Rivista "IBC" XXIV, 2016, 1

musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali / interventi

In occasione dell'incontro "Città, visioni, trasformazioni" alla Galleria civica di Modena, pubblichiamo il contributo di Roberta Valtorta.
Note su Gabriele Basilico, Paolo Monti, la committenza pubblica ieri e oggi

Roberta Valtorta
[Storica della fotografia e direttrice del Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo]

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Quindici anni fa, nel 2001, scrissi un testo per un catalogo pubblicato in occasione di una vasta campagna fotografica svolta da Gabriele Basilico per l'Istituto dei beni culturali della Regione Emilia-Romagna. Il tema era la riqualificazione delle città, dalle aree dismesse o in via di dismissione ai quartieri residenziali, dai centri storici alle aree vuote a causa della cessazione di attività industriali o comunque produttive (1).

Dagli anni settanta del Novecento ai primi anni dieci del 2000 Gabriele Basilico ha dedicato un enorme lavoro alle continue modificazioni in corso nei territori industriali che divenivano postindustriali. Nelle sue indagini non ha mai separato l'architettura dal paesaggio, con profonda apertura verso l'osservazione del mondo esterno nella sua totalità. Pur fedele a una rigorosa fotografia di impronta documentaria, ha guardato il paesaggio contemporaneo con sentimento, descrivendolo come un corpo che respira, dotato di vita e di personalità (2). Nella sua fotografia, come in tutta la più vigile fotografia contemporanea, non vi è ricerca della bellezza né rifiuto della mediocrità dei luoghi. Vi è, semmai, e non palesemente, il desiderio di una possibile nuova bellezza del mondo. È quanto legge nella fotografia di Basilico Aldo Rossi quando scrive: "Certo, forse questo è il senso (...) una nuova bellezza è nata. Come sempre è nata dalle scorie di ciò che credevamo di conoscere (...)" (3).

Basilico studia l'intero paesaggio contemporaneo come un vasto insieme, senza creare gerarchie di importanza, senza giudicarlo, sempre cercando di capirlo e perdonarne i difetti. In questo la sua fotografia, per quanto controllata, è lontana da utilizzi retorici del linguaggio e da preoccupazioni di tipo estetico in senso tradizionale. Invece, l'estetica viene recuperata nel suo originario significato di esperienza (4). Proprio in questa parola sta il senso del continuo rapporto con i luoghi in trasformazione, e la fotografia si definisce non tanto e non solo come arte del guardare ma soprattutto come arte del costruire relazioni, un concetto che è pienamente sintonizzato con la sensibilità artistica contemporanea, anche in senso antropologico.

In questo senso, assume grande importanza un termine che Basilico ha iniziato a utilizzare a metà anni ottanta, mentre lavorava all'interno della Mission Photographique de la DATAR (5): contemplazione, "parola − egli scrive − che per anni ha significato solo sentimentalismo e disimpegno, per me oggi significa visione diretta e cosciente, pura, senza acrobazie di interpretazione". Atteggiamento che genera in lui un armonico "benessere di comprensione" (6), un desiderio di riconciliazione con il paesaggio e di appartenenza.

Il metodo di Basilico, basato sulla descrizione, esige percorsi lunghi, idealmente senza fine: per questo la sua opera si fonda sulla durata e costituisce un flusso di immagini in evoluzione, che presenta solo piccoli spostamenti di codici nel tempo. Per questo egli è stato un fotografo instancabile. Scrive: "L'esercizio dello sguardo è una forma di conoscenza. Io vorrei prolungarlo all'infinito. Poi mi accorgo che questo è sovrumano: però il piacere è quello di sentirmi all'interno di qualcosa che non ha fine" (7).

La fotografia di Basilico studia tutte le complesse strutture che gli uomini hanno costruito e che rappresentano gli uomini stessi, l'ambiente costruito in tutti i suoi aspetti, la fragilità del paesaggio postindustriale in trasformazione. Tutta la sua vasta ricerca, va sottolineato, per quanto abbia trovato importanti sbocchi nel mercato dell'arte, si è svolta quasi sempre nell'ambito della committenza pubblica. Come nel lavoro svolto nel 2001 nei territori urbanizzati della regione Emilia-Romagna di cui si diceva, che altro non è che un momento nel continuum della sua ricerca.

