Rivista "IBC" XXI, 2013, 2

territorio e beni architettonici-ambientali / convegni e seminari, interventi, progetti e realizzazioni

In tempo di crisi, le strategie architettoniche propongono sempre più spesso di riutilizzare gli spazi esistenti e gli scarti urbani.
Riciclare la città

Renato Bocchi
[docente di Composizione architettonica e urbana all'Università IUAV di Venezia]
Fabrizia Ippolito
[ricercatrice al Dipartimento di architettura e disegno industriale della Seconda Università di Napoli]

Presentiamo i testi degli interventi dei due autori al convegno "Disegnare la città del futuro. Tra riuso dell'esistente e nuovi modelli urbanistici", organizzato dall'Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna (IBC) il 22 marzo 2013 all'interno del "Salone del restauro" di Ferrara. Il convegno rientra nell'iniziative realizzate dall'IBC nell'ambito di "Re-Cycle Italy. Nuovi cicli di vita per architetture e infrastrutture della città e del paesaggio", un programma di ricerca scientifica di rilevante interesse nazionale (PRIN) a cui partecipano anche diverse università italiane.


Le brevi note che seguono introducono alcuni punti-chiave della ricerca PRIN avviata da poco più di un mese, dal titolo "Re-cycle Italy", ricerca di cui sono coordinatore e che vede coinvolte ben 11 facoltà di architettura di università italiane, con oltre 100 ricercatori. Essa prende spunto direttamente dalla rassegna proposta nella mostra "Re-cycle" al MAXXI, il Museo nazionale delle arti del XXI secolo di Roma, nel 2012, a cura di Pippo Ciorra (anch'egli parte integrante del nostro gruppo di ricerca).

L'adozione del termine "riciclo" nell'intervento sull'esistente - rispetto a termini come recupero, riqualificazione o riuso - sposta di fatto il centro dell'attenzione dal predominio dei valori dell'esistente (assunto invece come materia in qualche modo inerte, che ha concluso o sta per concludere il suo ciclo di vita) ai valori di nuovi principi progettuali capaci di manipolare l'esistente per istituire nuovi cicli di vita: un processo, quindi, in cui l'esistente è assunto di fatto come materiale utile per un progetto completamente rinnovato: per questo preferisco parlare di principi rifondativi.

In tal senso il nostro ragionamento è certamente più vicino alla tradizione della pratica del progetto di architettura dentro l'esistente di maestri dell'architettura italiana come Carlo Scarpa o di architetti contemporanei che si innestano su questa stessa linea (in Emilia penso per esempio a Guido Canali) o per altro verso a esperienze della cosiddetta "architettura parassita", come l'ha definita Sara Marini nel suo fortunato studio pubblicato da Quodlibet. E nell'ambito del progetto urbano è più vicino a progetti di re-invenzione, piuttosto che alla tradizione di intervento del recupero di ripristino, completamento o ampliamento in continuità con i tessuti esistenti su cui proprio l'Emilia-Romagna è stata in Italia a lungo il punto di riferimento principale.


Il riciclo dei materiali in architettura

Un primo capitolo della nostra ricerca riguarda quindi tutte quelle esperienze che utilizzano gli scarti, le macerie, o i materiali riciclabili come materia stessa per la costruzione di nuovi prodotti architettonici, tendendo a eliminare o ridurre al minimo lo spreco delle risorse. Esperienze che attivano procedure di assemblaggio o montaggio, le quali prevedono lo spostamento e la ricomposizione di materia per definire nuove configurazioni, sia attraverso la rottamazione e la nuova ricomposizione, sia attraverso la rigenerazione completa di oggetti e spazi senza una previa distruzione.

