competenze condivise con ingegneri, architetti, manovali e artigiani. Priva di uno status sociale elevato e non definito sul piano normativo, poteva con il proprio lavoro autopromuoversi presso le élites e ottenere così favori e aiuti di varia natura. In una posizione analoga a quella dello scenografo si trovava l’impresario teatrale.

Gli scenografi a Ferrara tra Manierismo e Barocco non furono numerosi; ognuno dimostrò una sua personalità artistico-professionale. Quello che può considerarsi il capostipite fu il grande Giovan Battista Aleotti detto l’Argenta (dalla cittadina dove nacque nel 1546), la cui carriera fu quanto mai versatile, toccando l’architettura militare e religiosa, l’ingegneria idraulica, l’agrimensura, la letteratura scientifica e anche la scenotecnica e l’ingegneria teatrale. Anche sul fronte scenografico gli fu forse d’aiuto, almeno in principio, il marchese Cornelio Bentivoglio (che morì nel 1569); sappiamo per certo che i successi conseguiti dall’Argenta anche in tale ambito furono notevolissimi. Basti rammentare, a mo’ di esempio, gli apparati allestiti (fino a creare un teatro provvisorio…) per le feste svoltesi tra il 28 novembre e il 2 dicembre 1587 a Sassuolo, per celebrare le nozze sfarzose tra Marco Pio di Savoia (signore di Sassuolo) e Clelia Farnese (figlia del cardinale Alessandro) tenutesi il 2 agosto precedente presso il Palazzo Farnese di Caprarola. In occasione di quelle feste l’Aleotti mise in scena la favola pastorale Il sacrificio di Agostino Beccari risalente al 1555, con prologo ed intermezzi di Giovan Battista Guarini.

Avrebbe fornito ulteriori prove del suo talento organizzativo nei primi decenni del nuovo secolo, in collaborazione con il secondogenito (figlio di secondo letto) di Cornelio Bentivoglio, Enzo, che si sarebbe rivelato un geniale impresario teatrale nonché un sagace politico e diplomatico. Enzo infatti fu, assieme all’Aleotti e ad altri, tra i fondatori negli anni 1601-1602 dell’Accademia degli Intrepidi, una delle tante congreghe culturali (come quella degli Spensierati e quella dei Tenebrosi) che fiorirono a Ferrara nel XVI e nel XVII secolo.

Nel 1604 iniziarono i lavori di costruzione di un teatro stabile, ribattezzato “Teatro degli Intrepidi”, che purtroppo rimase vittima di un incendio nel 1679 e non venne più ricostruito. Enzo Bentivoglio e gli altri accademici acquisirono nel tardo autunno del 1604 dal duca Cesare d’Este – riparato a Modena dopo la Devoluzione del 1598 –, tramite la mediazione dell’agente ducale Giustiniano Masdoni, un ex granaio adiacente alla chiesa di San Lorenzo (area corrispondente all’attuale Piazza Verdi). Nel 1605 circa fu inaugurato, e nel corso del secolo fu considerato uno dei teatri più ragguardevoli – soprattutto sul piano architettonico – non solo di Ferrara ma dell’intera penisola.

Nel 1610 fu aperto un altro spazio teatrale nella città pontificia: ci riferiamo all’ala orientale di una grande sala rettangolare del palazzo ducale. Mentre nell’ala occidentale avevano luogo tornei a piedi o anche a cavallo ( 1), l’ala orientale era riservata a commedie e drammi pastorali.

Risale al 1616 la “Descrizione degli intramezzi coi quali il Sig. E. B. ( 2) ha fatto rappresentare la tragedia Bradamante gelosa di Alessandro Guarini”. Il resoconto pubblicato risulta anonimo, così come ignoriamo il luogo di rappresentazione della tragedia, quantunque sia molto probabile che si sia trattato di una delle due sedi poc’anzi citate. Ipotizziamo inoltre che, intorno a quell’anno, non ci fossero, all’infuori dell’Aleotti, altre personalità significative a Ferrara che potessero produrre un simile testo.