 

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Nel mio scritto di allora qui interrompevo il discorso e facevo un salto all'indietro agli anni settanta. A Paolo Monti. Citavo alcune parole scritte da Andrea Emiliani su Monti: "Credo davvero che, nella seconda parte della sua vita, vincesse in lui un grande disegno storiografico, come se si trattasse di dare di questa Italia una immagine nuova, adatta ai tempi: all'Italia, dico, di questo dopoguerra, colma d'ogni incertezza e d'ogni sociale transizione, del paese contadino abbandonato, di quella delle città storiche aggredite delle periferie allucinate" (8). Citavo anche Romeo Martinez: " Egli è stato molto di più che fotografo di architettura; bisognerebbe inventare per lui la qualifica inedita di fotografo urbanista (...). Il suo immenso lavoro realizzato in Emilia Romagna" costituisce "qualcosa che si può ben considerare definitivo" (9).

Come è noto, Monti lavora al censimento dei centri storici delle città emiliane e romagnole e al rilevamento delle emergenze culturali del territorio dal 1965 al 1982, anno della sua morte, parallelamente fotografando in modo assiduo l'architettura storica italiana. Ciò che lo anima è un forte impegno civile. Per Monti solo la conoscenza accurata del territorio consente di conservare e pianificare, e la fotografia è un sicuro strumento di conoscenza. "Interi centri storici - scrive nel 1977 - sono stati distrutti senza neppure conservarne il ricordo con un completo censimento fotografico. Ora la realtà di ogni giorno ci avverte che il nostro paese è avviato per cause diverse alla progressiva disgregazione del passato civile delle comunità locali. Questo è il momento in cui la fotografia può dare il massimo contributo alla conoscenza di questo mondo civile così altamente qualificato e ancora vitale, per conservarlo e pianificarlo secondo programmi particolari" (10).

Monti pone la propria professione al servizio di questo grande piano di tipo civile. Al centro del suo discorso sta la questione dei centri storici e la salvaguardia della storia e della memoria che essi incarnano, come era nel dibattito di quel periodo. Infatti gli anni settanta sono un momento nel quale la storia può ancora essere idealmente pensata come perno del presente: i centri storici paiono ancora costituire, seppure in un estremo allarme, il cuore non solo simbolico ma anche strategico delle città. Nelle parole e nelle fotografie di Paolo Monti, alacre collaboratore dell'ente pubblico, esiste ancora una speranza di bellezza, di riconquista della bellezza attraverso la volontà umana e l'intelligenza: un desiderio di far valere la ragione che può definirsi illuminista.

Gli anni in cui ha operato Basilico vedono, al contrario, la dimensione fisica e anche simbolica delle città mutare fino a diventare non più misurabile. A questo proposito Stefano Boeri osserva che "il codice genetico delle città" sembra essere presente ormai "anche in aree suburbane e a bassa densità edilizia", e "la diffusione delle città verso la campagna e il ribaltamento del rapporto tra centro e periferia (...) sembrano aver rotto gli argini fisici della dimensione urbana. Al punto che oggi l'urbanità sembra essere una qualità potenziale di tutti i luoghi abitati" (11). Il territorio contemporaneo, un continuum di manufatti e di combinazioni urbane sempre variabili, impone dunque al fotografo un'attenzione nuova, che non può più fare riferimento a un centro né reale né ideale, e che deve necessariamente essere totale, mobile e soprattutto, appunto, tollerante. La poetica di Gabriele Basilico ha queste caratteristiche ed è aperta a una contemporaneità che chiede non uno, ma molti perni nel territorio capaci di sprigionare significato.

Intanto, tra l'epoca di Monti e quella di Basilico, anche la collocazione culturale del fotografo è cambiata spostandosi dall'ambito della cosiddetta "comunità della fotografia" (che poteva essere tangente o intrecciata a quella del giornalismo, dell'architettura, della moda, o della pubblicità, etc.) a quella della sfera di attività che definiamo arte (12). Mi riferisco soprattutto a una questione di strategia e di intenzione culturale: l'ingresso della fotografia nel sistema del mercato e delle istituzioni dell'arte (dalle gallerie alla critica, dai musei all'università, dalla stampa ai mass media, fino a internet) ha legittimato nei fotografi comportamenti intellettuali e creativi ben più liberi e scelte ben più forti e ampie che in passato.

