Rivista "IBC" XIX, 2011, 4

musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali / progetti e realizzazioni

Un parco del gesso nel Reggiano e un museo del petrolio nel Parmense: due progetti recuperano i resti materiali delle antiche industrie e le tracce immateriali delle memorie collegate.
Dentro le cave, dietro le trivelle

Monica Bruzzone
[architetto, docente di Caratteri tipologici e morfologici dell'architettura all'Università di Parma]

Le officine, i carri-ponte, le ciminiere e le gru, i silos, i gasometri, sono figure indimenticabili dell'immaginario collettivo. Sono le tracce di una cultura passata, dove l'industria entrava senza pudori nelle città e nei paesaggi per diventare parte integrante del tessuto sociale.

Sono molti i segni ancora evidenti di un sistema produttivo che tra XIX e XX secolo ha cambiato in modo irreversibile il mondo e nell'ultimo quarantennio si è compiuto, lasciando indelebili tracce materiali e culturali. Lo aveva acutamente delineato Charles Jencks quando, alla fine degli anni Ottanta, ribadiva l'inattuabilità di qualsiasi processo retroattivo che, superando l'età industriale, potesse portare in chiave nostalgica a uno status precedente: "Non è possibile" - sosteneva Jencks - "tornare a una cultura precedente al sistema produttivo industriale, imporre una religione fondamentalista o anche un'ortodossia modernista".1

Il passaggio tra una società basata sull'industria e l'oggi è evidente anche in Italia, dove negli anni Settanta si conclude la parabola produttiva di molte aziende manifatturiere, estrattive, ma anche di molte industrie di trasformazione e di produzioni tecniche e tecnologiche, lasciando intere porzioni di territorio e di città in un limbo chiamato "dismissione".

Le aziende sorte tra la fine del secolo XIX e la frattura ideologica imposta dalla crisi petrolifera sono collocate sia nelle periferie delle città, dove vengono presto circondate dal tessuto edilizio urbano, sia nei paesaggi rurali. Vicino alle miniere, in orizzonti paesaggistici di grande intensità, si sviluppano insediamenti estrattivi e produttivi, composti da piani di cava o gallerie, magazzini e silos, fornaci e frantoi per la trasformazione delle materie prime, opere meccaniche per la movimentazione delle merci e infrastrutture per il trasporto ai centri di raccolta.

In quei contesti rurali permane oggi la monumentale imponenza dei relitti di edifici che diventano segni significativi per i luoghi e le coscienze individuali. Si delinea così un'immagine di paesaggio industriale, quale spazio artificiale, in conflitto con la natura e il buon governo del territorio. Pierre Lemain elabora negli anni Settanta una definizione perentoria: "Spesso i paesaggi industriali offrono l'immagine poco gradevole di una natura malata, di un mondo ostile che non sembra ammettere altre soluzioni se non la distruzione o la bonifica".2

Ma i resti dell'industria possiedono anche un'aura seduttiva, che impone di considerare la permanenza di alcuni elementi significativi, come strategia operativa per stabilire un rapporto tra il progetto e le identità culturali e materiali passate. La fascinazione per i resti dell'industria è stata condivisa nel tempo da intellettuali, artisti e architetti. In un brano dell'Autobiografia scientifica, Aldo Rossi esalta per esempio la bellezza possente delle rovine industriali: "Penso al faro e ai grandi camini conici del castello di Sintra in Portogallo, ai silos e alle ciminiere. Queste ultime sono le architetture più belle del nostro tempo".

Nell'ambito del dibattito architettonico sui destini del patrimonio industriale dismesso, pertanto, dagli anni Ottanta in poi si sono compiute serie riflessioni teoriche e si sono sperimentate concrete risposte progettuali, derivate dall'urgenza di riappropriarsi dei grandi complessi in disuso che fanno parte del tessuto di piccole e grandi città. Nuovi complessi residenziali, centri commerciali, musei, auditorium e biblioteche hanno così riportato in vita gli scheletri romantici dell'industria attraverso nuovi progetti, mantenendo intatti alcuni riconoscibili frammenti della passata vocazione produttiva. Le aree industriali, bonificate, sono tornate a essere ancora importanti polarità, questa volta aperte alla collettività all'interno di città che si configurano, oggi, come organismi policentrici.