Risale invece a una data imprecisata (individuabile quasi certamente tra il 1600 e il 1605) la nascita a Ferrara di Francesco Guitti. Ingegno estremamente versatile al pari del suo precedessore Aleotti, seppe abbinare alle competenze già menzionate per quest’ultimo l’amore per la poesia (tanto che scrisse addirittura dei sonetti per pubblicazioni e di accompagnamento a eventi famosi, come il matrimonio di Ascanio Pio di Savoia e di Beatrice Sforza) e il gusto della narrazione degli spettacoli da lui stesso allestiti. Sarebbe interessante porre a confronto allestimenti veri e loro restituzione narrativa per capire il modo di porsi, in questi casi, da parte di un grandissimo artista del Seicento europeo. Non dimentichiamoci, infatti, che il dramma moderno è sorto agli inizi del Seicento grazie a uomini come il Guitti. Quest’artista, morto il 16 maggio 1640, quindi dalla vita e dalla carriera assai brevi, ottenne da Enzo Bentivoglio il primo incarico nel 1625, in occasione delle feste carnevalesche con cui si voleva allietare gli studenti dello Studium ferrarese. Era prevista al Teatro degli Intrepidi la rappresentazione dei cinque intermezzi scritti da Giovanni Battista Estense Tassoni, arciprete della cattedrale, e di una tragedia di autori vari, dedicata alla fuga di Enea dalla regina Elisa. ( 3) La rappresentazione poi sfumò perché venne meno il motivo principale dell’intero lavoro: la venuta in città del duca Taddeo Barberini.

Medesimo destino, ma segnato da altre ragioni, toccò nei primi due decenni del XVII secolo a un dramma pastorale ( 4) del conte anconetano Guidubaldo de’ Bonarelli, Filli di Sciro: opera apprezzatissima a quei tempi, seconda solo all’ Aminta del Tasso e al Pastor Fido di Giovan Battista Guarini. Addirittura, il cardinale Richelieu le assegnava la palma incontrastata. Nel 1607 la rappresentazione non avvenne per mancato consenso dell’autore. Nel 1612, invece, la prova generale riuscì felicemente, tuttavia la breve malattia seguita dalla morte improvvisa del duca di Mantova, Vincenzo Gonzaga, principale mecenate allora dell’Accademia degli Intrepidi, fece sfumare la messinscena.

Nell’ottobre 1625 il Guitti fu chiamato a Parma dal duca Ranuccio I Farnese per occuparsi degli allestimenti scenici necessari alla prima rappresentazione in assoluto che si sarebbe tenuta al Teatro Farnese nel dicembre 1628 in occasione delle nozze tra Odoardo I Farnese e Margherita de’ Medici. In tale circostanza venne approntata addirittura una naumachia allagando parte della cavea, e si ebbe il primo esempio di collocazione dell’orchestra tra palcoscenico e platea, scelta del Guitti, anche se la prima ideazione debba ricondursi all’Aleotti creatore, circa un decennio prima, nel 1618, dello stesso Teatro Farnese.

Nel 1631 il Guitti allestì a Ferrara l’opera-torneo La contesa, nel 1635 La discordia superata, ed è possibile che nel 1638 avesse allestito a Ferrara anche l’ Andromeda, di cui una tragedia omonima di Benedetto Ferrari era stata messa in scena l’anno prima a Venezia da uno sconosciuto (lo stesso Guitti?) ed è passata alla storia come la prima rappresentazione al mondo di uno spettacolo pubblico a pagamento.

Ora passiamo ad esaminare, nelle linee essenziali, il quadro dei marchingegni e dei diversi apparati scenografici citati da trattatisti e utilizzati da scenografi nel corso del Seicento ferrarese.

Dall’antichità fino ai tempi dell’Aleotti il principale strumento di variazione del fondale e dei quadri teatrali era stato il “periatto”, prisma triangolare infisso nel palcoscenico che disponeva appunto di tre facce dipinte a mano o ricoperte da teloni colorati. In questa maniera era possibile variare i fondali davanti o accanto ai quali si muovevano gli attori. Oggigiorno non possiamo farci un’idea sufficientemente accurata del grado di efficacia cui fossero pervenuti nel corso del passato i periatti; dobbiamo però immaginare che, nonostante i loro inevitabili limiti, tali risorse tecniche producessero effetti piacevoli e tutto sommato conformi alle aspettative del pubblico.