Così, se Monti si ritiene un fotografo professionista in grado di operare con autorevolezza nel campo dei problemi dell'arte, dell'architettura, della città, della società in cui vive, Basilico osserva ed esperisce il mondo da artista, da dentro il mondo dell'arte. Se Monti ritiene di documentare e di leggere la realtà attraverso la fotografia, Basilico costruisce il suo progetto artistico di relazione con il mondo. E, quel che più conta, le due ipotesi di lavoro, quella di Monti e quella di Basilico, vengono messe in pratica proprio quando i due autori operano nell'ambito della committenza pubblica. Due modi diversi di vivere il proprio ruolo sociale e intellettuale, poiché dal punto di vista storico, e considerato anche il loro comune impegno, Basilico inizia a lavorare nell'esatto momento in cui Monti finisce, nei primi anni ottanta. Si tratta di un importante processo di avvicendamento, di un vero e proprio passaggio del testimone. Ma tra i due grandi fotografi italiani vi è un baratro, poiché essi hanno operato al di qua e al di là di uno spartiacque nella cultura italiana: il primo nel tratto di storia che strappa l'Italia al disastro del dopoguerra e la conduce agli anni settanta con fiducia, con il compito di affermare la dignità della professione del fotografo; il secondo nel tratto che da quegli anni di utopie sociali presto divenute speranze perdute prende l'avvio per entrare in un nuovo momento di cambiamento, quando la fotografia è divenuta arte.

Nell'ambito pubblico, il ruolo del fotografo ha avuto, tra Ottocento e Novecento, una importanza crescente (13), fino a che, tra anni ottanta e novanta del secolo scorso abbiamo assistito alla fioritura e alla maturazione di moltissimi progetti fotografici dedicati al paesaggio nell'ambito della committenza pubblica, che è divenuta uno spazio di lavoro sempre più significativo per i fotografi e sempre più importante dal punto di vista sociale. Lo sottolineano autorevolmente i teorici della DATAR, quando scrivono: "Coscienti della necessità di dare al concetto di "paesaggio" anche il significato nascosto di "cultura perduta", la DATAR ha deciso di interpellare quei fotografi che vivono al tempo stesso il loro ruolo di artisti e la volontà di confrontarsi con i nuovi bisogni sociali. A questo punto, dovremmo asserire che mentre la DATAR ha bisogno degli artisti per sviluppare il suo lavoro di ricerca, i fotografi hanno bisogno di incarichi di lavoro per superare gli ostacoli loro imposti contemporaneamente dagli sviluppi dell'arte moderna, dal mercato dell'arte, e dalla domanda crescente di operatori specializzati" (14).

 

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Ma, finita questa stagione ora storicizzabile, se veniamo alla nostra immediata contemporaneità dobbiamo porci alcune domande. Che cosa è oggi il paesaggio, che cosa è diventato? Chi è oggi il fotografo? Esiste ancora la committenza pubblica e quale è, eventualmente, la sua necessità e la sua efficacia?

Sappiamo che il paesaggio contemporaneo ha proseguito e ha sviluppato tutte quegli aspetti che caratterizzavano il paesaggio postindustriale fotografato nel cambio di millennio da Basilico e altri fotografi suoi compagni di strada (15). Nei territori sono cresciute forti, grandi e inedite strutture, potenti infrastrutture, manufatti dedicati alla logistica e alla distribuzione, sono nati i grattacieli della globalizzazione, si sono create aree naturali protette ma anche terre residuali dimenticate, quelle chiamate terraine vague, e su tutto questo dominano i segni sempre più netti di una omologazione a livello globale. Si è parlato di "superluoghi" (16) che hanno sostituito i "non-luoghi" indicati da Marc Augé negli anni novanta (17), che intanto si sono storicizzati divenendo a loro volta luoghi. Il paesaggio si è per così dire lanciato verso il futuro, come una mostra ricca di intuizioni dal titolo Spectacular City. Photographing the Future già una decina di anni fa ha messo in evidenza (18).