Uno sguardo diverso meritano i molteplici episodi in cui l'industria si è sviluppata lontana dalle città, vicino a siti estrattivi come cave o miniere, collocate in aree di alto valore naturalistico e paesaggistico. Sono luoghi o manufatti che oggi è urgente riqualificare, per assegnare loro nuove possibilità di fruizione. L'immagine malata di un paesaggio industriale che impoverisce il territorio si confronta con la recente necessità di valorizzare il paesaggio in quanto bene culturale comune, un'ipotesi che si consolida nell'anno 2000, grazie alla "Convenzione europea del paesaggio", ma che è recepita dalla nostra normativa soltanto nel 2004, grazie al "Codice dei beni culturali e del paesaggio".

Al tempo stesso evolve una crescente sensibilità nei confronti dei giacimenti minerari dismessi, come opportunità di conoscere una cultura industriale arcaica che si avvale di specifiche soluzioni tecniche, più o meno evolute, le quali, anche se oggi largamente superate, compongono pur sempre un corpus di saperi materiali da non smarrire.

Nel provare a stabilire un nuovo equilibrio tra uomo e natura, e nella necessità di rinforzare un più stretto rapporto tra uomo e cultura per non disperdere un vasto patrimonio di saperi tecnici, la tutela degli antichi siti minerari è un buon pretesto per affermare nuove identità locali a partire dal recupero fisico dei resti dell'industria e da quello, più immateriale, delle memorie collettive. Si tentano, così, inedite interpretazioni dei luoghi, che grazie all'introduzione di una polarità culturale, agiscano sull'aspetto storico, naturalistico e paesaggistico, ipotizzando ricadute anche nel settore turistico.

Il gruppo di ricerca "AMR-APR",3 attivo presso la Facoltà di architettura di Parma, sta conducendo da anni degli studi finalizzati a fornire concreti suggerimenti per mettere a sistema, attraverso il progetto architettonico, le potenzialità di siti ex estrattivi e produttivi oggi ai margini dell'interesse culturale e turistico, ma ricchissimi di potenzialità se letti in un'ottica di riscoperta culturale. In particolare è allo studio un'ipotesi di riqualificazione delle cave di gesso in provincia di Reggio Emilia e il progetto di un museo diffuso sul petrolio a Fornovo di Taro, in provincia di Parma.


L'ipotesi del Parco provinciale del Gesso a Reggio Emilia

Vi sono numerosi tratti di territorio, come i paesaggi di cava, che possiedono le potenzialità per diventare parchi pubblici di vaste dimensioni. In essi il valore negativo dell'industria può essere convertito in un valore positivo, associato alla scoperta individuale di un sistema produttivo passato, da conservare per non smarrire un ricco patrimonio di tecniche e di strumenti. Sul modello di alcune autorevoli esperienze europee si delinea, così, un'indagine finalizzata alla valorizzazione di un sistema di cave e officine produttive dismesse, che compone la cosiddetta Vena del gesso emiliana. Due ottime tesi di laurea, condotte da Serena Pelliciari e Anna Bonvicini,4 hanno elaborato la concreta proposta di un Parco del Gesso nella provincia di Reggio Emilia.

Esporre il territorio come l'io narrante di un'identità passata è il tema sottinteso di questa ricerca, che, partendo dalla lettura di alcuni luoghi simbolici della tradizionale attività estrattiva del gesso, collocati in punti significativi della provincia, ha individuato nella vena di affioramenti di gessi messiniani un sistema di luoghi densi di potenzialità, facili da collegare con percorsi esistenti o agilmente realizzabili, a partire dai quali è possibile percorrere idealmente la storia dell'estrazione del gesso, dalla scoperta del sistema minerario alla costruzione delle prime fornaci, fino agli sfruttamenti recenti che hanno esaurito le cave a cielo aperto, e poi scavato gallerie, oggi in larga parte rimaste da bonificare.