L’Aleotti affiancò ai periatti le quinte, solitamente disposte su quattro file per ciascuna delle due metà in cui era ripartito il palco; queste venivano mosse in modo simultaneo, ( 5) affinché i paesaggi facenti da sfondo potessero variare velocemente a vista. Il sipario fece la sua comparsa in questi anni; veniva tirato su o fatto cadere al principio dell’opera, ma non serviva ancora per nascondere mutamenti di scena, che anzi avvenivano di fronte agli occhi degli spettatori, perché questi potessero rimanere stupefatti della rapidità e radicalità di mutamento scenico. Uno dei maggiori talenti in questo senso, capace di suscitare quasi sgomento negli occhi dello spettatore, fu il marchigiano Giacomo (altrimenti detto Jacopo) Torelli, che nei decenni centrali del diciassettesimo secolo seppe approntare vari drammi, facendo sì che i mutamenti di scena avvenissero nel giro di pochi secondi con una rapidissima trasformazione del palcoscenico attuata per mezzo del movimento coordinato di più persone e apparati da queste governati.

Per muovere i loro marchingegni dagli effetti sorprendenti gli scenografi potevano sfruttare sia il sottopalco sia il soffitto del palcoscenico.

Esaminiamo ora, a titolo puramente esemplificativo, come e in che misura poteva essere riprodotto sul palco il mare. Partiamo dalla favola pescatoria Alceo scritta da Antonio Ongaro e pubblicata presso l’editore veneziano Ziletti nel 1582. La messinscena del 1613 non ebbe luogo. Cerchiamo di esaminare come quest’ultima avrebbe dovuto essere e di quali elementi disponiamo per potercene fare un’idea. La pagina che introduce al prologo riporta l’avviso topografico: “La scena si finge ne i lidi ove fù già Antio, dove è hora Nettuno Castello de i Signori Colonnesi”. L’ambientazione della favola, dunque, è presso il castello di Nettuno ( 6) della famiglia dei Colonna. Al principio del prologo si presenta Venere, mentre guida bianchi uccelli che spingono il carro su cui lei presumibilmente sta assisa. Dobbiamo quindi immaginare che l’azione drammaturgica si verifichi nella stagione primaverile, cui è solitamente associata la dea, principio vivificante della natura. I versi 1-2 del coro successivo al primo atto ci inducono, con l’allocuzione a “semplicette pescatrici”, destinatarie della voce corale, ad ipotizzare un contesto marino. All’interno del libretto sono solo questi i riferimenti ambientali cui è possibile appoggiarsi per tentare di ricostruire, seppur vagamente, gli apparati scenografici: si tratta di indizi assai scarni che non forniscono spunti su che tipo di allestimento potesse essere stato progettato.

Riandiamo adesso alla “Descrizione degli intramezzi coi quali il Sig. E. B. ha fatto rappresentare la tragedia Bradamante gelosa di Alessandro Guarini”. A pag. 25 il commentatore segnala che, quando il terzo intermezzo sembrava giunto al temine e il pubblico commentava ora il palazzo, ora il carro, ora il canto degli innamorati, vide all’improvviso ondeggiare quello che sembrava proprio un mare…increspato non dai venti di una burrasca ma dalla dolce brezza estiva che lo culla e sospinge a riva. Questa “invenzione” teatrale voluta da Enzo Bentivoglio avrebbe superato in maestria quanto, di analogo, veduto sino ad allora.

Dopo il quarto intermezzo, la scena cambia radicalmente: pare che attraverso il pavimento sia scomparsa la scena della vicenda conclusa e sia apparso un nuovo fondale, su cui campaeggia una ampia grotta marina, affiorante sul livello delle acque, circondata da scogli scoscesi e occupata, al centro, da un enorme trono, su cui sta seduto Plutone circondato da dieci divinità infernali. Come si può capire, anche qui torna l’elemento marino. Il sesto intermezzo invece introduce lo scenario di un giardino quasi edenico: dotato di una balaustra, ricco di fiori e di ogni meraviglia.