I fotografi hanno risposto al cambiamento interessandosi sempre di più non ai luoghi nei quali vivevano e avevano le loro radici, ma ai grandi nuovi paesaggi del mondo globalizzato. Hanno viaggiato molto, sempre di più, affrontando territori sconosciuti, neonate città, metropoli, megalopoli dei vari continenti. Il tema sociale è riemerso, riconquistando un'attualità che aveva perduto negli anni ottanta-novanta, dunque la fotografia è andata oltre il paesaggio inanimato, in cerca di storie umane, in una indagine spesso composta di frammenti e tentativi di narrazione realizzati dentro le comunità. Alla fotografia si sono spesso uniti il video, la scrittura, l'intervista, la testimonianza verbale, e poi, in anni recenti, la riscoperta e l'utilizzo di immagini contenute nei vecchi archivi trovati nelle case private, nelle istituzioni, negli uffici delle industrie dismesse, che si sono mescolate alle fotografie realizzate dal fotografo. Hanno anche preso piede pratiche che, avendo le loro radici negli anni Sessanta, di recente sono parse una via d'uscita per quell'area dell'arte contemporanea che si interroga su una possibile funzione sociale: l'arte pubblica e l'arte partecipata. Così, da un lato le fotografie trovano collocazione negli spazi pubblici, dall'altro nascono insieme ai cittadini, spesso i cittadini stessi fotografano e le loro immagini si uniscono a quelle dei fotografi (19). Si cercano così nuove possibili narrazioni della complessità contemporanea, in una vicinanza ai territori e al loro vissuto, nel tentativo di costruire un discorso insieme sociologico, antropologico, urbanistico, artistico assai sfaccettato nel quale la fotografia è uno dei tanti possibili strumenti di indagine, insieme ad altri.

La committenza pubblica non ha più il peso, anche simbolico, che aveva, né il prestigio. Il mercato dell'arte sembra costituire il contesto al quale i fotografi oggi maggiormente aspirano. Dunque in ambito pubblico in luogo di grandi progetti sono nati progetti più circoscritti, raramente costruiti su tempi lunghi di realizzazione: tutto è più veloce, la durata non è più un valore. Ricordiamo che il progetto Archivio dello spazio, voluto dalla Provincia di Milano, durò dieci anni, la Mission Photographique de la DATAR cinque anni, la Mission Photographique Trans Manche o Linea di Confine per la Fotografia Contemporanea più di vent'anni, Photoworks/Cross Channel Photographic Mission ancora di più, e molti altri progetti di committenza europei per molti anni (20). Sulla riduzione dei progetti in termini di tempo e di numero di fotografi hanno indubbiamente influito finanziamenti più ridotti, ma anche, e significativamente, un'idea di pubblico e di missione civile ben più debole di quella che aveva animato i progetti pubblici nella loro stagione d'oro. Basti ricordare che i curatori della Mission Photographique de la DATAR per indicare l'importanza del ruolo del fotografo utilizzavano questa espressione: mandato sociale.

Il concetto di pubblico e quello di privato non sono più così chiari a livello sociale e neppure nella mente degli artisti. L'idea di "lavorare in gruppo" per l'ente pubblico e dunque per la collettività che tanto animava le intenzioni dei fotografi di un tempo, si è forse oggi trasferita nella tendenza a formare "collettivi" di lavoro (TerraProject, Cesura Lab, o Exposed, nato a ridosso di EXPO 2015), o raccolte di fotografie in rete (Landscape Stories). Inoltre anche i concetti di "campagna" e quello di "archivio" sono cambiati, e quest'ultimo spesso vive solo in forma virtuale e più libera, nella rete.