Esperienze di frontiera in questo campo si sono ormai largamente imposte all'attenzione dell'opinione pubblica. Per fare degli esempi, si possono citare in rapida sequenza: il geniale lavoro fondato prevalentemente sull'uso di materiali di riciclo inusuali nel campo della costruzione edilizia (soprattutto il cartone) di un architetto come il giapponese Shigeru Ban, ben noto al pubblico emiliano; oppure alcuni lavori di Peter Zumthor, fondati su materiali di recupero industriale quali i pallet; forse un po' meno nota in Italia l'eccezionale esperienza didattica e sociale, a sfondo etico, del gruppo di architetti e docenti dell'Alabama denominato "Rural Studio", fondata sui principi dell'autocostruzione attraverso materiali di riciclo; o la produzione di Alejandro Aravena, del quale è interessante qui ricordare il caso della casa Combeau, costruita con le pietre e con il legno ricavati dal disboscamento e dallo scavo del sito medesimo su cui è sorta; o, ancora più esplicito, l'esperimento del giovane gruppo olandese "2012 Architecten", autori di una casa costruita interamente con materiali di recupero quali profilati di acciaio provenienti da una vicina fabbrica tessile o assi di legno provenienti dallo smontaggio di grandi bobine di avvolgimento dei cavi.

In tutti questi casi, l'esperienza dell'architettura si fonda su un approccio etico dichiarato (attenzione al sociale, alla produzione low cost, all'autocostruzione) e su un uso programmatico di materiali riciclati (dai container portuali a materiali di scarto delle lavorazioni industriali).

Un'esperienza singolare e molto interessante è quella di Maria Giuseppina Grasso Cannizzo: mi riferisco soprattutto alla sua casa Parisi-Sortino, analizzata da Sara Marini nella mostra "Re-cycle" del Maxxi. "L'operazione" - spiega l'autrice - "viene verificata sul modello dell'edificio: è la simulazione di un processo di riduzione attraverso la demolizione progressiva della forma pre-esistente. Dalla simulazione del processo viene suggerita la soluzione: tutti i ritagli, casualmente accumulati su un lato, vengono spostati sotto il fronte principale. Con i cumuli di macerie si guadagna la continuità di quota tra il primo piano e l'esterno: sulle macerie si impianta il nuovo giardino. L'inserimento del programma funzionale determina il posizionamento e le dimensioni delle nuove bucature, la definizione del piano quotato del giardino, il posizionamento dei muri di contenimento delle macerie".1


Il riciclo nei tessuti urbani

Ma il riciclo a cui pensiamo è anche e soprattutto un riciclo degli spazi e dei tessuti urbani, attraverso un'opera di infiltrazione nel costruito che possa essere rigeneratrice, nel senso di mettere a frutto le energie incorporate negli stessi processi di costruzione delle città, e delle periferie urbane in particolare, o addirittura della cosiddetta città diffusa. Si tratta, in questo caso, di una procedura capace di attivare più cicli di vita contemporanei e di sfruttare così le energie incorporate nell'esistente e di esaltarne il metabolismo in un maggiore equilibrio fra ambiente e sviluppo sociale.

Con l'ovvia differenza di valore che si lega a un'esperienza a sfondo didattico, mi permetto qui di mostrare, a esemplificazione metodologica, alcune prime sperimentazioni in tema di riciclo urbano avviate di recente nei nostri laboratori IUAV e applicate ad aree produttive parzialmente dismesse.

Sia nel caso dell'area in dismissione della grande fabbrica Mira Lanza a Mira, con un gruppo di laureandi, sia nel caso dell'area della latteria sociale di Soligo, nei colli trevigiani, proposta come tema del nostro Laboratorio integrato di progettazione del paesaggio, abbiamo voluto sperimentare differenti principi di reinsediamento per la trasformazione e il nuovo utilizzo delle fabbriche oggi in disuso, riconsiderando i caratteri geografici e urbani dei siti.

Il progetto di riciclo riposa in entrambi i casi sull'innesco di principi insediativi completamente nuovi, che siano in grado però di reintegrare, manipolandoli, i resti fisici, o in alcuni casi le semplici tracce di impianto del sedime edilizio, delle fabbriche preesistenti.