L’elemento marino trova rappresentazione plurima nel manuale del pesarese Niccolò Sabbatini Pratica di fabricar scene e machine ne’ teatri (Ravenna, 1638), dove ritroviamo tre modalità di ri-creazione dell’acqua:

  1. sul palcoscenico viene inchiodato un telaio rettangolare in legno, sotto al quale vengono fatte passare delle funi, parallele al fondale; ciascuna di esse è sostenuta e mossa da due collaboratori del regista che devono così suscitare un’idea di moto nel telo dipinto solitamente in azzurro o blu che viene disteso sul rettangolo ligneo prima citato;
  2. a un’assicella lunga fissata al palcoscenico ne sono attaccate due più corte, ciascuna con un’estremità inchiodata all’assicella principale; il telo azzurro/blu distesso sulle due assicelle più brevi produce l’effetto-mare;
  3. si posizionano sul palcoscenico dei rulli di legno tortili, tenuti assieme da corde e assicelle di legno; su questi rulli viene disteso il solito telo blu/azzurro per promuovere l’effetto della marina.

Un tratto non indifferente dei marchingegni di scena era la loro riusabilità: ad esempio, gli intermezzi composti da Giambattista (padre) e Alessandro (figlio) Guarini nel 1612, destinati in un primo tempo a corredare la favola pescatoria Alceo di Antonio Ongaro -messinscena (1613) che alla fine saltò-, furono alla fine ridestinati alla tragicommedia Idalba (1615) di Maffeo Venier. Naturalmente, gli apparati scenografici seguirono gli intermezzi.

Come si è visto, il tema di questo intervento è estremamente ricco e al suo interno assai diversificato. Quelle che abbiamo proposto sono modeste campionature da un universo di testi, forme e macchinari che fu capace di suscitare fortissime impressioni nello spettatore in un’epoca in cui il meraviglioso, l’inusitato, l’artificium destavano maggiore presa e interesse rispetto ad altri valori.

 

Note

1 I quadrupedi dovevano salire un piano inclinato, così come capitava a Palazzo d’Accursio a Bologna, presso la grande scalinata di accesso ai saloni di rappresentanza posti al primo piano dello stabile.

2 Enzo Bentivoglio.

3 O Elissa, comunque meglio conosciuta come Didone.

4 Le favole pastorali sono state definite “spettacoli irrealistici dalla struttura non rigida” (Pieri: 1983, 199).

5 Al principio serviva un uomo per muovere la singola quinta, poi la stessa persona poté coordinare il moto contemporaneo di più quinte.

6 Subentrato all’antica Anzio di età romana.

 

Bibliografia consultata:

AA.VV., Il cavallo di Troia. Macchine e meccanismi scenici e letterari, a cura di Alfredo Giuliani, Reggio Emilia, Litograf 5, 1995.

AA.VV., La scenografia barocca, a cura di Antoine Schnapper, atti del XXIV Congresso Internazionale di Storia dell’Arte (Bologna, 10-18 settembre 1979), Bologna, Clueb, 1982 

Adami Giuseppe, Scenografia e scenotecnica barocca tra Ferrara e Parma (1625-1631), Roma, L’”Erma” di Bretschneider, 2003.

Baur-Heinhold Margarete, Teatro Barocco, Milano, Electa, 1968 (ed. tedesca 1966).

Carandini Silvia, Teatro e spettacolo nel Seicento, Roma-Bari, Laterza,  1990.

Descrizione degli intramezzi coi quali il Sig. E. B. [Enzo Bentivoglio] ha fatto rappresentare la tragedia “Bradamante gelosa” di Alessandro Guarini, Ferrara, 1616.

Ongaro Antonio, Alceo. Favola pescatoria, Venezia, Ziletti, 1582.

Pieri Marzia, La scena boschereccia nel Rinascimento italiano, Padova, Livia Editrice spa, 1983.

Sabbatini Niccolò, Pratica di fabricar scene e machine ne’ teatri, Ravenna, De’ Paoli-Giovannelli, 1638.

Tamburini Elena, Scenotecnica barocca. La 'Costruzione de' Teatri e Machine Teatrali' di Fabrizio Carini Motta (1688) e la 'Pratica delle machine de' Teatri' di Romano Carapecchia (1689-91), Roma, E & A, 1994.

Tessari Roberto, La drammaturgia da Eschilo a Goldoni, Roma-Bari, Laterza, 2002 7 (1993).

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