Il sistema di affioramenti gessosi del territorio di Reggio Emilia viene letto pertanto come il prolungamento ideale della Vena del gesso romagnola e dell'esistente Parco regionale dei Gessi bolognesi e Calanchi dell'Abbadessa. L'insediamento operaio di Ca' de Caroli di Scandiano, dove permangono i resti delle industrie estrattive e del castello del gesso; il territorio di Albinea, con il castello di Borzano e la tana della Mussina; le cave di Vezzano sul Crostolo, con il monte del gesso e il patrimonio industriale dell'antica fornace e degli impianti estrattivi: diventano questi i fulcri per un complesso di luoghi da valorizzare.

È stato studiato un sistema di infrastrutture veicolari, percorsi ciclabili, sentieri pedonali e aree di sosta, connessi grazie a punti informativi elaborati con scopo prevalentemente didattico e collocati in ambiti significativi. Si tramanda così, attraverso lo spettacolo dei paesaggi, la visione dei manufatti e l'andamento dei percorsi, la memoria di una storia poco nota, che ha significativamente mutato l'aspetto del territorio e l'identità culturale delle popolazioni di quelle valli nel corso dei secoli.


L'ipotesi del Museo diffuso del Petrolio a Vallezza

Potrebbe sembrare un paradosso, in tempi di crisi, pensare un nuovo museo come opportunità di rilancio economico per un piccolo centro. In realtà la proposta, tutt'altro che infondata, muove dall'idea di valorizzare una porzione di territorio e un piccolo villaggio, a partire dalla messa in scena di una radicata identità collettiva. Una scommessa per proporre nuovi modelli di crescita, fondati anche sull'iniziativa culturale.

La vicenda dell'estrazione del petrolio a Fornovo di Taro è una storia affascinante. Risale agli inizi del XX secolo la scoperta, nella frazione di Vallezza, di un consistente giacimento petrolifero. Da allora il piccolo borgo trasforma la propria vocazione contadina in cultura mineraria, e gran parte della popolazione trova nuovo impiego nella nascente industria estrattiva, mutando radicalmente la propria identità, senza snaturare del tutto né la matrice contadina né il carattere dei luoghi. Vita rurale e cultura industriale si intrecciano indissolubilmente all'interno di un luogo il cui fascino deriva da fattori ambientali, ma anche dalla storia estrattiva, generando una condizione di fatto unica.

Ai piedi del crinale su cui sorge il piccolo centro di Vallezza è ancora presente il cuore dell'impianto vero e proprio, il Cantiere, con le Officine che oggi rappresentano un affascinante esempio di patrimonio industriale da recuperare, e con la Forgia dove si producevano artigianalmente gli strumenti e i macchinari dell'impianto. Poco distante permangono i resti del deposito, gli uffici, la residenza del direttore di miniera e la casa dei capiturno. Nei pendii, tra gli insediamenti di Ronco di Sotto e Besanello, si apre l'ampia vallata di estrazione, dove si perforavano i pozzi, si costruivano i gasometri e si realizzavano ingegnose centrali di pompaggio che gestivano contemporaneamente più pozzi grazie a un sistema meccanizzato ideato e prodotto in loco. Oggi i resti di quelle industrie sono sparsi nel bosco, ai visitatori appaiono come objets trouvés, a comporre i frammenti di un'unica storia.

Quella di realizzare un museo per conservare la cultura materiale del petrolio, e divulgare la memoria collettiva di un episodio unico nella situazione italiana, non è certo un'idea nuova, e trova riscontro costante nelle numerose richieste di visita che provengono da parte delle scuole ma anche da privati. Una convenzione stipulata tra l'Università di Parma, il Comune di Fornovo di Taro e l'azienda Gas Plus, attuale proprietaria delle aree, ha il compito di approfondire il tema proponendo modelli strategici concreti per dare nuovi valori condivisi all'area appenninica di Vallezza.

Costruire qui un museo del petrolio non può certo limitarsi a esporre resti industriali, manufatti e campioni di materiali come testimonianze di una cultura passata. Il tema sottinteso è piuttosto l'esigenza di utilizzare la forza comunicativa di quel paesaggio, degli edifici industriali, dei manufatti e l'insieme delle testimonianze immateriali di chi in quei luoghi ha vissuto e lavorato, come autentici "oggetti" da esporre. Una collezione di oggetti, concetti, memorie e luoghi, può essere messa a sistema attraverso una concezione contemporanea di museo, inteso quale spazio dinamico della narrazione, custode di patrimoni materiali e immateriali e luogo aperto alla sperimentazione individuale.

