Rivista "IBC" XXII, 2014, 1

musei e beni culturali, biblioteche e archivi / pubblicazioni, storie e personaggi

Musica e cibo: da una ricerca di Giancarlo Fre prende vita un itinerario che passa dalla cucina all’opera, sullo sfondo dell’Emilia-Romagna.
Concertato per palati fini

Antonella Campanini
[ricercatrice in Storia medievale all’Università degli studi di Scienze gastronomiche di Pollenzo]

Il 2013 è stato, musicalmente parlando, un anno prodigo di anniversari per l’Emilia-Romagna. Al centro dei festeggiamenti il bicentenario della nascita di Giuseppe Verdi da Roncole di Busseto; al suo fianco, quello di Richard Wagner, nativo di Lipsia, le cui opere furono “adottate” da un pubblico bolognese entusiasta, che batteva sul tempo gli altri teatri italiani. La nascita dei due grandissimi avvenne, tra l’altro, a un secolo esatto di distanza dalla morte di Arcangelo Corelli da Fusignano, forse un po’ meno conosciuto ma non per questo da trascurare.

Ai tributi risuonati all’orecchio degli spettatori che hanno affollato i teatri si è unito, tra i differenti volumi realizzati o ristampati per l’occasione, Cucina all’Opera. Musica e cibo in Emilia-Romagna, che Giancarlo Fre ha portato a termine qualche giorno prima di lasciarci. Come recita la nota biografica che apre il suo libro, Fre è stato “architetto, gastronomo non proprio dilettante e grande curioso”: probabilmente la condizione ideale per realizzare un matrimonio – quello tra l’opera e la cucina – tutt’altro che scontato. Le due, infatti, hanno apparentemente ben poco in comune. Sul palcoscenico dell’opera seria tendenzialmente si mangia poco e, se si beve, spesso si beve male: veleni e pericolose ubriachezze sono all’ordine del giorno. In compenso, tempo addietro era il pubblico che mangiava e beveva in sala, nei palchi, ma questa è un’altra storia. 1

Cucina all’Opera unisce opera e cibo in maniera semplice e “naturale”, come ogni lettore del “Gastronomo Educato” poteva attendersi. 2 A questi due protagonisti principali ne affianca un terzo, che serve per delimitare il campo d’azione e compare nel sottotitolo. Si tratta della regione dell’autore, l’Emilia-Romagna. In realtà il riferimento spaziale, la “casa”, per Giancarlo Fre è un’area più vasta rispetto ai confini amministrativi. La si potrebbe definire piuttosto una sorta di “regione del cuore”, segnata da limiti più fluidi, determinati dalla storia e dalla cultura, gradualmente e senza fretta, dal Medioevo a oggi. È l’autore stesso a raccontarlo, nel post più recente del Gastronomo Educato, che risale al 21 gennaio 2013:


“Tornare a casa significa, per il Gastronomo Educato, fare ritorno a quella vasta area situata fra ‘la via Emilia e il West’, i cui confini vagano tra acque fluviali, sentieri di montagna, boschi e bagnasciuga, e che può comprendere il Ducato di Parma e Piacenza, quello estense di Modena e Reggio, le province settentrionali dello Stato Pontificio, o meridionali della Repubblica Cisalpina, spicchi del Genovese e fettine del Granducato di Toscana, nonché enclavi nelle province piemontesi. Questo luogo del cuore produce insigni musicisti, poeti, navigatori (pochi), costruttori, contadini e allevatori, pastori e architetti, casari e pastai, fiori frutti e ortaggi, grani e risi e vino, senza dimenticare i nostri fratelli ovini, bovini e suini, e i loro variegati sodàli, gli animali da cortile (chi si sentisse escluso può chiedere una rettifica, ma educatamente).