Il progetto non parte tuttavia dal concetto primario di recupero/riuso dell'esistente, ma da un generale ripensamento dei principi insediativi stessi, che si fonda su una rinnovata volontà di integrazione con i caratteri salienti del paesaggio, assunti quali elementi primari (originari) dell'identità del luogo, sia in senso fisico sia in senso percettivo: i fiumi adiacenti, la tessitura dei superstiti appezzamenti agricoli, nel caso di Soligo la linea delle colline sullo sfondo, nel caso di Mira il rapporto con le geometrie dei tracciati infrastrutturali (canali e strade) e l'integrazione con le maglie e i tessuti del centro abitato.

Nel caso di Mira si è dato luogo a un esercizio astratto di valore metodologico che ha indagato le capacità di reazione della forma dei luoghi e delle singole preesistenze edilizie in seguito all'introduzione di differenti principi di riorganizzazione dell'intera area.

I modelli insediativi "testati" vanno dalla rinaturalizzazione dell'area alla densificazione del costruito, passando per l'applicazione di regole ordinatrici a telaio, o di volumi neutri e virtuali, o di piastre a più livelli: i modelli di riferimento sono stati desunti dal lavoro di grandi architetti contemporanei (da Eisenman a Ito e Sejima a Koolhaas) o di paesaggisti come Soerensen o Martha Schwartz.

Si è cercato di verificare soprattutto come reagivano all'imposizione del modello astratto alcuni aspetti ritenuti salienti del luogo: innanzitutto la ricomposizione o riconfigurazione del fronte e dello skyline lungo la Riviera del Brenta, l'affogamento o meno dei grandi volumi recuperati della fabbrica in un tessuto connettivo più unitario e denso, l'eventuale formazione di landmark a scala territoriale, la riformulazione di spazi pubblici o semipubblici aggreganti il nuovo tessuto, la possibile azione di ri-naturalizzazione (vegetale) di almeno parte dell'area, eccetera.

Allo stesso modo, nel caso di Soligo, gli studenti sono stati invitati a sondare ipotesi trasformative anche molto diverse fra loro, da un massimo di ri-naturalizzazione (assumendo il paesaggio vegetale come conduttore del gioco) a un massimo di estensione e densificazione delle maglie geometriche astratte con cui si è impiantata la zona industriale più recente, passando per livelli intermedi di ibridazione dei due modelli-limite, che considerassero un parziale riutilizzo delle strutture edilizie esistenti insieme a un più intenso rapporto con gli elementi geografici (il fiume in particolare).

I progetti più interessanti sono risultati quelli che intervengono con un sistema di aggiunte puntuali, "parassite", di contaminazione e rigenerazione dell'esistente o quelli che assumono l'esistente non tanto in quanto volume costruito quanto come sistema modulare di setti murari e pilastri su cui impiantare un organismo totalmente rinnovato.


Il riciclo nel paesaggio

Ma il tema del riciclo può applicarsi, in forme più generali e "strategiche", anche a temi di rigenerazione a larga scala della città e del paesaggio, e persino delle infrastrutture territoriali, avvicinandosi alla procedura che esalta la ciclicità del passaggio da un ciclo all'altro, eliminando al massimo lo scarto, fondandosi soprattutto sulle risorse ambientali persistenti e sulla loro rimessa in uso "sociale".

Prendo a esempio un caso su cui ho avuto modo di operare in prima persona una decina di anni fa nell'ambito di una consulenza urbanistica per il Comune di Trento.2 Si trattava di ripensare l'intera fascia urbana in via di progressiva dismissione lungo l'asta del fiume Adige, con la previsione di una serie di interventi a carattere collettivo che dovevano interessare le aree industriali e militari in via di dismissione.

L'ipotesi principale su cui si è lavorato prevedeva di riciclare o meglio ripensare, nel ruolo di protagonista, il fiume stesso, da lungo tempo emarginato ed escluso dai destini della città, e a partire da questo rifondare la nuova fascia urbana non più sulla base di principi insediativi da città compatta e densa ma piuttosto come città-paesaggio, ossia con un insediamento multipolare che trovasse però una forte coesione attraverso il tessuto connettivo dei caratteri paesaggistici, ricomposti in forma di segmentato lungo parco fluviale.

