Rivista "IBC" XV, 2007, 3

musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali / didattica, progetti e realizzazioni

Nel Museo paleontologico di Salsomaggiore Terme uno speciale plastico permette di "stappare" la storia geologica della Pianura Padana.
Quando in Emilia c'era il mare

Giovanni Battista Pesce
[IBC]
Gian Battista Vai
[docente di Geologia all'Università di Bologna]

L'amicizia con un geologo è come un terremoto. Dopo un simile incontro la terra non è più ferma. L'osservazione di un panorama che prima veniva memorizzata come scatto fotografico diventa un'animazione. Leggere nei libri il succedersi del tempo si trasforma in immagine in movimento e la terra pulsa, ribolle. La Pianura Padana è il teatro di molte offerte museali. A Castell'Arquato (Piacenza) e a Salsomaggiore Terme (Parma) questo teatro, grazie a delle splendide balene, narra l'alternarsi delle onde di un mare che originò questa pianura e che vi potrebbe ritornare. Grazie ai percorsi allestiti dagli operatori di questi musei i reperti fermi nelle vetrine iniziano a muoversi descrivendo un'affascinante storia che ci aiuta a comprendere il passato, il presente e il futuro.

Per offrire un'ulteriore emozione che faciliti tale comprensione si è ritenuto utile realizzare un percorso immaginario che riproducesse un mare dove oggi ci sono le nostre città. Con la stessa emozione di quando il tappo di una bottiglia di frizzante vino gioiosamente esplode verso l'alto, si è voluto far "saltare" la Pianura Padana e comprenderne il passato. Il simbolico "stappamento", immaginato da chi scrive davanti a una bottiglia di Malvasia secca, grazie alla consulenza scientifica del professor Gian Battista Vai (docente di Geologia all'Università di Bologna) e della capacità tecnica e artistica di Maurizio Pieri, si è tradotto in uno strumento didattico installato presso il Museo paleontologico "Il Mare Antico" di Salsomaggiore Terme. Uno strumento prezioso per capire la nostra storia ma anche per facilitare la comprensione del nostro divenire.

[Giovanni Battista Pesce]

 

Prima ci fu la geografia. La geografia descriveva la Terra piatta, rotonda, anche sferica, ma sempre a due dimensioni. Poi venne la geologia. La geologia invitava l'uomo a penetrare la Terra e a scoprire la terza dimensione, lo spazio, e la quarta, il tempo. E così l'uomo della Terra imparò a gustare il fascino arcano e a capire i processi e la storia. Athanasius Kircher, grande scienziato gesuita in Roma, chiamò Mundus Subterraneus una delle tante sfide intellettuali alla scoperta della Terra. Che è un percorso arduo, per certi aspetti innaturale, per l'umanità sempre attirata dal cielo e dalla luce e che rifugge dall'oscurità e dai recessi. Eppure è il solo modo per ritornare alle radici del grembo universale e capire le origini della materia, dell'energia, della vita, della storia.

Il geologo ha un senso in più, e avverte come una missione il fare in qualche maniera partecipe della sua sensibilità tutta la restante umanità. Per bucare la barriera romantica o banale del paesaggio e intravedere come in una radiografia - o ancor meglio, in una tomografia assiale computerizzata - le rocce e le strutture del sottosuolo e risalire quindi agli innumerevoli paesaggi che hanno preceduto quello attuale, riuscendo a sapere anche quando ciascuno di essi si è formato. I plastici allestiti per il Museo paleontologico "Il Mare Antico" di Salsomaggiore Terme sono un esempio ben riuscito di quest'opera di alfabetizzazione geologica, che in paesi come l'Italia dovrebbe spingersi al proselitismo per stimolare la necessaria autocoscienza.

L'idea brillante, si badi bene, è venuta a un museologo, non a un geologo. Ma si tratta di un museologo abituato da tempo a dialogare coi geologi e di uno speleologo capace di filmare il sottosuolo, ben cosciente, quindi, di quel famoso sesto senso in più. Se nella Pianura Padana tempo addietro c'era il mare, diamo forza e consistenza materiale al concetto così apparentemente semplice per chi ha sensibilità geologica, ma così ostico da immaginare per i ragazzi delle scuole e per la moltitudine informe e scientificamente ancor più acerba degli adulti. Detto fatto, l'idea forte è diventata: "Stappiamo la Pianura Padana come fosse una bottiglia di Bonarda piacentina o di Sangiovese di Romagna e assaporiamo il gusto inconfondibile del vino contenuto".

A questo punto il geologo ha steso il progetto, allestito le carte con i contenuti, e scritto la sceneggiatura; a sua volta l'artista ha sperimentato i bozzetti e realizzato i plastici e la meccanica dello "stappamento" secondo modalità che nel Rinascimento avrebbero definito "meccaniche". E, come nel Rinascimento, ideatore-committente regista-progettatore e artista di bottega si sono confrontati dialetticamente nel creare una macchina che affascinasse "il principe e il popolo", e che oggi fa mostra di sé a Salsomaggiore. La sceneggiatura di questo film-macchina si sviluppa in tre atti o tavoli, articolati però in cinque quadri o plastici, perché la macchina presenta due diverse "stappature".