La massaia avveduta trae da parte di questi elementi il sostentamento alimentare della famigliola, e ciò grazie alla sua sapiente capacità di elaborazione delle materie messe a disposizione da mamma Natura in collaborazione con genti attente alle stagioni e ai ritmi della terra, esperte della trasformazione e della conservazione dei prodotti, nonché non ignare delle leggi del Mercato. Si obbedisce così al dettato artusiano che proclama il primato de: La Scienza in Cucina e l’Arte di Mangiar Bene”. 3


Il passo del Gastronomo Educato introduce il quarto protagonista di Cucina all’Opera: Pellegrino Artusi. Non è annunciato sulla copertina, ma è sufficiente sfogliare anche solo rapidamente il volume per trovarlo evocato a più riprese. Si tratta di quell’Artusi nato anch’egli fra la via Emilia e il West, quell’Artusi che ha inteso la sua cucina come arte, l’ arte di mangiar bene, e che, per riscattarla e darle un posto d’onore, non esitava a citare una lettera un po’ provocatoria che Olindo Guerrini scriveva sotto lo pseudonimo di Lorenzo Stecchetti:


“Il genere umano dura solo perché l’uomo ha l’istinto della conservazione e quello della riproduzione e sente vivissimo il bisogno di sodisfarvi. Alla sodisfazione di un bisogno va sempre unito un piacere e il piacere della conservazione si ha nel senso del gusto e quello della riproduzione nel senso del tatto. Se l’uomo non appetisse il cibo o non provasse stimoli sessuali, il genere umano finirebbe subito.

Il gusto e il tatto sono quindi i sensi più necessari, anzi indispensabili alla vita dell’individuo e della specie. Gli altri aiutano soltanto e si può vivere ciechi e sordi, ma non senza l’attività funzionale degli organi del gusto.

Come è dunque che, nella scala dei sensi, i due più necessari alla vita e alla sua trasmissione sono reputati più vili? Perché quel che sodisfa gli altri sensi, pittura, musica, ecc. si dice arte, si ritiene cosa nobile e ignobile invece quel che sodisfa il gusto? Perché chi gode vedendo un bel quadro o sentendo una bella sinfonia è reputato superiore a chi gode mangiando una eccellente vivanda?”. 4


Si tratta, tra l’altro, dell’unica occorrenza della musica all’interno dell’opera artusiana. Decisamente cucina e musica devono aver avuto qualche difficoltà a incontrarsi, nonostante entrambe concorrano, con modalità differenti, a nutrire l’essere umano. Cucina all’Opera porta sulla scena quell’incontro, è lì che si apre il sipario della copertina. E, lungo il corso di tutto il testo, opera, musicisti e ghiotte ricette si alternano, camminano insieme come se la cosa fosse naturale, come se quell’armonia fosse normale e la si trovasse attestata a ogni piè sospinto. A mia conoscenza, è vero il contrario.

I musicisti coinvolti sono un buon numero, persino qualcuno in più rispetto a quelli emiliano-romagnoli per nascita o per “adozione”, che pure rappresentano già di per sé una squadra piuttosto nutrita. Sono loro gli ulteriori protagonisti. Innanzitutto Gioachino Rossini, definito “marchigiano di nascita, romagnolo per famiglia ed educazione, bolognese per studi e dimora, poi parigino per amore o per forza”. 5 Insomma, una specie di onnivoro di luoghi e di piatti, che alla cucina ha dedicato tempo e passione. E la cucina l’ha ripagato: “Già Carême aveva composto per Rossini la Torta Guglielmo Tell e il Pâté di selvaggina ‘Rossini’. È ora il momento per Escoffier, allievo ed erede di Câreme, di mettersi all’opera. In sessant’anni di carriera ha raccolto e pubblicato più di 2500 ricette tratte dai suoi menù. Tra queste, nel suo Ma cuisine dieci sono intitolate a Rossini e tre alla sua opera La Cenerentola”. 6

I grandi della gastronomia “compongono” e “si mettono all’opera”: la loro arte, nell’osmosi tra musica e cucina realizzata da Giancarlo Fre, produce un cibo che è musica per palati fini.

Gioachino Rossini, nelle sue opere buffe, non si pone problemi di sorta e mette in scena cibo e banchetti. I due più famosi sono probabilmente quello di Cenerentola e quello dell’ Italiana in Algeri. Il primo dei due rappresenta il culmine della festa che dovrà permettere al principe di scegliere una sposa degna di lui. Il suo cameriere Dandini, travestito da principe, esorta gli invitati ad accomodarsi: “Andiamo andiamo a tavola”, eccetera; poi, tra sé o rivolto al solo pubblico, senza farsi scoprire dagli altri personaggi, aggiunge: “Oggi che fo da principe, per quattro vo mangiar!”, approfittando così della ghiotta situazione da “principe per un giorno” per permettersi un trionfo culinario impensabile per la classe sociale alla quale appartiene. Il sipario si chiuderà peraltro, alla fine del primo atto, prima che il banchetto venga consumato. La scena finale dell’ Italiana in Algeri, quella del “Pappataci”, è forse ancora più conosciuta. L’iniziazione del bey Mustafà a una sorta di “italianità” prevede la prova del “mangia e taci”, in cui l’iniziato deve riuscire a mangiare serafico e incurante delle situazioni che nel frattempo si creano. Cosa si debba servire alla sua tavola il testo non dice, ma la pastasciutta – stante l’italianità della scena – la fa normalmente da padrona nella maggior parte delle regie.