All'interno di tale operazione, che implicava anche un chiaro ripensamento della rete infrastrutturale di sostegno, poteva allora avviarsi l'opera di autentica ricostruzione urbana, che è in parte effettivamente avvenuta con la trasformazione dell'area ex-Michelin da parte di Renzo Piano e la costruzione del nuovo MUSE, con il progetto della nuova Biblioteca Universitaria di Mario Botta a conclusione dell'asse storico del duomo, con la trasformazione in corso delle aree militari a favore del nuovo Ospedale provinciale, con la futura opera di riciclo prevista per l'ex Italcementi in riva destra, fino al sorprendente riuscito riciclo delle gallerie dell'ex strada tangenziale per usi espositivi, su progetto di Elisabetta Terragni.

In tutti questi casi, alle varie scale, il principio del riciclo ha il valore di introdurre nell'opera di trasformazione edilizia, urbana e paesaggistica un autentico processo di rigenerazione, proponendo un ripensamento e una riconfigurazione radicale - sia pure in termini di processi graduali e progressivi - delle forme insediative e dei loro modi d'uso, tenendo conto delle necessità di questi nostri tempi di crisi.

[Renato Bocchi]



In un momento nel quale i nostri territori si riscoprono consumati da anni di espansione, in un paesaggio nel quale la crisi rivela spazi di dismissione e ritrazione, in un tempo nel quale urgenze ambientali economiche e sociali spingono a fare tesoro di tutte le risorse, il confronto con l'esistente assume caratteri di intensità e di necessità, e il riciclo entra nel dibattito sull'architettura e la città. Piuttosto che chiederci cosa fare di nuovo, chiediamoci cosa fare con quello che ci ritroviamo. Se da una parte l'arte, dall'altra le teorie sul quotidiano, da tempo guardano a questo tema, interpretando l'uso come pratica creativa, il dibattito attuale sull'architettura si rivolge alla manipolazione dell'esistente muovendosi tra il riconoscimento di necessità e la ricerca di possibilità espressive, tra il riuso e il riciclo, tra le tattiche e le strategie, in un confronto serrato con un paesaggio i cui residui riemergono da un'epoca di rimozioni: scarti edilizi e urbani sono i materiali di una riflessione progettuale che, diffusa in ambito internazionale, può trovare in Italia una sua specificità e in alcuni suoi territori alcune attitudini latenti.

Tre atlanti - un atlante di progetti, un atlante di cifre, un atlante di fenomeni - possono essere il punto di partenza per una riflessione su dispositivi, materiali e attitudini relativi al riciclo di architetture, città e paesaggi.


Re-cycle. Progetti di riciclo

Nel 2011 il MAXXI di Roma mette in mostra progetti di riciclo. L'esposizione passa in rassegna progetti di architettura, di città e di paesaggio che lavorano sull'esistente attraverso interventi di adattamento, sovvertimento, reinvenzione, in un'interpretazione di riciclo che riguarda le molte dimensioni e accezioni del progetto. Dall'architettura alla città al pianeta, un'ottica orientata al riciclo rimette in gioco i materiali della realtà e gli strumenti di intervento.3

In una collezione di esempi, che dalla mostra del MAXXI può espandersi in un archivio aperto, che attraversa altre mostre e altri progetti, e intercetta riflessioni sullo scarto e il riciclo di altre discipline,4 si possono rintracciare alcuni dispositivi ricorrenti, alcuni materiali e alcuni temi.

Tra i dispositivi la riparazione, il parassitismo, la trasposizione, l'opera aperta, la bassa definizione, che esprimono un atteggiamento adattativo, approfittando di circostanze e occasioni, assorbendo errori e imperfezioni; che usano il tempo come materiale del progetto, intervenendo per progressione, incarnando ritmi e cicli temporali nello spazio; che intrecciano le scale agendo puntualmente e diffondendosi per propagazione, ripetizione, moltiplicazione; che approfittano della sospensione, progettando l'incompiuto, intervenendo nei vuoti, creando interruzioni. Tra i materiali, ruderi e rovine; edifici porosi o abbandonati, in ampliamento, in trasformazione; suoli in attesa di costruzione, in abbandono, contaminati; edifici tecnici, strutture produttive e infrastrutture in disuso o in obsolescenza; città metropolitane e suburbane in ritrazione; centri storici svuotati. Tra i temi, che hanno a che fare con la città e il paesaggio, le questioni del consumo del suolo, del rischio, della marginalizzazione, della crisi.