Gli stessi caratteri morfologici delle Officine e della Forgia, che presentano la tipica forma di "capannone" a navata unica, con tetto a doppia falda, utile per la movimentazione dei macchinari, si rivelano adeguati a un'ottimale articolazione degli spazi espositivi interni, mentre la contiguità tra il Cantiere, il villaggio dei minatori e l'area di estrazione, rende praticabile l'ipotesi di un parco museo. Un luogo che, grazie a percorsi efficacemente strutturati, può mettere in scena il racconto dell'epopea del petrolio, attraverso i luoghi dell'estrazione, gli spazi della produzione e i ricordi dei testimoni che, adeguatamente ricomposti, costituiscono un importante spaccato della memoria collettiva.

Alcune riflessioni sull'idea di un museo del petrolio si sono sviluppate nell'ambito di un convegno realizzato nel giugno 2011 dall'Università di Parma con il contributo del Comune di Fornovo e della Gas Plus. Un appuntamento che - grazie ai lavori del Laboratorio di progettazione architettonica 2 della Facoltà di architettura, e all'intervento di docenti e studiosi - ha offerto spunti eterogenei e approfondimenti sul tema dell'archeologia industriale, dei nuovi modelli dell'esporre, dei musei estesi al territorio.

L'idea di riconoscere Vallezza come un giacimento culturale è invece alla base dell'ottima tesi di laurea conclusa da Luca Conti e Andrea Ravanetti.5 L'ipotesi di considerare museo l'intero paesaggio estrattivo - dal sistema di objets trouvés ai manufatti industriali delle Officine e della Forgia, al borgo di Vallezza, che diventa il pretesto per costruire una foresteria dedicata alle scolaresche in visita - ha permesso di interpretare il piccolo sistema territoriale come una nuova polarità culturale decentrata, necessaria non solo per narrare la vicenda del petrolio sfruttando positivamente le potenzialità naturali e comunicative di un'area di crinale, ma anche per costituire un baricentro culturale, importante per fare sistema con altri poli espositivi della provincia, come il Museo "Ettore Guatelli" a Ozzano Taro e gli altri piccoli musei dell'Appennino.


Note

(1) C. Jencks, What is Post-Modernism?, London - New York, Academy - St. Martin's, 1986, p. 7.

(2) P. Lemain, Quand l'industrie laisse des paesages, "Lotus" 1977, 14, pp. 21-55.

(3) Il gruppo di ricerca "AMR-APR - Architettura Musei Reti - Architettura Paesaggio Reti", è attivo nella Facoltà di architettura dell'Università di Parma dal 2005. Il gruppo, coordinato dal professor Aldo De Poli, docente di Progettazione architettonica e coordinatore di dottorato di ricerca, è composto da vari docenti e ricercatori (Monica Bruzzone, Roberta Borghi, Federica Arman, Maria Amarante, Luca Vacchelli, Alessandro Massera, Lucio Serpagli) e conta su collaboratori ed esperti che provengono dall'ambito accademico e dalla professione di architetto.

(4) Le due tesi di laurea, discusse alla Facoltà di architettura dell'Università di Parma, sono di Serena Pelliciari (La linea del gesso. Un viaggio sublime tra il gesso e la storia. Un Museo e centro studi sul gesso a Vezzano sul Crostolo, Reggio Emilia, anno accademico 2010-2011, relatrice: Monica Bruzzone) e di Anna Bonvicini (Gesso, società e patrimonio industriale sulle colline reggiane. Proposta per un Museo a Ca' de Caroli di Scandiano, anno accademico 2010-2011, relatrice: Monica Bruzzone).

(5) Luca Conti e Andrea Ravanetti, Giacimento culturale. Il museo del Petrolio a Vallezza, Facoltà di architettura dell'Università di Parma, anno accademico 2010-2011, relatore: Luca Vacchelli, correlatrice: Monica Bruzzone.

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