Non si trova invece niente di buono da mettere sotto i denti nelle opere di Giuseppe Verdi, emiliano purosangue delle Roncole di Busseto, fatta eccezione per un po’ di cibo, peraltro già consumato da Falstaff e dai suoi servi, all’Osteria della Giarrettiera: sei polli, tre tacchini, due fagiani, un’acciuga, tutti ancora da pagare. Ci sarebbe anche la poco invitante “zuppa delle streghe” nel Macbeth: lingue di vipera, peli di nottola, sangue di scimmia, “dito d’un pargolo strozzato nel nascere”, “labbro d’un Tartaro”, “cuor d’un eretico”, solo per citare una selezione degli ingredienti. Per il resto, lo si scriveva all’inizio, cibo e opera seria non si accompagnano volentieri, dunque non ci meravigliamo di quest’assenza. Peraltro Verdi era decisamente un buongustaio e al cibo si dedicava fuori dal teatro, come scopriamo in Cucina all’Opera. Troviamo così nel suo epistolario prodotti e ricette, spalle di San Secondo inviate in dono e un risotto destinato a essere consacrato, culinariamente parlando, come risotto alla Verdi. Tra l’altro in un momento storico – fa giustamente notare Giancarlo Fre – in cui il risotto non aveva gran diffusione a livello nazionale, soprattutto sulle tavole dei ceti abbienti. 7

A Giuseppe Verdi segue Pietro Mascagni, che con l’Emilia-Romagna non ha un rapporto diretto ma per così dire adottivo, dato il suo legame di una vita con Anna Lolli, da Bagnara di Romagna. Livornese lui, li univa e li separava “una lunga tagliatella, con condimenti diversi di qua e di là dell’Appennino”, secondo un’espressione cara a Giancarlo Fre e coniata da Alberto Capatti per indicare il confine tra Romagna e Toscana. Le pappardelle all’Aretina, con ragù d’anatra, trovano la loro risposta romagnola in quelle al prosciutto, sulla scorta dell’onnipresente Artusi (che, peraltro, quella “tagliatella” l’aveva valicata più volte). 8 E così via, di ricetta in ricetta. La regione del Gastronomo Educato è davvero molto più estesa rispetto ai confini emiliano-romagnoli, o forse semplicemente non disdegna di valicarli perché la catena di ricette e musica, in fondo, i confini non li conosce.

L’ultimo artista della prima sezione di Cucina all’Opera, la più copiosa, intitolata “Le ricette del melodramma”, non è un compositore ma colui che ha dato voce a molti compositori: si tratta di Arturo Toscanini da Parma. Tra i suoi successi internazionali, che l’hanno portato a esibirsi nei teatri di mezzo mondo, s’incuneano parecchie ricette parmensi: dagli anolini ai tortelli di erbette, dallo stracotto alla spongata.

Si fa invece un gran balzo all’indietro nel panorama musicale con la seconda parte di Cucina all’Opera: a trionfare è il Sei-Settecento musicale, rappresentato da due nomi. Quello del ferrarese Girolamo Frescobaldi, che permette di portare alla ribalta il pasticcio di maccheroni all’uso di Ferrara, i cappellacci di zucca e la salama da sugo, oltre a molto altro. E quello di Arcangelo Corelli da Fusignano, il cui territorio, messo a coltura dal II secolo avanti Cristo, fornisce l’occasione per una divagazione nell’ Eneide e nella profezia delle mense mangiate per troppa fame. Da lì all’immancabile piadina romagnola – “insieme desco, piatto e vivanda, compagna di mangiari sull’erba sotto frondosi alberi, pane e companatico, mensa sublime, aperitivo e chiuditivo, ‘l’azimo antico degli eroi, il pane della povertà, dell’umiltà e della libertà... che s’accompagna all’erbe agresti’ di pascoliana memoria” 9 – il passo è breve.