Attraverso questi dispositivi, materiali e temi, alcuni autori, ma anche alcune opere e alcuni luoghi, diventano emblemi del riciclo (Lacaton e Vassal, con il Palais de Tokyo e la Tour Bois le Prêtre; James Corner Field Operation, con l'High Line, condivisa con Diller e Scofidio e Renfro, e la discarica di Fresh Kills a New York; Detroit e Monaco, con i progetti sulla ritrazione, "Cloudspotting Detroit", e sull'agricoltura temporanea, "Agropolis Munchen"). E, al di là di emblemi, il riciclo assurge a paradigma dell'architettura.5

Se la manipolazione dell'esistente è da sempre una pratica connaturata alla vita delle città e degli edifici - esemplificata da Spalato o da Lucca nella storia urbana, in questi anni elevata da lingua parlata a grammatica, assunta nel dibattito disciplinare sull'architettura sulla città e sul paesaggio - radicata nell'attualità dei territori e orientata a una visione attuale, essa assume un nuovo rilievo. In un momento in cui i paesaggi si risvegliano da decenni di torpore alterati, consumati, saccheggiati, cosparsi da manufatti senza più ragioni, lo sguardo sull'esistente acquista una nuova utilità e un senso nuovo.

Caduta la fiducia nello sviluppo e nel progresso del Moderno, archiviato il Novecento, ma archiviato anche il lassismo con cui sui territori è stato interpretato il Postmoderno, un atteggiamento laico verso quello che rimane (di infrastrutture e megastrutture, come di frammenti di urbanizzazione dispersa) conduce a ripensare gli strumenti del progetto. Prima che il paradigma del riciclo si cristallizzi in nuovo salvifico modello, la sua apparizione può indurre cambiamenti: tra città e architettura, tra etica ed estetica, tra domande dell'abitare e risposte del progetto, un nuovo modo di vedere le cose può aprire nuovi spazi di intervento.


Rumore di fondo. Paesaggi di riciclo

In occasione della Biennale di architettura di Venezia del 2010, nel Padiglione italiano, curato da Luca Molinari, una voce forniva un bollettino in numeri del territorio italiano. I numeri facevano da rumore di fondo a una rassegna sul presente dell'architettura italiana.6

Dalla grande quantità di cemento consumato (813 chilogrammi per abitante all'anno) e di materiale scavato (quasi 300 milioni di metri cubi all'anno), di cave attive (5725) e in dismissione (10000); alla grande quantità di case (27 milioni), di case abusive (il 10%), di case vuote (il 20%); alla carenza di case popolari (il 4,5%); alla crescente quantità di boschi (100000 ettari all'anno) e di potenziali deserti (il 30% del territorio); alle grandi quantità di territori (il 45%), di edifici (il 68% di quelli privati, il 75% di quelli pubblici, il 60% dei beni culturali) e di popolazioni (il 40%) a rischio sismico, e ad altro rischio; all'entità degli investimenti per opere pubbliche e grandi opere (più di 30 miliardi di euro all'anno) e, per contro, delle opere interrotte (almeno 300); ai numeri delle strutture dismesse (5 milioni di case; 2791 miniere; 9000 ettari di industrie; 150000 ettari di territorio contaminati; 1800000 ettari di campi agricoli in 10 anni; 804 edifici militari), dei paesi abbandonati (5.838), delle ferrovie in disuso (5800 chilometri), delle autostrade in concessione (più della metà), dei piccoli porti e aeroporti (800 porti, 122 aeroporti e 224 aviosuperfici), dei luoghi turistici (300 milioni di visitatori all'anno), dei beni culturali (47 siti UNESCO), della superficie protetta (il 19%), del territorio vincolato (il 50%), delle leggi, delle regole, delle deroghe e delle eccezioni; degli architetti (1 ogni 470 abitanti)...