Il primo quadro rappresenta la situazione odierna vista con occhio geografico. Un bel frammento del pianeta blu-verde, la Terra, con una tessera della nostra Italia, con la Pianura Padana incastonata fra le Alpi e gli Appennini, lambita dal Mare Adriatico, solcata da fiumi pigri e costellata di mille borghi e città simboleggiati nei puntini rossi dei capoluoghi.

Stappando la Pianura Padana lungo il suo limite pedemontano la macchina offre un primo sussidio didattico per passare dalla geografia alla geologia, dal paesaggio al sottosuolo, dall'oggi allo ieri, dalla statica alla dinamica. Che cosa si stappa in questo secondo quadro? Il tappo che si solleva, come per magia, è l'insieme dei sedimenti di età genericamente quaternaria. Togliere il tappo del Quaternario equivale a togliere tutti i sedimenti deposti a partire da un milione e mezzo di anni fa. Tolto il tappo, appare una depressione molto articolata, con tre buche separate da due pilastri. Le prime due sono la buca di Pavia e la buca di Mantova, profonde rispettivamente fino a 1.500 e 1.750 metri e separate dal pilastro delle pieghe emiliane. L'insieme delle due buche è chiuso a est dal possente pilastro delle pieghe ferraresi, a cui segue la buca di Ravenna, una vera fossa adriatica profonda circa 2.500 metri, un esempio residuo di quella struttura che i geologi chiamano avanfossa.

Queste buche hanno un significato geologico più che geografico. Non ci danno direttamente la profondità del mare a un milione e mezzo di anni, bensì la profondità e l'ammontare della subsidenza (cioè abbassamento del fondale nel trascorrere di quel tempo). Tecnicamente la profondità (e lo spessore equivalente di sedimenti) sono rappresentati con isolinee che separano fasce di colore più intenso con l'aumento di profondità. La prima isolinea (la più alta) si trova a -100 metri: le altre a -250 e multipli di 250 metri.

Il terzo quadro, di geografico, mantiene solo la base, espressa nel Mar Ligure: tutto il resto è rappresentazione geologica. Qui viene tolto un tappo che ha superficie e limiti identici a quelli del primo tavolo e che comprende sia la porzione di Quaternario del primo tavolo che tutti i sottostanti sedimenti fino alla base del Pliocene. Ciò equivale a togliere i sedimenti deposti a partire da poco più di 5 milioni di anni fa. Anche qui la profondità (e lo spessore equivalente di sedimenti) è rappresentata con isolinee che separano fasce di colore più intenso. La prima isolinea (la più alta) si trova a -1.000 metri di profondità; le altre a multipli di 1.000 metri, fino a superare i 7 chilometri.

I sedimenti del Pliocene e del sovrastante Quaternario, che sono stati sollevati con il tappo, in una parte dell'area sono ancora indeformati (vale a dire nell'assetto in cui si sono deposti sul fondo del mare pliocenico e quaternario) e nell'altra parte sono stati piegati e incorporati nelle catene montuose ai due lati della Pianura Padana. Il Pliocene e il Quaternario indeformati riempiono tutta la depressione, contrassegnata dai vari toni di blu, che attraversa il plastico da ovest a est. Nella depressione si evidenziano ancora la buca di Pavia (fino a -3 chilometri), quella di Mantova (fino a oltre -7 chilometri) e quella di Ravenna (fino a oltre -6 chilometri). Il Pliocene e il Quaternario piegati riempiono invece le buche minori evidenziate all'interno delle pieghe del Monferrato (colore giallino), delle pieghe emiliane (colore rosso chiaro) e soprattutto delle pieghe romagnole e adriatiche (colore rosso chiaro). Fuori della zona stappata i vari colori distinguono porzioni diverse, per età deformativa e composizione, delle catene che circondano la Pianura Padana.

Il quarto quadro è una rappresentazione paleogeografica. Raffigura plasticamente, seppur a grandi linee, la geografia di un passato geologico non troppo lontano, nel Pliocene medio: il Piacenziano, intorno a 3 milioni di anni da oggi. Le aree color nocciola rappresentano terre emerse, con indicazione delle principali dorsali montuose nelle Alpi e negli Appennini settentrionali. Con vari toni di azzurro, invece, sono indicati i mari e la loro batimetria. I tre gradini che si incontrano a partire dalla linea di riva pliocenica sono le paleolinee di profondità (o isobate) a -500, -1000 e -2000 metri. Naturalmente la geografia del Pliocene era assai diversa da quella odierna. Se ne ha un'idea comparandola con la linea di costa attuale sovraimpressa in rosso.