Accade che alcune committenze si svolgano all'interno di festival della fotografia (in Italia, per esempio, Fotografia Europea o Bitume Photofestival), avendo quindi non più l'istituzione pubblica come riferimento e la formazione di un archivio da consegnare alla storia come obiettivo, ma luoghi più "effimeri" di condivisione e socializzazione come sbocco e ambito appagante. La partecipazione (elemento che ritroviamo anche nelle frequenti operazioni di crowdfunding, nei quali il committente viene a essere un gruppo che si ritrova idealmente nel progetto proposto), il dialogo con il complicato tessuto della società contemporanea, la condivisione dei linguaggi e dei comportamenti costituiscono l'imperativo dell'arte e dunque anche della fotografia contemporanea. Il committente è dunque il pubblico stesso, sotto forma di cittadini, associazioni, enti che si riconoscono in un progetto, in un sistema di scambio. Sono i criteri e gli ideali espressi nei programmi dei Nouveaux commanditaires, dispositivo promosso con grande lungimiranza fin dall'inizio degli anni novanta (quando la grande committenza pubblica finiva) dalla Fondation de France e accolto in Italia nei primi anni Duemila (21). Una sfida non minore, non più semplice, non priva di aspetti di utopia, di quella che stimolava enti pubblici e fotografi negli anni ottanta-novanta a impegnarsi per creare memoria per la collettività. Poiché se l'arte è una forma di utopia, ancora di più lo è, forse, la ricerca di una sua funzione sociale.

 

 

1 Gabriele Basilico. LR 19/98, a cura di Piero Orlandi, Editrice Compositori, Bologna 2001.

2 Ho spesso adottato questa ipotesi di analisi del lavoro di Basilico. Per la prima volta in uno scritto pubblicato in Gabriele Basilico, Porti di mare, Art&, Udine 1990.

3 Idem, ibidem, pag. 5.

4 La prima antologica dell'opera di Basilico porta nel titolo questa parola. Gabriele Basilico, L'esperienza dei luoghi. Fotografie 1978-1993, Galleria Gottardo, Lugano 1994.

5 François Hers, Bernard Latarjet, Paysages/Photographies. En France les années quatre-vingt, Editions Hazan, Paris 1989.

http://missionphoto.datar.gouv.fr/

6 Gabriele Basilico, Per una lentezza dello sguardo, in Idem, Bord de mer, Art&, Udine 1992, pag. 12.

7 Gabriele Basilico, Porti di mare, cit., pag. 8.

8 Andrea Emiliani, Un maestro della cultura moderna, in AA.VV., Paolo Monti e l'età dei piani regolatori (1960-1980), Edizioni Alfa, Bologna 1983, pag. 13.

9 Romeo Martinez, s.t., ibidem, pag. 23.

10 Paolo Monti, La fotografia al servizio della programmazione (1977), ibidem, pag. 130; ora in: Paolo Monti. Scritti e appunti sulla fotografia, a cura di Roberta Valtorta, Lupietti Editori di Comunicazione, Milano 2009, pag. 121.

11 Stefano Boeri, Per un "atlante eclettico" del territorio italiano, in Gabriele Basilico e Stefano Boeri, Sezioni del paesaggio italiano, Art&, Udine 1997, pag. 9.

12 Interessanti, a questo proposito, le osservazioni di Peter Galassi nel saggio Gursky's World, in Andreas Gursky, The Museum of Modern Art, New York 2001, pag. 10.

13 Fotografia e committenza pubblica. Esperienze storiche e contemporanee, a cura di Roberta Valtorta, Lupetti Editori di Comunicazione, Milano 2009.

14 François Hers e Bernard Latarjet (a cura di), L'experience du paysage, in AA.VV., Paysages Photographies. La Mission Photographique de la DATAR. Travaux en cours, Hazan, Paris 1985.

15 Sugli sviluppi della fotografia di paesaggio in Italia cfr. Luogo e identità nella fotografia italiana contemporanea, a cura di Roberta Valtorta, Einaudi, Torino 2013.

16 La civiltà dei superluoghi, a cura di Marco Agnoletto, Alessandro Delpiano, Marco Guerzoni, Damiani 2007.

17 Marc Augè, Non-lieux, Editions du Seuil, Paris 1992; ed. it. Non luoghi, Eleuthera, Milano 1993.

18 Spectacular City.Photographing the Future, a cura di Aaron Betsy, Eelco vanWelie, Nai Publishers, Rotterdam 2006.

19 Matteo Balduzzi, Narrazioni collettive dello spazio pubblico, in Luogo e identità …, a cura di Roberta Valtorta, cit.; Gabi Scardi, Paesaggio con figura, Umberto Allemandi & C., Torino 2011.

20 Informazioni sulla durata di molte campagne pubbliche contemporanee in Fotografia e committenza pubblica…, a cura di Roberta Valtorta, cit.

21 Matteo Balduzzi, Narrazioni collettive dello spazio pubblico, cit., pag.307-308.

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