Si può dire che alcune quantità stanno facendo la qualità dei paesaggi italiani. Quantità di soggetti, di interessi, di regole, di progetti, di politiche e di pratiche, compongono il ritratto di un paese in costruzione e in movimento, di un paesaggio frammentato e plurale, dove la moltitudine assume un rilievo speciale. Sono quantità variabili, che richiederebbero un bollettino quotidiano. Ma indicano alcune delle direzioni verso le quali si muovono i paesaggi italiani.

Vent'anni dopo i viaggi in Italia degli anni Ottanta e Novanta, quando c'era entusiasmo e ansia di descrizione di un nuovo paesaggio, libero dagli stereotipi del Bel Paese, guardare cosa ne è stato dei nostri territori non implica necessariamente il quadro di un disastro, ma sicuramente la presa di coscienza di condizioni cambiate, di aspettative disattese, di effetti collaterali o connaturati alle direzioni intraprese: un quadro dei residui materiali dell'urbanizzazione di questi anni, ma anche un quadro dei residui delle idee di città e di paesaggio che l'hanno determinata.

Se quello che scartiamo dice qualcosa su quello che scegliamo, gli scarti di questi anni di costruzione del territorio parlano di rincorse fallite alla modernizzazione, di discese a valle o sulle coste dell'urbano, di ambizioni di cubatura non commisurate agli usi, di un passaggio affrettato dall'industria al terziario, di un'avanzata dell'urbano sull'agricoltura, di una vittoria della mobilità individuale su quella collettiva, di una prevalenza delle grandi opere sulle opere pubbliche diffuse, di un predominio del privato sul pubblico, del consumo sulla conservazione, dell'espansione sulla riduzione, di una diffusa rimozione per il perturbante della città.

E se le condizioni sono cambiate, è cambiato anche lo sguardo che le osserva, sollevato dalla necessità di ribadire il suo rinnovamento, di contrapporre qualità a quantità, visione laterale a visione zenitale, fenomeni a materiali e forme della città. Così i numeri, svincolati da obblighi di obiettività, esaminati nelle loro relazioni e contraddizioni, possono essere elementi di un'indagine indiziaria, che restituisce dinamiche e qualità dei paesaggi, fuori da rimozioni, ma anche fuori da visioni univoche, il Bel Paese come il paese disastrato. Se alcuni fenomeni e alcuni materiali sono significativi per quantità, è nella quantità che risiede l'urgenza di una loro riconsiderazione e la potenziale efficacia di un intervento che li rimetta in gioco.


Tattiche. Laboratorio di riciclo

Una collezione di ricerche sul territorio napoletano propone le tattiche dell'abitare come punto di vista sulla città e Napoli come manifesto dell'adattamento e dell'eccezione. Se i modi di abitare intervengono nelle pieghe della città modificandola per cumulazione, a Napoli esprimono una particolare creatività e agiscono con particolare pervasività; mentre le pratiche quotidiane avanzano nei territori e negli studi urbani, Napoli può essere l'emblema di una città dove l'eccezione è la regola, l'adattamento è una consuetudine e le tattiche sono sovrane.7

La città delle tattiche è individualista, temporale, precaria, oscura, rimossa, esplosa, straordinaria, ordinaria - e spesso abusiva. Si può rintracciarla sul litorale flegreo, sul litorale domitio, nell'area vesuviana, nell'entroterra tra Napoli e Caserta, nella corona di periferie pubbliche, nella zona industriale e nelle porosità del centro, dove alcuni fenomeni fanno per quantità la sua qualità.