Una linea verde arcuata rappresenta il lineamento insubrico, che separa la catena delle Alpi a nord-ovest dalla catena assai diversa delle Alpi Meridionali a sud-est. Due linee verdi convergenti rappresentano i fronti della catena appenninica in fasi successive di espansione verso est: il fronte della catena al Burdigaliano (circa 18 milioni di anni fa) e al Tortoniano (circa 11 milioni di anni fa); il successivo verso nord-est era allora in corso di formazione e nel plastico viene suggerito da alcune isole allungate (come l'isola del Monferrato) e da sottili penisole arcuate (come l'arco del Vogherese-Piacentino, l'arco del Sillaro, il minuto arco del Marecchia, in successione da nord-ovest a sud-est). Le depressioni marine costituiscono buoni esempi di ciò che i geologi chiamano bacini satelliti e avanfosse minori. L'ampio golfo veneto è delimitato dai promontori istriano a est ed euganeo-lessino a ovest, e dall'isola adriatica di fronte a Ravenna e Rimini: nell'insieme esemplificano le culminazioni dell'avampaese adriatico.

Il vasto golfo padano appariva quindi assai articolato come paesaggio e vario nei suoi fondali e nella batimetria, come risulta anche dalla ricchezza e varietà dei suoi fossili. A questo punto appare più comprensibile come i mari del golfo padano fossero solcati da balene e pesci spada e contemporaneamente vi prosperassero i sirenidi, parenti degli odierni lamantini, frequenti ormai solo nel grande estuario oceanico del Rio delle Amazzoni. E si spiega anche come nelle lunghe umide pianure grandi branchi di mastodonti astigiani (progenitori degli elefanti) pascolassero a poca distanza dalle balene emiliane.

Il quinto quadro segue gli stessi criteri di rappresentazione e di simbologia del quarto: raffigura plasticamente, e in maniera ancor più semplificata poiché è più lontano nel tempo, la geografia del passato geologico nel Miocene superiore, e più precisamente nel Tortoniano superiore, intorno a 11 milioni di anni da oggi. I quattro gradini che si incontrano a partire dalla linea di riva, e che separano fasce a vari toni di azzurro, sono le paleolinee di profondità (isobate) a -500, -1.000, -1.500, -2.000 metri.

La terra emersa (in nocciola) è divisa in Alpi Meridionali a sud-est e Alpi a nord-ovest dalla solita linea verde (il lineamento insubrico). La fascia meridiana di terra emersa rappresenta gli Appennini settentrionali che erano svincolati dalle Alpi nel loro movimento per mezzo di una faglia trascorrente (linea verde est-ovest). Il tratto di linea verde meridiana in basso a sinistra separa la porzione di catena eocenica alpina dalla porzione burdigaliana di catena appenninica, il cui fronte è segnato dalla linea di riva. La linea verde successiva a nord-est è il fronte della catena tortoniana. A nord-est di essa appare ancora la depressione corrispondente alla porzione più esterna dell'avanfossa della formazione Marnoso-arenacea, che era già in fase di colmamento. Al suo limite meridionale appare l'apice dell'avanfossa della Laga, che invece era ancora in marcata subsidenza.

Qui non si può più parlare di golfo padano e neppure di Mare Adriatico. Gli Appennini settentrionali erano una dorsale meridiana stretta e lunga che occupava la posizione dell'odierno Mar Ligure, mentre il Mar Tirreno era appena un bassofondo o un arcipelago. In sostanza, la gran parte dell'Italia era ancora un mare di profondità e caratteristiche decisamente oceaniche. Un mare che formava un tutt'uno col Mediterraneo centrale e orientale, a sua volta ancora collegato con l'Oceano Indiano. Proprio queste condizioni oceanografiche consentivano le emissioni gassose fredde che, a grande profondità, davano origine a oasi lussureggianti di organismi ad alimentazione chemiosintetica in pieno buio (i cosiddetti "calcari a Lucina", scoperti proprio in Appennino da un secolo e mezzo: www.venadelgesso.org/fossili/fossili.htm). Associazioni simili e con lo stesso tipo di cementazione sono state scoperte negli ultimi venti anni al largo del Giappone, della Florida, dell'Oregon, e del Golfo del Messico. Quello che allora si trovava al posto dell'Italia era un mondo assai diverso da oggi e destinato a cambiare nel giro di pochi milioni di anni.

Il visitatore sarà sorpreso di poter toccare con mano variazioni così cospicue nella geografia del passato prossimo della Terra. Ma forse si sarà mal raccapezzato nel sentir parlare di una catena il cui fronte si sposta nel tempo e nello spazio. Ancora due secoli or sono si discuteva se le catene montuose fossero state create fin dall'origine della Terra o se fossero una conseguenza del Diluvio universale. E se, più laicamente, fossero il prodotto di un evento catastrofico rapido oppure di un costante e stazionario gradualismo. Senza pregiudicare la realtà della Creazione, i geologi oggi sono in grado di documentare che le catene montuose si formano seguendo leggi complesse ma ben delineate e che non devono necessariamente aver operato sempre nello stesso modo e con la stessa intensità nel produrre l'evoluzione del pianeta, con buona pace del grande Charles Lyell.

I plastici che sono in mostra e questa loro succinta presentazione testimoniano quanto e come il nostro pianeta cambi aspetto e struttura in maniera radicale anche in tempi geologicamente brevi, con tutte le conseguenze del caso, anche per noi che ci atteggiamo sempre di più a diventare i suoi dominatori.

[Gian Battista Vai]

 

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