La terza sezione di Cucina all’Opera mette in scena quattro grandi della musica “di passaggio in Emilia-Romagna”: Mozart, Bellini (accompagnato da un’inevitabile pasta alla Norma), Wagner e Puccini. Tra l’altro, Giancarlo Fre approfitta della menzione della cittadinanza bolognese onoraria che fu conferita a Wagner nel 1872 per ricordare la passione per l’opera che caratterizza quel popolo. 10

La quarta e ultima sezione accoglie alcuni grandi interpreti, del calibro di Luciano Pavarotti, che ad alcune ricette modenesi accompagna il menu delle sue nozze con Nicoletta Mantovani, e di Maria Callas, che porta con sé alcune ricette greche e, insieme, l’amore per la Grecia di Giancarlo Fre, testimoniato anche da uno splendido acquerello che nel volume è stato riprodotto. 11

L’ultimo capitolo, “Cinque ricette per cinque signore”, si apre così: “Abbiamo parlato in queste pagine di musicisti, compositori, direttori d’orchestra e grandi interpreti. Con l’eccezione di Maria Callas, si tratta solo di uomini. Abbiamo accennato ad alcune donne, in genere legate al mondo della musica, ma soprattutto a questo o a quel musicista e compositore. È giunto il momento di dedicare a queste signore spazio e soprattutto ricette”. 12 Sfilano così, in chiusura di sipario, le due mogli di Rossini, poi Maria Malibran, Giuseppina Strepponi e Anna Lolli. Sono cantanti e sono muse.

In realtà parecchie muse, canore e non, si aggirano lungo Cucina all’Opera, affiancando e integrando le Ninfe Egerie artusiane, che fanno capolino qua e là, suggeritrici e ispiratrici delle sue ricette. È lo stesso Giancarlo Fre a definirle così, con una delicatezza nei confronti del gentil sesso che al Gastronomo Educato non poteva mancare. 13

La delicatezza contraddistingue tutte le pagine, nessuna esclusa, di Cucina all’Opera. Insieme alla leggerezza, è probabilmente questo il segreto che permette di passare dall’opera alla cucina e dalla cucina all’opera, in un susseguirsi continuo di andate e ritorni che rende abbastanza complicato, oltre che tutto sommato inutile, stabilire quale delle due sia il punto di partenza. I tragitti ne evocano altri e tutti insieme fanno da anelli di una piacevole catena musicale-culinaria, che si dipana leggera, e lungo la quale vale la pena di lasciarsi condurre.


Note

( 1) Per approfondimenti si rimanda, da ultimo, all’articolo di Marco Beghelli dal titolo Mangiare all’opera, in Le arti e il cibo. Modalità ed esempi di un rapporto, a cura di F. Lollini, Bologna, BUP, in corso di stampa.

( 2) Il Gastronomo Educato è stato uno degli pseudonimi utilizzati da Giancarlo Fre e coincide con il nome del suo blog, tuttora consultabile: gastronomoeducato.blogspot.it.

( 3) gastronomoeducato.blogspot.it/2013/01/ritorno-casa.html; il riferimento spaziale all’area fra “la via Emilia e il West” rimanda a un verso di Piccola città di Francesco Guccini e costituisce il titolo di un celebre album dal vivo dello stesso cantautore.

( 4) La citazione appare per la prima volta nell’edizione del 1899. Si veda il volume: P. Artusi, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene. Edizione progressiva, a cura di A. Capatti, Bologna, Editrice Compositori, 2012.

( 5) G. Fre, Cucina all’Opera. Musica e cibo in Emilia-Romagna, Bologna, Centro Stampa Regione Emilia-Romagna, 2013, p. 11.

( 6) Ibidem, p. 23.

( 7) Ibidem, pp. 32-36.

( 8) Ibidem, pp. 37-39.

( 9) Ibidem, p. 74.

( 10) Ibidem, pp. 87-88.

( 11) Ibidem, p. 106. Il volume è impreziosito da un corredo di fotografie e immagini e da un’elaborazione grafica davvero notevoli.

( 12) Ibidem, p. 111.

( 13) Ibidem, p. 8. Nell’elenco delle Ninfe Egerie vi sono due nomi che accomunano Pellegrino Artusi e Giancarlo Fre: si tratta di Margherita e Maddalena, entrambe “titolari”, nella Scienza in cucina, di ricette di pasta preesistenti, accolte da Artusi con entusiasmo e destinate a grande fortuna.



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