Nell'area vesuviana seicentomila persone abitano nella zona a rischio eruzione, rispondendo alla precarietà con l'ostinazione a stare sul territorio; nella periferia urbana i quartieri della ricostruzione post-terremoto dell'80 rappresentano il più grande intervento di edilizia pubblica d'Europa negli ultimi 50 anni, un intervento oggi trasformato dalla prova dell'abitare; nella terra tra Napoli e Caserta, oggetti, materiali e popolazioni di scarto ricadono su un territorio a sua volta scartato e la criminalità organizzata influisce sulle regole per la sua costruzione; tutto intorno, sui litorali e nell'entroterra, una moltitudine di interventi individuali agisce sui paesaggi agricoli e costieri, sui siti archeologici e naturali, modificando la città.

Le tattiche dell'abitare cercano la via più facile, utilizzano i materiali esistenti, scendono a compromessi con il territorio, applicano tecniche note, rielaborano tradizioni e suggestioni, approfittano delle occasioni, procedono per imitazione, per reinterpretazione, per contaminazione, raggiungendo a volte risultati innovativi mentre lavorano per risolvere emergenze, per acquisire vantaggi, o per assecondare necessità. Intervenendo sull'esistente, procedono per adattamenti e correzioni, interpretando la riparazione come dotazione di un nuovo senso e di nuove prestazioni, e la città (dove le cose cominciano a funzionare quando sono rotte)8 come un laboratorio permanente di riciclo.

Lavorare sul riciclo vuol dire confrontarsi con le situazioni specifiche, evitare le generalizzazioni per entrare nella realtà dei territori, nelle loro forme, nelle loro vicende e nei loro materiali; significa adottare una visione piuttosto che un modello o un protocollo d'azione. Non si tratta di opporre il localismo alla globalizzazione, ma di intercettare gli effetti diversi della globalizzazione nei diversi luoghi; non cristallizzare l'identità di una città, ma assumerne la specialità.

E Napoli è speciale per l'evidenza e l'intensità che qui assumono i fenomeni, le urgenze e le emergenze, per la pregnanza con cui i comportamenti intervengono a conformarla. Inchiodata a questa specialità, può rimanerne prigioniera, restando ai margini dei discorsi sulla contemporaneità; considerata come un laboratorio, può essere un luogo dove sperimentare modi di fare e rifare la città. Napoli, con le sue contraddizioni e i suoi conflitti, non offre consolazioni, come non offre consolazioni il riciclo, se, piuttosto che come ricetta, viene interpretato come chiave di ingresso nelle pieghe della città.

[Fabrizia Ippolito]


Note

(1Maria Giuseppina Grasso Cannizzo, a cura di C. Rizzica, Melfi, Libria, 2006.

(2) Si veda: R. Bocchi, Il paesaggio come palinsesto, Rovereto, Nicolodi, 2006.

(3Re-cycle. Strategie per l'architettura, la città e il pianeta, a cura di P. Ciorra e S. Marini, Milano, Electa, 2011.

(4) Tra le mostre si segnala la Biennale di Venezia del 2012, con i padiglioni tedesco, giapponese e americano; tra le riflessioni su riuso e riciclo: N. Bourriaud, Postproduction. Come l'arte riprogramma il mondo, Milano, Postmedia book, 2004 (edizione originale 2001); W. Mc Donough, M. Braungart, Cradle to Cradle. Remaking the Way We Make Things, San Francisco, North Point Press, 2002.

(5) Si veda: M. Ricci, Nuovi paradigmi, Trento, LISt Lab,, 2012.

(6) Si veda: F. Ippolito, Rumore di fondo, in Ailati. Riflessi dal futuro, a cura di L. Molinari, Milano, Skira, 2010. "Rumore di fondo": cura F. Ippolito; responsabili di ricerca: M. Cerreta, C. Piscopo, V. Santangelo; gruppo di ricerca: D. Cannatella, M. C. Fanelli, R. Giannoccaro, S. Sposito; consulenti: F. Lancio, E. Micelli, F. Zanfi; ricerca in corso di aggiornamento.

(7) F. Ippolito, Tattiche, Genova, Il nuovo melangolo, 2012.

(8) A. Sohn-Rethel, in Adorno, Benjamin, Bloch, Krakauer, Sohn-Rethel. Napoli, a cura di E. Donnaggio, Napoli, L'ancora del Mediterraneo, 2000.

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